La chiesa e il matrimonio gay. Dall’amore cristiano all’antopologia profana
Articolo di Olivier Roy* tratto dal sito del quotidiano Le Monde (Francia), del 27 settembre 2012, liberamente tradotto da Erika P.
La condanna del matrimonio omosessuale da parte della Chiesa è logica. Non solamente perché l’omosessualità è rigettata nella Bibbia: la Chiesa, infatti, ha fatto dei progressi nell’avvicinarsi agli omosessuali, ormai percepiti come individui degni, nel migliore dei casi, di rispetto e, nel peggiore dei casi, di compassione.
Il rifiuto del matrimonio omosessuale da parte della Chiesa deriva innanzitutto dal fatto che questo (contrariamente ai Pacs) sembra una contraffazione del “vero” matrimonio. È quindi attorno al senso e alla funzione del matrimonio che verte il dibattito.
Ora, la cosa curiosa nelle ragioni addotte da una parte e dall’altra è che si ha l’impressione di assistere a un dibattito a fronte inverso.
La ragione a favore del matrimonio omosessuale è, tutto sommato, ampiamente cristiana. Perché, quale sarebbe il motivo per cui gli omosessuali vorrebbero sposarsi se non fossero sinceramente attratti da ciò che il matrimonio sta a significare, al contrario dei pacs o “dell’amore libero”, come si diceva una volta?
L’esigenza del diritto al matrimonio, al di là di un egualitarismo astratto, corrisponde al rifiuto di ciò che per lungo tempo è stato percepito come un marchio dell’omosessualità (in ogni caso maschile): il nomadismo sessuale e la totale promiscuità, per farla breve la cultura delle backroom e delle saune.
All’opposto, volere il matrimonio è rifiutare la dissociazione tra amore e sessualità, è voler iscrivere la coppia nella durata, non solo dei congiunti, ma anche della loro discendenza (in tal senso si può parlare di uno scivolamento degli ambienti omosessuali verso il conservatorismo sociale, la promozione della famiglia e la ricerca della rispettabilità, che politicamente si tradurrà in un passaggio a destra, dal momento in cui la legge sarà votata).
Questo omaggio del “vizio” alla “virtù” dovrebbe essere percepito come una buona notizia dai difensori del matrimonio. Ovviamente non è così, ma la Chiesa è in trappola: come definire il matrimonio diversamente dalla sublimazione della sessualità nell’amore e nella fedeltà, divenuta l’argomento degli omosessuali?
Certo, la concezione del matrimonio all’interno della Chiesa si è evoluta: nei Vangeli, si tratta soprattutto di contenere “l’atto della carne”, se non si riesce a sublimarlo nell’astinenza.
È solo a poco a poco che il matrimonio è diventato un valore in sé: l’amore dei congiunti è ormai definito come un riflesso dell’amore di Cristo, la fedeltà come un valore in sé e la felicità coniugale come un obiettivo tanto sano quanto santo.
L’ondata di libertà sessuale che ha caratterizzato il XX secolo ha spinto la Chiesa ad affinare il proprio discorso, valorizzando l’armonia tra sessualità e amore nella fedeltà della coppia, che permetterebbe una vera realizzazione di sé, a differenza della libertà sessuale che disprezzerebbe sia l’amore sia il corpo, portando stanchezza, noia e disgusto di sé.
Ora, nell’argomentazione della Chiesa contro il matrimonio omosessuale, l’amore scompare senza lasciare tracce, e non per caso: esso è infatti il leitmotiv dei pretendenti all’anello omo-nuziale. Cosa dice allora la Chiesa? Che il matrimonio omosessuale minaccia i fondamenti antropologici della nostra società e che l’amore può esprimersi solamente nei limiti di tale modello antropologico.
Il cardinale (francese) Philippe Barbarin parla di “cambiamento di civiltà” e dichiara che la famiglia si fonda “su quell’amore complementare e duraturo tra l’uomo e la donna: è una questione nel senso sociologico e antropologico del termine.
Vi è una profonda una scelta di civiltà che riguarda il modello famigliare come la fine della vita”, mentre Mons. Bernard Podvin, portavoce della Conferenza dei vescovi di Francia, dichiara che l’amore omosessuale “pone una questione antropologica”.
Da un certo punto di vista, si tratta di buon senso: non vi è mai stato consenso all’interno della Chiesa o della società sul fatto che il matrimonio fosse fondato sull’amore (basta leggere la prima lettera ai Corinzi 7:1-2).
Ma cosa c’è di più profano di una ragione antropologica? Quindi, il mio parere a tutte le ex giovani coppie che hanno seguito i corsi di preparazione al matrimonio e la pastorale dei fidanzati: sarebbe stato meglio leggere Lévi-Strauss piuttosto che conciliare il Vangelo, la poesia di Paul Eluard e la tenerezza.
D’altronde, se il matrimonio fosse definito dall’amore dei partner, non potrebbe più essere presentato come fondamento antropologico della società, ragione addotta dalle culture che prediligono il matrimonio combinato, dall’induismo agli ebrei ultraortodossi: il matrimonio è un affare troppo serio per essere affidato alla soggettività dei giovani in età matrimoniale.
È difficile per la Chiesa contestare che due persone dello stesso sesso possano amarsi, è altresì difficile opporre la “sterilità” della coppia omosessuale, dal momento che vi si può ovviare attraverso l’adozione o le tecniche di procreazione artificiale. Pertanto rimane solamente la ragione antropologica: l’apologia di un ordine naturale che deve sfuggire alla manipolazione. Ma perché ricorrere a una ragione così profana?
La Chiesa, il cui messaggio religioso sembra inascoltabile, cerca ormai una ragione comprensibile per coloro che, credenti o meno, rifiutano sia l’autorità del sacro sia le norme della Chiesa. E tale ragione non può che essere profana, perfino “scientista”. Si invocano le scienze sociali per inscrivere la verità nei fatti piuttosto che nei valori o nella ragionevolezza.
Se, nella prima metà del XX secolo, credenti e non credenti condividevano valori comuni (apologia della famiglia, criminalizzazione dell’omosessualità, rifiuto dell’aborto), ora tale consenso è venuto meno: la cultura secolare dominante non condivide più molto con il cristianesimo, è divenuta più pagana che profana. La società oggi sembra ammettere che i cambiamenti che la stanno attraversando da una cinquantina d’anni abbiano delle conseguenze antropologiche.
A una morale naturale, all’intangibilità della natura umana, si oppongono la libera scelta e tutta la gamma della ricomposizione di se stessi. La Chiesa non ha allora altra scelta che cercare di rifondare un consenso non sui valori, ma sul legame sociale.
Ma nemmeno quest’ultimo esiste più, come scoprono tutti i populisti che tentano di definire una “identità” del popolo, identità ricondotta a qualche povero indicatore. Spetta proprio alla Chiesa lanciarsi in una ricerca d’identità sui fondamenti antropologici della società?
* Olivier Roy è professore presso l’Istituto universitario europeo di Firenze, direttore del programma ReligioWest e autore di La Sainte Ignorance (Seuil 2008)
Testo originale: De l’amour chrétien à l’anthropologie profane