Come vivono le persone LGBT+ nelle diverse realtà cattoliche?
Articolo di Gregor Jansen* pubblicato sul sito dei gruppi giovanili dell’arcidiocesi di Vienna (Austria) nel marzo del 2013, liberamente tradotto da Sara Pasini
Circa due anni fa, una volontaria dei gruppi giovanili cattolici (dell’arcidiocesi cattolici di Vienna) mi rivelò di aver capito di essere lesbica, e che se avesse avuto una relazione non l’avrebbe voluta nascondere, bensì rendere pubblica. Immaginava che questo non sarebbe stato un problema per me personalmente, eppure mi propose di terminare il suo lavoro come volontaria per non danneggiare l’organizzazione dei gruppi giovanili se si fosse venuto a sapere.
Questa conversazione mi scosse profondamente, non per l’identità sessuale della volontaria, quanto perché dava per scontato che non avrebbe (più) avuto un posto all’interno della Chiesa (cattolica) a causa del suo orientamento.
Come vivono nella Chiesa, nei nostri gruppi e nelle nostre parrocchie, le persone con orientamento omosessuale? E come reagiamo noi, come Chiesa, di fronte alle persone che si affacciano alla loro identità omosessuale?
Don’t ask, don’t tell
A volte si ha l’impressione che nella Chiesa prevalga ancora la politica del “non chiedere, non dire”, come era comune nell’esercito americano fino a poco tempo fa: basta non parlarne. Questo atteggiamento non può avere un impatto positivo, né per le persone omosessuali e il loro ambiente, né per le nostre parrocchie e gruppi.
Doversi nascondere non può essere considerato un atteggiamento cristiano o guidato dallo Spirito! L’autorità magisteriale della Chiesa afferma, nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che le persone omosessuali “[…] devono essere accolte con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione”. (CCC, n. 2358)
A prescindere dal fatto che le sezioni del Catechismo immediatamente precedenti o successive facciano riferimento all’omosessualità come “intrinsecamente cattiva” e affermino che gli atti omosessuali “sono intrinsecamente disordinati”, e che le persone omosessuali siano quindi chiamate alla castità, resta da sottolineare che il Magistero chiede “rispetto, compassione e delicatezza” nei confronti delle persone di orientamento omosessuale. E questo trattamento rispettoso esclude “l’ingiusta discriminazione”: cioè, le persone che hanno deciso di essere aperte sul loro orientamento sessuale dovrebbero ovviamente avere un posto nelle nostre parrocchie, gruppi e organizzazioni ecclesiali.
A questo proposito, il Consiglio pastorale della diocesi di Linz, ad esempio, ha dichiarato nel 1999: “La discriminazione delle persone a causa del loro orientamento omosessuale non può basarsi su princìpi cristiani. Queste donne e questi uomini – come tutti gli altri – sono invitati senza riserve a vivere, celebrare e lavorare nelle nostre parrocchie e istituzioni ecclesiastiche”.
A questo punto, però, sorge la domanda su quanto siamo effettivamente lontani da questo ideale nella pratica quotidiana. Il clamore (in gran parte mediatico) suscitato da un consigliere parrocchiale omosessuale eletto l’anno scorso ha dimostrato chiaramente che un modo naturale e rispettoso di rapportarsi con le persone è ancora molto lontano dall’essere la norma.
Le persone coinvolte replicano che, a causa della loro identità sessuale, sono spesso spinte dalla Chiesa a riconoscere il peccato nelle espressioni fisiche del loro amore e della loro relazione, e sono regolarmente invitate al pentimento: “Non vedo alcuna necessità di pentimento o passo indietro per me in relazione al rapporto con la mia ragazza. Mi sforzo di vivere in accordo con il mio Io più profondo e di stare dalla parte di me stessa e di Dio. Con questa relazione lo sto facendo.
Grazie a questa relazione, il mio cuore è più aperto, la mia vita è più viva. Se non viene turbata dalle circostanze esterne, la mia anima trova pace, tranquillità e sicurezza in questa relazione.
Il fatto è che la mia ragazza fa bene a me e io faccio bene alla mia ragazza. Entrambe beneficiamo molto l’una dell’altra. Non so quanto questo sia innato, naturale o cosa. So che c’è amore” (cit. dalla lettera di una giovane donna a un vescovo austriaco).
Continua poi scrivendo che la relazione esiste, e che le due donne in questa relazione condividono la vita l’una con l’altra senza riserve.
Segnali di speranza
Tuttavia, ci sono alcuni segnali di speranza che anche i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica stiano ripensando la loro posizione. Non solo l’intervento personale del cardinale Schönborn nel già citato caso del consiglio parrocchiale di Stützenhofen, ma anche le dichiarazioni dell’arcivescovo di Berlino in occasione del raduno nazionale dei cattolici dello scorso anno, hanno offerto spunti di riflessione.
Il cardinale Rainer-Maria Woelki ha invocato un atteggiamento positivo nei confronti delle persone omosessuali; facendo esplicito riferimento al Catechismo, ha sottolineato che ci sono molte coppie omosessuali che si promettono impegno e fedeltà. Pertanto, “non vedo nelle relazioni omosessuali, nello specifico, una ‘violazione della legge naturale’” (citato da Die Welt, 27.06.2012).
A prescindere dalle speculazioni su come si sviluppi l’omosessualità o su come nasca, le persone omosessuali vivono il loro orientamento sessuale come una parte della loro personalità che forma la loro identità. In tal senso, le speculazioni su possibili “cure” (che si basano sulla presente patologia nella loro identità sessuale, e mirano a ispirare un cambiamento contrario alla loro persona) non hanno senso di esistere, e non rendono giustizia alla realtà della vita di molte persone omosessuali.
Così, le affermazioni dei vescovi austriaci (nel regolamento ecclesiastico austriaco “La verità vi renderà liberi”) non si applicano solo alle persone eterosessuali: “Ogni persona vive la propria sessualità nella forma della propria identità sessuale come parte costitutiva della sua personalità. La sessualità come esperienza d’amore e piacere per il corpo, proprio e del partner […] appartiene alla parte più intima della persona, che secondo la visione cristiana è intesa come unità di corpo e anima, di corpo e spirito”.
Anche se non cambierà molto nella dottrina della Chiesa, secondo cui il matrimonio sacramentale è possibile solo tra un uomo e una donna, sarebbe possibile per la Chiesa riconoscere la stipula di una “unione registrata” come espressione di due persone che si assumono la responsabilità l’una dell’altra, e promettono di essere fedeli l’un l’altra, e far seguire a questo, ad esempio, delle celebrazioni di benedizione.
In ogni caso, nelle nostre parrocchie dovrebbe essere possibile, per le persone omosessuali, poter sostenere la propria identità senza essere ostacolate o discriminate: nel consiglio parrocchiale, nei gruppi parrocchiali, come animatori di gruppi giovanili, nella Caritas parrocchiale, ecc.
Non c’è posto per la discriminazione
Non c’è dubbio che nelle parrocchie e nei gruppi cristiani non ci debba essere spazio per l’idea, profondamente offensiva e ingiusta, che le persone omosessuali abbiano maggiori probabilità di abusare di bambini e giovani.
Nel regolamento ecclesiastico austriaco “La verità vi renderà liberi” si afferma che: “È sbagliato e ingiusto supporre che le persone di orientamento omosessuale abbiano una maggiore tendenza alla violenza sessuale. L’equiparazione delle persone omosessuali ai ‘molestatori di bambini’ deve essere esplicitamente respinta. Non deve aver posto nella prassi della Chiesa”. Se tali dichiarazioni discriminatorie dovessero ancora verificarsi in casi isolati, coloro che hanno questa opinione devono venir fermamente contraddetti. Se le persone che esercitano cura pastorale fanno tali affermazioni, i rispettivi superiori devono essere informati.
Soprattutto i giovani e giovani adulti che riconoscono una loro tendenza o disposizione omosessuale dovrebbero sentirsi al sicuro nei gruppi ecclesiali, e dovrebbero essere motivati (anche dall’incontro con punti di riferimento, ad esempio i loro capigruppo) a sostenere il loro orientamento. Alla luce di molte discriminazioni e denigrazioni, ad esempio nell’ambiente scolastico, la loro fiducia in se stessi dovrebbe essere rafforzata nei gruppi ecclesiali, e dovrebbero aver la possibilità di essere accettati.
Purtroppo, nella pastorale delle persone omosessuali e in certi ambienti persistono ancora molti rifiuti e denigrazioni, spesso dovuti a ignoranza e pregiudizio. Per offrire una consulenza adatta, molte diocesi hanno creato centri specializzati per la pastorale omosessuale, in collaborazione con i centri di consulenza per coppie, matrimonio, famiglia e vita.
Già nel 1998 il famoso Joop Roeland era stato incaricato della cura pastorale delle persone con sentimenti omosessuali nella nostra arcidiocesi di Vienna – purtroppo, dalla sua morte nel 2010, fino ad oggi nessuno ha ancora preso il suo posto nel dipartimento.
Mentre le Chiese protestanti e veterocattoliche in Austria hanno ampiamente messo in atto il riconoscimento delle unioni omosessuali, la Chiesa cattolica romana ha ancora molte difficoltà a farlo. In particolare, l’adesione alla definizione che gli atti omosessuali sono “intrinsecamente disordinati” fa sembrare improbabile un rapido riconoscimento delle persone omosessuali nell’ambito della Chiesa.
I ripetuti interventi della Chiesa contro le leggi volte a equiparare i diritti (e i doveri) delle unioni omosessuali ed eterosessuali hanno anche portato a una grande perdita di fiducia tra la comunità lesbica e gay. Un esempio sarebbe, considerando la situazione specifica e tenendo conto del miglior interesse nei confronti dei bambini, la possibilità della cosiddetta “stepchild adoption” (l’adozione di un bambino biologico che porta di fatto all’esistenza di una relazione in una coppia), che sarebbe potenzialmente possibile anche nelle unioni omosessuali.
Decisiva per la valutazione della Chiesa resta quindi ovviamente la questione se l’omosessualità sia considerata un peccato, o se questo giudizio categorico debba essere messo in discussione.
Lascio alla donna citata all’inizio l’ultima parola su questo tema: “Credo che Dio voglia che la vita venga vissuta in pienezza da ogni singola persona nella sua unicità. Per alcuni, questo significa una relazione eterosessuale, il matrimonio, i figli. Per altri, una vita celibe. E per altri ancora, significa una vita con un partner dello stesso sesso. Non vedo nell’unione tra persone dello stesso sesso alcun danno agli altri individui, alcun danno alla società e nessuna distanza da Dio (ovvero nessun peccato).
• Nessuno oltre a me può giudicare la mia vicinanza a Dio.
• Diverse persone mi hanno detto quanto sono cambiata da quando ho questa relazione: sono diventata più sciolta, più morbida, più umana.
• E poiché sono cambiata in meglio, questo è di nuovo un beneficio per la società, in particolare per tutte le persone che mi circondano.
Piuttosto, vedrei come un peccato se qualcuno non seguisse quella che sente essere la sua verità più intima”.
Link sul tema:
Gruppo di lavoro sull’omosessualità dell’Opera cattolica per la famiglia della diocesi di Linz: http://www.beziehungleben.at/
Gruppo di lavoro diocesano per la pastorale omosessuale della diocesi di Innsbruck: http://www.dahop.at/
Gruppo di lavoro ecumenico Omosessualità e fede (Vienna): http://www.hug-wien.at/
Pastorale protestante per gli omosessuali e i loro familiari (reverenda Gerda Pfandl): http://www.evang-wien.at/
Regolamento ecclesiastico austriaco “La verità vi renderà liberi”: http://www.hinsehen.at/
* Teologo morale, responsabile della pastore giovanile del vicariato di Vienna-Città (2004-2013), moderatore parrocchiale della parrocchia di Breitenfeld (Vienna 8, dall’autunno 2013), collaboratore alla stesura del regolamento ecclesiastico austriaco “La verità vi renderà liberi” (2010), esperto in vari dibattiti televisivi sul tema del matrimonio omosessuale.
Testo originale: „Ich weiß, es ist Liebe da …“