Coming out con “marito e marito”. Confessioni di un figlio gay
Articolo del 14 maggio 2013 di Valeria Bellantoni tratto dal sito Calabria On Web
Come reagirà la famiglia di Giacomo all’annuncio di essersi sposato con Miguel in Spagna? Lo racconta il giovane pediatra Gianluca Tornese, nel suo romanzo Marito & Marito edito da Calamite (editrice Claudiana, 20129.
Una storia immaginata, ma verosimile, con cui l’autore esorcizza le proprie personali paure ed in cui trova la forza di fare il proprio coming out e dichiarare di essere gay. Nel romanzo c’è la storia di una famiglia che deve fare i conti con la realtà e che rimette in discussione principi e convincimenti.
C’è la storia della ricerca della propria identità. Della liberazione nella scoperta di sé.C’è la naturalezza dell’amore, il linguaggio universale che unisce le persone. Indipendentemente dal sesso e da ogni altra differenza. C’è la testimonianza di un percorso e c’è l’impegno per i diritti civili delle coppie omosessuali.
In un’Italia che si dichiara emancipata, ma si rivela molto ancorata alla tradizione ed alla cultura cattolica, il romanzo di Gianluca Tornese provoca una profonda riflessione.
E vuole parlare al cuore di chi si sente solo e si nasconde per paura di essere se stesso. Incontriamo Gianluca Tornese nel salone della biblioteca del Palazzo della Provincia di Reggio Calabria dove, su iniziativa di Arcigay I due Mari e “Se non ora quando?”, ha presentato il suo libro.
Per quale motivo hai scritto il libro? Da cosa nasce l’idea? Cosa racconti?
Tutto è nato dall’annuncio della legge Zapatero di tanti anni fa che riconosce i matrimoni gay. Ero a casa di amici e quella sera abbiamo immaginato cosa sarebbe potuto accadere se avessi telefonato ai miei genitori per annunciargli il mio matrimonio con un uomo. Non avevo ancora fatto coming out con loro.
Così, quando sono rientrato a casa ho cominciato a scrivere un racconto breve, che poi è diventato il primo capitolo del libro, in cui Giacomo, il protagonista, telefona a casa ed annuncia di essersi sposato, con Miguel, a Madrid. E da lì, da quella situazione surreale ma verosimile, che è nata in me la voglia di andare oltre e descrivere la storia ed ho sviluppato il romanzo Marito & Marito. Il romanzo nasce sicuramente anche dal desiderio di parlare con i miei genitori.
Ed è stato un modo per esorcizzare ed esternare le mie paure. Le mie ansie. E la cosa buffa è che è stato un racconto profetico perché ho azzeccato le reazioni di mio padre, mia madre, dei miei fratelli. Le cose sono andate proprio come le ho descritte nel romanzo.
Quindi non è un romanzo autobiografico ma in qualche modo ti racconta?
Nel libro ci sono molte cose della mia vita. Nel senso che non è autobiografico in senso stretto, però ho inserito tanti elementi che appartengono a me ed ai miei amici. Soprattutto nella proiezione di quello che poteva suscitare il mio coming out.
A proposito della tua vita. Prima di questa esperienza letteraria ed oltre questa, di che cosa ti occupi?
Sono pediatra. Lavoro a Trieste ma sono di Brindisi, dove ho vissuto fino a 18 anni. Poi mi sono trasferito a Siena per l’Università. Un trasferimento anche dovuto al mio riconoscermi diverso dagli altri.
Come stavi a Brindisi?
Aveva iniziato a capire che avevo qualcosa di diverso dagli altri… Appartenendo a una famiglia molto ancorata alla tradizione ed alla cultura cattolica. Già prima dei diciotto anni avevo iniziato a capire che avevo qualcosa di diverso dagli altri. Sentivo il bisogno di vivere di comprendere a pieno la mia identità. Sono andato fuori per capire meglio, per iniziare a vivere e sperimentare la mia affettività.
Siena come ti ha accolto da questo punto di vista, si è dimostrata una città evoluta ed aperta all’omosessualità?
Siena è un luogo chiuso, non è una città molto accogliente di per sé. Non c’erano molte realtà per la comunità omosessuali. Le mie prime esperienze le ho fatte a Firenze e in altri contesti. Mi sono sentito solo. E la cosa più pesante è proprio la solitudine che ti avvolge quando capisci di essere gay.
Inizi a chiederti a chi posso dirlo e come. Per me è stato abbastanza difficile, nei primi momenti, condividere questa esperienza. D’altra parte la condivisione con gli altri implica un lungo e complesso processo di accettazione di sé stessi. È il primo fondamentale passo.
Capire di essere gay è stato doloroso per te?
Per me si. Perché cercavo di sopprimere il pensiero. Mi dicevo è un momento di confusione. Poi tutto rientra. Il mio punto di svolta è stato nel confronto con le coppie omosessuali che vivono normalmente, nel quotidiano, la propria affettività. La normalità di una relazione mi ha fatto vedere la realtà.
E cioè che la l’omosessualità, o meglio omoaffettività, non è quella che passa attraverso la televisione. Ha un’altra dimensione. Molto più vera. In questa dimensione io mi sono riconosciuto, identificato, accettato. E mi sono detto anche io sono gay. Solo dopo è arrivato il momento della condivisione con la famiglia, con gli amici e con gli altri.
La rivelazione della tua identità affettiva alla tua famiglia è arrivata dopo il romanzo, ma l’avevi immaginata nel libro. Raccontaci come è stata, cosa è successo?
Ho approfittato di un rapporto serio e duraturo con il mio compagno ed ho preso da parte prima mio padre e poi mia madre per parlargli. La cosa strana è che i miei in fondo lo sapevano, lo immaginavano da almeno sei sette anni, ma tra loro non ne avevano mai parlato. Mia madre mi ha detto ti raccomando non dirlo a papà che gli prende un infarto. Mio padre mi ha detto ti raccomando non dirlo a mamma che le prede un infarto. Si sono protetti a vicenda.
Poi è iniziata la fase in cui hanno tentato di convertirmi. Con frasi del tipo: se ce l’avessi detto prima avremmo potuto aiutarti, ti avremmo aiutato a guarire. Cose di questo genere. Ci hanno provato per un bel po’ a dissuadermi. A volte in maniera più aggressiva. A volte in maniera più subdola. A volte in maniera silente.
Ed hanno imputato delle responsabilità al tuo compagno?
No, come spesso succede si sono dati delle responsabilità, delle colpe. Sono stata una madre troppo presente. Sono stato un padre troppo assente. Come se necessariamente un figlio gay fosse il prodotto di un disagio familiare. È stato un momento piuttosto duro. Un percorso complicato. I primi tempi sono stati difficili. Quando ero con il mio compagno loro sparivano e non volevano sapere niente di questa parte della mia vita. Poi con il tempo, per fortuna, il clima è cambiato.
Ora il mio compagno fa parte della mia famiglia. È accettato senza nessun problema. C’è stata una grossa evoluzione da parte della mia famiglia. Credo che anche conoscerlo abbia contribuito tanto. Hanno visto che lui è una persona che mi ama. Che il nostro è un rapporto normale. Esattamente come quello dei miei fratelli con le loro mogli. E che non c’è nulle di strano. Di trasgressivo. Che due uomini che si amano non sono due che vanno in giro con le paillettes.
Nel tuo romanzo, già nel titolo, riconduci il racconto al concetto del matrimonio come consacrazione del rapporto di coppia omosessuale.
Affronto il tema del matrimonio in un capitolo in cui la coppia conosce gli amici di Giacomo, il protagonista, a Brindisi, la sua città. È anche l’incontro tra una coppia omosessuale che ha voluto e scelto di consacrare anche davanti alla legge il proprio amore e coppie etero che, pur avendo diritto al matrimonio, non sempre hanno il senso di responsabilità rispetto alle scelte di vita.
A che punto è l’Italia, secondo te, rispetto al tema del matrimonio omosessuale?
Siamo il fanalino di coda dell’Europa. Per non parlare degli altri Paesi.
Qual è la rivoluzione culturale che in Italia va fatta per concepire come un fatto naturale e normale il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Secondo te perché bisogna essere a favore dei matrimoni gay?
L’evoluzione richiede un lavoro su due versanti. Uno alla base, che si costruisce sulla testimonianza. Se i propri amici, la propria famiglia accolgono la coppia gay sposata ciò significa che già nei piccoli nuclei sociali, dove si compie la maturazione della cultura, la diversità viene approvata ed accettata come un fatto normale.
L’esempio, la testimonianza infrangono gli stereotipi culturali che ci fanno crescere con l’idea che l’amore ed il matrimonio debbano essere concessi solo a due persone di sesso opposto. Poi c’è un processo verticale che proviene dall’alto e consiste nel riconoscimento dei diritti civili. Nei paesi avanzati, come in Svezia o in Inghilterra, quando sono stati legittimati i matrimoni gay non è che tutti fossero d’accordo.
Ma poi, quando l’unione è entrata nella normalità, non si è dato più per scontato che l’altro della coppia fosse dell’altro sesso. Non c’era più scritto da nessuna parte che per forza il matrimonio dovesse essere tra un uomo ed una donna. Il passaggio normativo è fondamentale. Nasce dall’evoluzione culturale e genera evoluzione culturale. Anche i più refrattari, di fronte al riconoscimento legislativo, si evolvono e si adeguano. Così come dopo le riforme del diritto di famiglia, quando le diverse condizioni di vita hanno ricevuto tutela giuridica.
Tu nella vita ti occupi di bambini. Quindi saprai certamente crescere un bambino perché hai gli strumenti. Tu ed il tuo compagno volete un figlio?
Si, è un mio grande desiderio.
Hai pensato a come farai ad avere un figlio? Qual è la strada che intendi percorrere per diventare padre?
Non lo so. Il mio desiderio è quello di non dover andare in Canada e in Spagna a fare cose strane. Vorrei poter rimanere in Italia per potermi sposare e adottare un bambino.
Quanti anni hai?
Trentadue, forse ce la potrei fare. Spero. Miei amici hanno fatto ricorso, all’estero, alla maternità surrogata. Però, a parte il fatto che bisogna avere parecchie risorse finanziarie, vorrei fare qualcosa quanto più naturale possibile.
Senza questi viaggi della speranza. Senza dover attendere sette-otto anni per completare una procedura di adozione. Con questi tempi così lunghi si rischia che i bambini arrivino quando i genitori sono ad un punto di esasperazione tale, di mistificazione di questo figlio, che si snatura tutto. Non vorrei arrivare a questo.
Il desiderio di un figlio c’è ma non vorrei che diventasse l’ossessione della mia vita. Quando ho scelto di fare il pediatra mi sono chiesto: come farò a curare sempre i figli degli altri e a non essere invidioso del loro rapporto? Però, con la mia professione, pur non avendo un ruolo genitoriale puro, è come se la fecondità dell’essere padre la mettessi in pratica con i miei pazienti che, essendo cronici, seguo nel percorso di vita.
Come hanno reagito invece i genitori dei tuoi pazienti alla tua rivelata omosessualità?
Io non mi dichiaro. Non sono tenuto a dichiarare il mio orientamento affettivo in questo contesto professionale. Ho saputo che una famiglia che ha cercato delle informazioni sul mio conto per altre motivazioni e conosciuto il mio libro ed il mio blog. Da allora il mio rapporto con loro, già molto positivo, è migliorato anche perché mi hanno apprezzato non solo come medico ma come persona che si batte per i diritti civili.
Da cosa nasce il tuo rapporto con “Arcigay I due mari” di Reggio Calabria?
Nasce dalla lunga amicizia che mi lega a Luciana Bova di “Se non ora quando?”. Lei è stata la prima persona con cui ho fatto coming out. Lei ha fatto conoscere il mio libro ad Arcigay, da lì è nata una bella collaborazione e quindi l’idea di presentare il mio libro nel Palazzo della Provincia di Reggio.
Anzi, più che presentazione, preferisco definirla “testimonianza del mio percorso” e spero che possa aiutare e stimolare la riflessione sui temi dei diritti civili e della solitudine. Mi auguro che il mio libro aiuti a non sentirsi soli nel proprio intimo personale percorso di coming out.