Coming Out: un viaggio senza mappa
Riflessioni della pastora episcopale Carter Heyward* pubbliacte sul sito religion-online (USA), libera traduzione di Silvia Lanzi
In un altro mio articolo, ho parlato della mia resistenza a categorizzare gli esseri umani, incluso l’uso di categorie sessuali come omosessuale, eterosessuale e bisessuale.
La ragione che adduco per tale resistenza è che “essendo esseri umani – essendo sessuati – non è questione di un’“analisi qualitativa” per la quale una relazione di valore diventa un’equazione genitale: donna più donna = gay, donna più uomo = etero”.
Dal mio punto di vista, le etichette che usiamo non esprimono, ma piuttosto distorcono, le cose più importanti che possiamo conoscere e dire circa la nostra sessualità e la sessualità umana in genere.
Se credo questo – e lo credo – perché allora forzare le mie resistenze e fare “coming out”? Non è una risposta semplice.
La difficoltà non dipende dalla diffidenza, dal momento che questo articolo non è tanto biografico quanto piuttosto un tentativo analitico di dare un senso ad un “viaggio biografico”.
Considerazioni personali a parte, questo argomento non è di facile comprensione. Tutti noi viviamo in una scomoda ambiguità. Nell’ambiguità cerchiamo il significato di noi stessi e del mondo. In questa vitalità enorme e complessa, la sessualità potrebbe portarci molto vicino al cuore dell’ambiguità.
È per fuggire da quest’ansiosa incertezza, credo, che accettiamo così prontamente le etichette e resistiamo alle nostre domande di senso. La gente tende a pensare all’identità sessuale (o preferenza, o orientamento) come qualcosa di innato.
Non credo sia corretto. Mi sembra che la nostra sensibilità sessuale e il nostro comportamento siano il risultato di fattori intrecciantisi. La biologia – le nostre ghiandole e le loro secrezioni, insieme alla stessa anatomia – è uno di questi, ma non il solo.
Siamo anche plasmati dal nostro patrimonio religioso, etnico e socioculturale, dalla nostra scolarizzazione, dalle prime esperienze che abbiamo avuto, e certamente dai nostri genitori – dagli specifici modelli sessuali che ci propongono, dai loro valori, e dal modo in cui non solo si relazionano l’un l’altro, ma anche con noi e con gli altri.
Noi siamo nati sessuati; infatti la nostra sessualità è un dono. Ma impariamo come sentire e agire da esseri sessuati da una miriade di fonti e tramite un processo molto più vicino all’osmosi che all’eredità o ad una scelta consapevole.
Questo è il motivo per cui, credo, non dobbiamo identificare le categorie della “identità sessuale” con la sessualità pura e semplice e come se ci fossero categorie fondamentali e fisse; come se fossero date per essere accettate e apprezzate senza discrimine.
Celebrare la nostra sessualità è affermare teologicamente e antropologicamente la dinamicità pulsante della vita, la forza dentro di noi che ci muove oltre noi stessi verso gli altri.
Ma questa vigorosa affermazione della creazione e del Creatore insieme è sminuita nella sua verità quando la sessualità è banalizzata da categorie come “gay” e “etero”.
Perché queste categorie possono essere incasellate; possono essere imposte dall’esterno, non scelte consapevolmente e non riflettere cosa potremmo essere o decidere di poter essere.
La visione dominante
Però queste categorie sono reali. Ci viviamo dentro. Noi siamo in parte, significativa, prodotto delle strutture sociali a cui partecipiamo; questi scomparti, che chiamiamo identità sessuali, possono essere non solo influenzati, ma anche determinati da esse.
Queste strutture, allora, meritano una conoscenza e una riflessione responsabili. Rispetto alla sessualità, ciò che dobbiamo capire è che, storicamente, l’effetto predominante del condizionamento culturale ha compresso tutta l’umanità in una casella chiamata “eterosessualità”.
Questa struttura sociale, questa casella, è così gigantesca e pervasiva che non è facilmente visibile; dal momento che vi siamo avviluppati, spesso non possiamo trovare la distanza giusta che ci serve. Accettiamo come naturale questo incasellamento, il modo in cui stanno le cose e quello in cui dovrebbero essere.
Così la casella eterosessuale diventa il dio delle nostre strutture sociali (Chiesa inclusa), delle nostre relazioni e dell’immagine che ci facciamo di noi stessi.
Funzionalmente la casella eterosessuale diventa decisiva e definitiva per il patriarcato, la famiglia nucleare, le relazioni, il potere maschile e per le caselle derivate come “maschile” e “femminile”.
Perciò l’ordine sociale è costruito sulla base di una grande casella invisibile a chi ci sta dentro.
Nel momento in cui un bambino impara che i bambini non piangono in cui le bambine imparano la che devono essere dolci e remissive – ecco che entrambi fanno un passo verso la “casella eterosessuale”.
Se, per ragioni che hanno poco o niente a che fare con il sesso o il genere, il/la bambino/a è portato a protestare contro questo incasellamento, in modo specifico contro l’incasellamento eterosessuale che trasforma ragazzini vulnerabili in uomini grandi e forti e ragazzine piene di energia in donne dolci e remissive, il grande sforzo sociale per delineare un’identità eterosessuale potrebbe dare inizio al processo contrario.
Il punto è che il risultato di entrambi i casi è che la sessualità è compressa, limitata, formata, comunque sminuita dalla struttura che è stata costruita intorno.
La ragione per cui ciò è importante è che la sessualità spinge alla relazione.
È qualcosa condiviso dalle creature e dal creatore, un impulso che siamo capaci di celebrare in ogni aspetto della nostra vita. Un aspetto significativo della sessualità è che ci porta, nella relazione, ad un’estasi fisica ed emotiva.
Il potere estatico dell’atto sessuale ci può portare, in modo sbagliato, ad identificarlo con la sessualità tutta intera, quando la vera sessualità è, credo, una delle più vitali fonti delle altre nostre passioni; delle nostre capacità di amare. Vorrei andare oltre: suggerire che la capacità di celebrare la sessualità è connessa inestricabilmente alla capacità di perseguire la pace anziché la guerra, la giustizia invece dell’oppressione, la vita invece della rabbia, della tortura, della morte.
La sessualità, che è l’espressione più intima tra due persone che si amano, ci porta ad una vera realizzazione di noi stessi e al sollievo di sentire che non siamo soli; che siamo legati alle vite degli altri: e questo è bene.
Questo è il motivo, credo per cui alcuni cristiani (troppo pochi), parlano di amore e giustizia insieme; la giustizia è l’atto morale dell’amore.
Tutto ciò ha un significato personale per me. Ricordando il passato, ora posso vedere come il mio “coming out” è stato un viaggio lungo e confuso, un viaggio fuori dalla “casella eterosessuale”, in cui non mi sentivo più a mio agio già a cinque anni più di quanto ne sia ora che ne ho trentatre.
Il racconto di questa esperienza ci viene da testimonianze di uomini e donne a cui, quando erano piccoli, veniva continuamente ricordato che l’anatomia è un destino e che non si doveva cercare di sottrarsi ai propri ruoli sessuali. I miei genitori non fecero nessun consapevole tentativo di insegnarmi la rigidità di tali ruoli.
Comunque entrambi e anch’io vivevamo nella “casella eterosessuale” che era così larga e così profondamente pervasiva, che era l’unica in cui potevamo stare.
Ho avuto l’impressione che l’ordine sociale mi spremesse fuori qualcosa, ci ficcasse dentro qualcos’altro e sopprimesse in me istinti e sentimenti di cose che volevo fare e che “non erano per ragazze”.
Perché volevo essere Superman e non Lois Lane? Matt Dillon e non Miss Kitty? Perché mi interessavano molto di più Superman e Matt Dillon. Vivevano in modo esaltante.Facevano accadere cose.
Erano fiduciosi, “duri” e pieni di energia.
Da qualche parte dentro di me sapevo (e lo sapevo davvero) che se non mi fossi sentita una persona fiduciosa, “dura” e piena di energia, assolutamente all’altezza della persona accanto a me, non avrei potuto amare, o essere amata, da nessuno. Non reciprocamente.
No davvero. Sapevo anche che ogni sforzo avrei potuto fare in nome della giustizia sarebbe stato dettato dalla mia scarsa autostima, e dalla mia penosa inclinazione ad identificarmi con i perdenti, piuttosto che dall’impulso umano e sessuato di lavorare per la giustizia sulla base di una forte fiducia nel potere dell’amore – sia di me stessa che di Dio.
Nella nostra storia, nella nostra società, nelle nostre chiese, la “casella eterosessuale” è ciò in cui tutte le ragazze sono pressate per poter diventare donne che dovrebbero sposarsi e mantenersi nei confini dell’ordine sociale subordinate ai mariti, ai padri, o ai surrogati dei padri – senza riguardo per le capacità di ciascuno, che sono uniche, per i bisogni e desideri di uomini e donne.
C’è un troppo poco posto in questa enorme “casella” artificiale, per un vero e reciproco amore tra i sessi, e nessuno per l’amore reciproco tra due donne o due uomini.
C’è anche troppo poco spazio in questa “casella eterosessuale” per entrambi i coniugi di sviluppare la loro capacità di amare l’umanità e Dio, sia singolarmente e in coppia, e di essere forti e gentili, sicuri e vulnerabili, assertivi e ricettivi, ugualmente capaci di guidare e di essere guidati. Una struttura sociale tale non permette alcuna androginia, né in un senso, né nell’altro; non ci incoraggia nemmeno ad abbandonare i ruoli sessuali definiti – perché la “casella eterosessuale” è costruita interamente su di essi.
Nuove priorità
Il femminismo sfida la legittimità dei ruoli sessuali. Insieme agli altri movimenti, il femminismo ha le sue radici nella critica che una società costruita nel modo in cui lo è adesso, in cui alcune persone e gruppi traggono profitto dalle diseguaglianze – tra uomini e donne, ricchi e poveri, bianchi e neri e così via – è una società in cui il denaro vale più dell’amore, della giustizia e persino della vita umana.
Il femminismo parte dal rovesciamento di questi valori: al primo posto ci dev’essere la vita; tutto il resto viene dopo. Più falliscono i ruoli sessuali, più uomini e donne si rifiutano di recitare un ruolo a scapito del loro vero io, e più la “casella eterosessuale” inizia a mostrare le prime crepe.
Questo è esattamente ciò che sta succedendo oggi nella nostra società. La “casella” sta collassando: uomini e donne ne stanno uscendo.
Per molte donne, me compresa, fare “coming out” significa iniziare a valorizzare noi e le nostre sorelle tanto quanto ci è stato insegnato a valorizzare gli uomini.
Fare “coming out” vuol dire amare le donne, non odiare gli uomini. Fare “coming out” vuol dire iniziare a sentire la stessa attrazione, lo stesso calore, la stessa tenerezza, lo stesso desiderio di toccare e di essere toccate da una donna – ciò che ci avevano insegnato a sentire nei confronti degli uomini.
Per circa quindici anni non ho mai negato la mia natura, sperimentando la mia attrazione verso le donne e verso gli uomini come un valore intrinseco – come amica, amante, cristiana.
Ero consapevole che ci fosse una “casella”, un’altra “casella”, meno restrittiva, per le persone bisessuali. Se la “casella” funziona, la bisessualità non è sbagliata. Potrebbe essere la “casella” migliore per tutte le persone.
Nella mia vita, il problema con la bisessualità (posso solo parlare per me) era che ne avevo fatto un’idea quasi utopica e grandiosa – come un contenitore per tutto – mentre la realtà dei fatti era diversa: questa società, questo momento, questo mondo e io stessa (che avevo un desiderio molto concreto di un’intimità con qualcuno, e di impegnarmi per costruirla) avrei dovuto invece distruggere strutture sociali sbagliate: la “casella” eterosessuale.
Se il nostro mondo e la civiltà avranno un futuro, potrebbe essere che un domani i ruoli sessuali decadano o vengano oltrepassati: le persone saranno definite in quanto tali e i modelli relazionali verranno scelti e non imposti. Secondo la mia esperienza, vivere da bisessuale oggi è vivere un’anticipazione di un futuro che non c’è ancora.
È per questo che, per parecchi anni, mi sono dichiarata bisessuale: era una specie di visione utopistica per focalizzarmi sull’urgenza e l’immediatezza del presente.
Ora come ora, sono una studentessa che sta scrivendo una tesi di dottorato sulla teologia della relazione, dal momento che credo che il futuro dell’umanità e di Dio dipenda dalla volontà degli esseri umani di trattarsi da eguali.
Sono insegnante in un seminario dove sia gli uomini che le donne devono combattere con forza per evitare dall’essere compressi nella “casella eterosessuale”, in cui le donne sono sottomesse e i gay devono pentirsi.
Sono sacerdote in una Chiesa che, come molte altre Chiese, minaccia di collassare sotto il peso di una perversa nozione di sessualità che non consiste in una celebrazione di gioia né in altre manifestazioni di giustizia e di amore. Sono una donna.
Sono una lesbica – una donna che è uscita dalla “casella” eterosessuale ed è entrata in un’altra mi è molto più consona come persona responsabile di me stessa e cristiana, qui e ora.
Uscendo allo scoperto, ho iniziato a realizzare me stessa come più capace di relazionarsi in modo più intimo – di toccare ed essere toccata in modo più profondo, di dare e ricevere in modo molto più naturale – di essere in grado di esprimere ciò che per me ha valore – Dio nella vita umana, Dio nella giustizia, Dio nella passione, Dio come amore – in una relazione in cui il partner sia una donna.
È con un’altra donna, qui e ora che sono in grado di sperimentare un’empatia radicale tra un essere umano e l’altro, un’empatia che conosciamo da quando eravamo bambine, un’empatia che forma la nostra coscienza delle relazioni lesbiche come il primo e l’ultimo luogo in cui le donne possano sentirsi veramente a casa, nella più naturale delle relazioni.
Di più, è con le altre lesbiche cristiane che possiamo testimoniare il potere della presenza di Dio in esse – relazioni in cui non c’è un superiore o un inferiore, né insicurezze dettate dalle aspettative del ruolo sessuale, ma piuttosto una danza dinamica in cui ognuna nutre ed è nutrita quando più ne ha bisogno.
Un ritratto romantico? No, non è facile. Ci sono tensioni, la possibilità di essere crudeli e di abusare dell’altra – come in ogni relazione. Non è detto che le relazioni lesbiche siano caratterizzate, sempre o comunque spesso, da empatia.
È comunque possibile che, nell’attuale ordine sociale, le relazioni lesbiche offrano una reale opportunità di una reciproca profondità. Le relazioni lesbiche possono essere testimoni profetiche nella società: una testimonianza positiva non solo dell’omosessualità in sé, ma anche della reciprocità e dell’amicizia in tutte le relazioni.
Utili e perdite
Uscendo allo scoperto, ci sono delle perdite: educare figli propri e vivere con il proprio compagno. Ma i guadagni le superano: uscendo allo scoperto ho cominciato a guardare e ad abbracciare tutti i bambini del mondo come se fossero i miei, e tutti gli uomini come fratelli, che posso conoscere e amare meglio come amici.
Uscire allo scoperto suppone una conoscenza del potere co-creativo che ho provato con la relazione con una donna. Uscire allo scoperto è la confessione che ho bisogno e voglio un’intimità con qualcuno che condivida i miei valori e il mio modo di essere come io condivido i suoi.
Uscire allo scoperto vuol dire coltivare e realizzare gli insegnamenti dei miei genitori sull’amore e sullo stare nel mondo; significa dar valore a ciò che sono stati e che sono e sapermi sia legata a loro che libera di trovare la mia strada. Uscire allo scoperto significa abbracciare tutti quelli che sono e mi sono stati accanto, tenendo presente il nostro ruolo nel formare i valori l’uno dell’altro.
Uscire allo scoperto è una protesta contro le strutture sociali che sono costruite sull’alienazione tra uomini e donne, donne e donne, uomini e uomini.
Uscire allo scoperto è l’affermazione più radicale, più profondamente personale e più coscientemente politica che si può fare in nome delle possibilità dell’amore e della giustizia nell’ordine sociale. Uscire allo scoperto è iniziare una relazione tra pari.
Non semplicemente un modo in cui stare a letto, ma un modo in cui stare al mondo. Nella misura in cui invita al “voyeurismo”, il coming-out è un invito a osservare e meditare sull’empatia nella vita umana. L’uscire allo scoperto è insieme un’azione politica e una corsa verso lo spirito di Dio che ci sostiene.
Uscendo allo scoperto mi gioco la mia identità sessuale sulla domanda che ritengo essere il cuore stesso del vangelo: che noi siamo qui per amare Dio – chi ci sta accanto – e noi stessi. Ognuno di noi deve trovare il modo per realizzare tutto ciò. Vi ho dato un assaggio del mio: da dove il viaggio è iniziato; dove finirà, non lo so. So solo che sono felice di essere uscita allo scoperto.
* Carter Heyward è una delle prime dodici donne preti ordinate nella Chiesa episcopale americana, insegna teologia alla Episcopal Divinity School di Cambridge, Massachusetts (USA). Questo articolo è apparso in “Christianity and Crisis” (cristianesimo e crisi) l’11 giugno 1979
Testo originale: Coming Out: Journey without Maps