Come il sacerdozio diventa un nascondiglio soffocante per i preti gay
Articolo di Josselin Tricou* pubblicato sulla rivista Sociologie (Francia), 2018/2 (Vol. 9), pp. 131-150, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte quinta
Qui [in questi quattro casi, visti negli articoli precedenti della serie] vediamo echi delle tre possibili risposte a una situazione di difficoltà individuate da Albert O. Hirschman nel 1970: l’uscita, la voce (qui in due forme, corporea e vocale), e la lealtà (silenziosa alla chiesa).
Particolarmente interessante è il caso di padre Adrien, la “talpa” che impersona la lealtà silenziosa alla Chiesa e tutta una generazione di preti e religiosi gay francesi ordinati durante il pontificato di Giovanni Paolo II (1978-2005), succeduto a quello che Denis Pelletier definisce “la crisi cattolica” degli anni ‘60 e ‘70.
Generalmente considerata una generazione cardine dal punto di vista della “ricostituzione dell’ideale sacerdotale” (Céline Béraud), i suoi sacerdoti per la maggior parte incarnano ciò che Philippe Portier chiama “il cattolicesimo identitario”, in reazione al “cattolicesimo aperto” che conobbe molta diffusione negli anni ‘70 e ‘80.
Questa tendenza [identitaria], se pure avviata già alla fine degli anni ‘70, divenne chiaramente visibile durante gli anni ‘90, quando questi giovani sacerdoti apparvero nel rarefatto mondo del lavoro ecclesiastico. Volevano separarsi dai loro parrocchiani, ed essere un modello per loro, quindi scelsero di indossare la talare, o il completo clericale di giacca nera e camicia, per dimostrare così di non essere d’accordo con il presunto lassismo dei sacerdoti più anziani, ripetendo anche rigidamente la retorica morale proveniente dal Vaticano.
Sotto questo punto di vista, la vita pubblica di padre Adrien è un esempio lampante della sua generazione, ma è una vita che dimostra di essere più che mai “divisa”, e il suo “nascondiglio” (che giunge quasi a rivendicare) è particolarmente scioccante.
Questo perché, sebbene il nascondiglio e l’omofobia interiorizzata possano essere utili per adattarsi a una società fondata sull’eteronormatività [1], sono sempre meno tollerati nella [nostra] società, a causa della relativa liberalizzazione del matrimonio omosessuale e della creazione di nuovi mezzi di soggettificazione, caratterizzati dalla messa in discussione della maturità e della sincerità dell’individuo, tanto dentro che fuori dal cattolicesimo.
Dato che padre Adrien appare tanto fedele alla retorica omofoba cattolica, quanto incapace di uscire allo scoperto come gay, non sorprende che si sia dimostrato sospettoso verso la mia ricerca, e più in generale verso gli studi sul genere e la sessualità, in quanto vi percepisce una minaccia alla sua persona.
Infatti, in uno dei rari studi in lingua francese sui sacerdoti gay, Hélène Buisson-Fenet (2004) riconosceva fin dall’inizio della ricerca che sarebbe impossibile, per i sociologi, approcciare i sacerdoti che corrispondono a questo profilo, pur essendo evidente, per le persone addentro la Chiesa, che sono molti: “L’orientamento omosessuale nella vocazione sacerdotale è una questione che riguarda sacerdoti che hanno alle spalle esperienze e ambienti molto diversi tra loro, ma è molto più facile ottenere un’intervista con chi proviene da spiritualità più aperte e da ambienti che promuovono la libertà di parola”, questo perché tali sacerdoti sono obbligati a sviare l’attenzione per poter rendere inaccessibile la loro doppia identità di devianti, e questo li caratterizza fortemente, sia nella Chiesa che nella società, in quanto sacerdoti che ripropongono in maniera molto rigida la retorica omofoba, persino nelle situazioni pastorali [2], e che quindi vanno controcorrente rispetto alla società e alla Chiesa stessa.
Questo si collega alla “inversione sulla tematica dell’omosessualità” (Éric Fassin), e produce individui che, con la loro pratica dell’omosessualità, contraddicono la posizione dell’istituzione che hanno promesso pubblicamente di incarnare.
Da questo punto di vista, padre Adrien manterrà il suo ruolo di guardiano e proteggerà dalla mia curiosità il doppio segreto della sessualità, specialmente quella dei preti gay. Ma se rifiuta così strenuamente di lasciarmi entrare nello “spettacolo del nascondiglio” (Eve Kosofsky Sedgwick) è anche perché il nascondiglio è molto meno segreto e sicuro di prima, e lui lo sa.
Sempre più cattolici, che siano pro- o anti- persone LGBTIQ, sono consapevoli dell’omosessualità: “Ma perché scrivi una tesi sulla mascolinità dei preti? Devi concludere così: sono tutte checche!” mi dice ridendo un mio conoscente cattolico, non senza una traccia di omofobia.
In realtà, il fatto che il sacerdozio cattolico sia un nascondiglio quasi perfetto (per i gay) non è più un segreto, o meglio, è un segreto parzialmente rivelato.
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[1] Intendo, per “eteronormatività”, “quel sistema asimmetrico e binario di genere che permette l’esistenza di due, e solo due, sessi, in cui il genere corrisponde perfettamente al sesso (il genere maschile al sesso maschile, il genere femminile al sesso femminile), e in cui l’eterosessualità (riproduttiva) è obbligatoria, o perlomeno desiderabile e rispettabile” (Kraus, citato da Judith Butler).
[2] Le situazioni pastorali possono essere definite “le prassi istituzionali locali che mirano a diffondere il messaggio cristiano nelle situazioni di vita vissuta, lì dove esso può essere ricevuto” ( Hélène Buisson-Fenet).
* Josselin Tricou è assistente al Laboratorio di studi di genere e sessualità (LEGS) all’Università Parigi 8.
Testo originale: Recreating “moles”: Managing homosexual priests’ silence in an era of gay marriage