Come Mosè scopri la sua identità nel nome di un Altro (Es 3,1-15)
Riflessioni di Paolo Spina*
Ci vorrebbero le grandi maestre e maestri della Scrittura per accostarsi alla storia di Mosè. Io non lo faccio, come lui stesso, a piedi scalzi di fronte al roveto ardente, piuttosto a mani nude, disarmato.
E la solita Dioincidenza mi fa leggere queste pagine nelle giornate di ottobre vicine al Coming Out Day, un giorno dove si afferma con fierezza chi si è perché anche in tutti gli altri dell’anno chiunque possa disporre della libertà con cui stare al mondo per chi si è e chi si ama.
Chi era, allora, Mosè? Senza aver letto prima il secondo capitolo dell’Esodo, è meno facile assaporare la bellezza della vicenda contenuta nel capitolo successivo. Siamo in Egitto, il popolo degli ebrei è cresciuto e “sorse un altro re sull’Egitto che non conosceva Giuseppe” [Esodo 1,18], quel Giuseppe che non era lì solo per cercare e salvare i fratelli che l’avevano venduto, ma per interpretare i sogni del faraone e preparare il difficile tempo della carestia.
È questo nuovo re “che non conosce” a maltrattare gli ebrei, divenuti così numerosi da ordinarne lo sterminio dei nuovi nati. Allora come oggi il “non conoscere” alimenta la paura, che nutre la violenza: una storia tanto dolorosa quanto nota. E, in questa storia, Dio dov’è?
A me pare di intravvederlo non nella riga striminzita di un ordine di sterminio dato dal potente di turno, ma in quella vicenda tutta al femminile che inizia a dipanarsi: Dio è in quella madre che affida il suo bimbo “bello” [Esodo 2,2] al fiume Nilo, nella figlia del faraone che lo trova e lo chiama Mosè, “salvato dalle acque”, nella sorella di lei che chiama una nutrice, rivelatasi la mamma di Mosè, che lo allatterà, oltretutto pagata dalla corte che ne aveva decretato l’uccisione: quando si dice che Dio sia ironico, non ci si sbaglia mai!
È in questa corte che Mosè crescerà, mentre crescerà nel suo cuore qualcos’altro: il desiderio di andare dai suoi fratelli, oppressi dai lavori forzati. Va; va, però, non come fratello; va come figlio del faraone, con lo sdegno dell’uomo potente che asseconda la sua sete di giustizia uccidendo un egiziano. Dio sta ancora qui?
Non lo so. Intanto Mosè, impaurito dalle conseguenze del suo gesto, fugge a Madian. Madian è deserto, è un non-luogo e, al tempo stesso, è definito dal popolo che lo abita, i Madianiti, discendenti da un figlio di Abramo non nato dalla moglie Sara, alleati dei Moabiti, che a loro volta originano da una relazione incestuosa di Lot con sua figlia: in poche parole, ai margini del mondo civile e oltre a quelli della purezza.
Qui abita il figlio del faraone, qui si rifugia chi libererà un popolo. Qui Mosè perde tutto: la potenza del nome della famiglia e la prepotenza con cui farsi giustizia da sé. Qui, dove tutto sembra morire, dove chi ci abita è definito per una peccaminosa diversità… qualcosa di nuovo comincia.
Qui Mosè si sposa con Sipporà, qui ha due figli; proprio qui, dopo essere stato in qualche modo straniero in Egitto, straniero due volte a Madian, rinnegato da quelli del suo popolo che voleva salvare, ridotto al nulla dell’emarginazione, frustrato e sconfitto… a me sembra abiti Dio. Un Dio che, anche in questa situazione, fa innamorare, fa nascere vite. Che fa rinascere.
Qui c’è Dio. E, finalmente, Mosè può incontrarlo. Il testo parla per immagini, che a noi possono sembrare favolistiche, e che hanno il compito di descrivere l’indescrivibile del fare esperienza di Dio nella propria vita.
Qualcosa di così indicibile da faticare a raccontarlo, come tutto ciò che di grande sa essere, dalle grandi sofferenze ai grandi amori. Così, davanti al segno della presenza divina, “una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto” [Esodo 3,2], Mosè ha una parola e un’azione. La parola è da generazione alpha: spettacolo! L’azione è resa meglio dalla traduzione francese che da quella italiana: anziché “voglio avvicinarmi”, “je vais faire un détour”, allungare cioè volutamente il cammino, senza prendere scorciatoie.
Una necessità in un deserto fatto di altipiani, ma anche volontà di conoscere non superficialmente, non banalmente, non a caso; prendersi il proprio tempo e i propri spazi, senza fretta, con cura. Per vedere cosa? Non un nobile santuario, ma l’albero tra i più vili: il roveto, con le sue spine, dove nessuno va per cogliere frutti, dal quale si sta debitamente alla larga.
Avessi avuto bisogno di una conferma: qui c’è Dio, qui Dio parla. E non parla di qualcosa di astratto, di un dogma da imparare a memoria, da mandar giù così com’è, senza discutere: nel contesto che chiunque eviterebbe – una diversità scomoda – parla, cioè comunica e si vuole comunicare, entrare in relazione, attraverso la novità del mai visto, resa come un fuoco che brucia senza consumare.
Non l’idolo con cui barattare qualcosa di utile, ma un volto nuovo da scoprire quando la vita sembra non aver ascoltato i sogni, dove ancora un fuoco arde, senza bruciare via la speranza, senza consumare, senza distruggere tutto.
Qui c’è Dio, e qui Dio si rivela. E anche lui sembra avere un doppio nome, come alcune e alcuni di noi.
Uno è il nome che a me piace chiamare “pugliese”, perché quando scendo in Puglia, soprattutto per un matrimonio, alcuni conoscenti e parenti di mio marito mi domandano: “Ma tu, a chi appartieni?”, volendo chiedere: “Chi è la tua famiglia?”.
Dio non appartiene a nessuno, perché nessuno può rivendicare e usare il suo nome per negare diritti, commettere abusi, perché alcuni uccidano altre nel suo nome. Se Dio “appartiene” a qualcuno, è per farsi riconoscere: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” [Esodo 3,6]. Dio, per parlare di sé, parla delle relazioni che intrattiene.
Sul secondo nome sono stati e saranno scritti fiumi di inchiostro: “Io sono colui che sono!” [Esodo 3,14]. C’è chi direbbe che è una risposta elusiva, che tenta di dire l’indicibile. In realtà, in ebraico il verbo essere non ha mai il significato più immediato dell’esistere, ma quello più concreto dell’essere in relazione: più che un “essere”, l’“esserci” di chi è presente e lì rimane; l’“essere con” di chi resta insieme; l’“essere per” che garantisce non l’apparizione fuggevole, ma la presenza che si fa compagnia e alleanza.
Non alla corte del faraone, non nel coltello di chi la fa pagare, e nemmeno nel limite della balbuzie, ma in tutte queste vicende, e anche oltre a esse, Mosè conosce Dio e la propria vita, lo stare al mondo che porta nel suo stesso nome da “salvato” e il riconoscersi a servizio della sua gente che soffre e domanda liberazione.
Qui abita Dio, qui sta di casa, come anche io, insieme a tante altre e altri, l’ho riconosciuto nell’imparare chi sono, chi amo, per chi voglio vivere.
*Paolo Spina, medico, appassionato di Sacra Scrittura e teologia femminista e queer, collabora con il Progetto Cristiani LGBT+ e con La tenda di Gionata, scrivendo su temi di attualità e cristianesimo. Trovi le sue riflessioni raccolte nel blog “La porta accanto”.