I “Comizi d’amore” di Pier Paolo Pasolini
Riflessioni di Luciano Ragusa, curatore del Guado Cinema
Con in testa l’idea di girare l’Italia in cerca di volti e luoghi utili per il progetto del Vangelo secondo Matteo (1964), Pasolini intravede la possibilità di costruire un film inchiesta con il metodo dell’intervista. Sulla falsa riga del Cinema-verité che nel 1961 aveva suscitato interesse e discussione anche in Italia (Chronique d’un été dei francesi Rouch e Morin) il regista friulano, tra marzo e novembre 1963, si mette al lavoro.
Sceglie così di interpellare gli italiani sui problemi del sesso e dell’amore, dai più ovvi (come matrimonio, nascita dei bambini, etc.), ai più controversi (divorzio, alienazione femminile, omosessualità, prostituzione). Con microfono e registratore, l’autore intervista italiani del nord e del sud, contadini e operai, studenti e giovani proletari, cercando, da un punto di vista antropologico e sociologico, di proporre un campione sufficientemente significativo e descrittivo. Ciò che interessa al regista è cercare di cogliere le trasformazioni della mentalità degli italiani, soprattutto per quanto riguarda la sessualità, la morale e i tabù. L’inchiesta, divisa in capitoli, si avvale dell’intervento di personaggi d’eccezione, tra i quali Cesare Musatti, Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti, Camilla Cederna e Oriana Fallaci.
Nel bellissimo libro I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Marco Antonio Mazzocchi, così descrive la strada che porta Pasolini ai Comizi d’amore: «Siamo alla metà degli anni sessanta, e Pasolini ha già iniziato la sua attività di giornalista a contatto col pubblico su Vie nuove, invitato da Maria Antonietta Macciocchi, e da questo momento diventa esplicitamente un antropologo attento ai costumi del suo paese, come poi lo diventerà dei paesi africani e orientali (sempre in rapporto all’Europa). Negli articoli come nei film c’è un dato comune. Pasolini parte da elementi semplicissimi e concreti, non ha teorie precostituite ma si fa condurre dalla realtà dei fatti, secondo un principio di empirismo in seguito definito “eretico”. In altre parole, cerca la verità a partire dalla realtà» (cfr. M.A. Mazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pag. 145).
Ma questo film di Pasolini si impone all’attenzione anche per un altro motivo: proprio perchè siamo nel 1963 ha infatti il merito di essere il primo documento che parla esplicitamente di certi tabù in un’Italia dove, sotto il controllo vigile del direttore generale Ettore Bernabei, in RAI non si poteva pronunciare la parola cazzotto perchè evocativa di una parolaccia e dove nessuno si sognava di parlare di aborto (la Legge Baslini-Fortuna avrebbe cominciato il suo iter legislativo di cinque anni solo nel 1965) e tanto meno di omosessualità.
Opinioni a confronto
Non tutti hanno riconosciuto nei Comizi d’amore un’ opera completamente riuscita: per alcuni è l’apice dell’intera poetica pasoliniana, dove tutti i sui intenti si svelano senza ambiguità; per altri invece, il documento è mediocre, nonché, scarsamente rappresentativo.
E’ utile, dunque, al fine di comprendere meglio quest’opera, riportare due passi che sottolineano, nel bene e nel male, le criticità del progetto.
Il primo è di Enzo Siciliano, che scrive: «Comizi d’amore è un ritratto spregiudicato dell’Italia che cambia, un modello per tante inchieste televisive che seguirono. Eppure, ciò che colpisce è la presenza sullo schermo di Pasolini medesimo: il film è il suo più spassionato autoritratto. La sua testardaggine pedagogica, la sua mitezza che era violenza e la sua violenza che era mitezza – quell’insistere nelle domande, quel modularle a pennello, a una madre, a una recluta, a un ragazzetto siciliano, a due frequentatrici di balere; quindi il timbro insolito della sua voce, schermato dietro un rigore razionalista, e fuori di ogni previsione, alla sua persona fisica, al modo in cui erano inforcati gli occhiali o la giacca ricadeva dalle spalle. […] Comizi d’amore vale anche come cattura fotografica di volti e corpi italiani, come sperimentazione visiva di una materia plastica, anche pittorica, che avrebbe partecipato, non subordinata, alla reinvenzione della leggenda cristologia. Il meridione d’Italia, a sigillo di un destino estetico, diventò il paesaggio della Giudea e della Galilea; i contadini lucani, sparsi per i Sassi di Matera, furono la folla plaudente a Gerusalemme l’arrivo del Gesù Nazareno.” (cfr. E.. Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano, 2005, pag. 309).
Il secondo è di Adelio Ferrero che, nel suo libro dedicato al cinema di Pier Paolo Pasolini scrive: «Ma se anche affiorano spunti interessanti per una elaborazione meno approssimativa, lo spessore sociologico e politico del risultato complessivo è fortemente viziato dai limiti del metodo, che non offre nessuna garanzia sull’attendibilità dei “campioni” raccolti. Solo superficialmente e in primissima approssimazione, una caserma o una balera, una spiaggia toscana o una piazza di Napoli possono dare l’illusione dell’immediatezza e dell’autenticità. In realtà quello che vi si raccoglie non è uno spaccato di società, ma un’aggregazione casuale, disordinata e nient’affatto omogenea che, inoltre, la presenza della camera e del microfono e le domande dell’intervistatore mettono in guardia e sulla difensiva, inducendo ad assumere comportamenti rispettabili e, in un certo senso, obbligati. L’apporto regista-investigatore, che qui si limita alla provocazione e al commento, dovrebbe risultare, evidentemente, assai più impegnato nel distinguere, analizzare, ricondurre l’occasionalità dei rilievi a criteri e modi di lettura e di interpretazione più probanti» (cfr. A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Venezia, 1994, pp. 51-52).
Ma quale Italia emerge da questo documentario di di Pasolini? E quali continuità, se ci sono, si possono individuare con i film che lo precedono e con quelli successivi?
Il regista individua una serie di “mostri” medi (come un giovanotto in una balera milanese, alcuni viaggiatori in treno, un padre di famiglia su una spiaggia) che, di fronte a questioni problematiche e laceranti (si tratti della crisi della coppia e dell’istituzione familiare o dell’omosessualità e del suo statuto sociale) sfoderano, con tranquilla impudenza e arrogante imbecillità, un falso sapere in cui trionfano il luogo comune, il ricatto sentimentale e il pregiudizio razzista.
Fanno da controcanto alcuni gruppi umani più limpidi: bambini, contadini modenesi, siciliani, che evocano una civiltà contadina autentica e profonda che urla nostalgia, in quanto consapevole di un mondo destinato a sparire e che non può più ritornare.
Anche nelle interviste, dunque, persistono quelle antitesi tanto care a Pasolini, che rendono i Comizi d’amore non tanto uno spauracchio della cinematografia pasoliniana, quanto una possibile manifestazione artistica in piena coerenza con i le opere che l’hanno preceduto e con quelle successive.
Il parere di uno spettatore particolare
Il filosofo francese Michel Foucault vede il film nel 1977, quando esce in Francia, e ne dà una lettura personale interessantissima. Per Foucault, Pasolini ha ripreso la tecnica utilizzata dai filosofi greci nell’Atene del V secolo a.C.: il suo film è una specie di Simposio condotto da un Socrate moderno per le strade italiane. Foucault nota che si tratta di un’indagine on the road” che, proprio perché girata per strada, mostra un’Italia solare, picaresca, dove però la società di quegli anni non ha ancora trovato quella voce per una confidenza pubblica del sesso che nella seconda metà degli anni settanta si era ormai affermata.
Sta per nascere in Italia, un nuovo regime, quello della tolleranza e, sempre secondo il filosofo francese, i giovani italiani hanno una premonizione confusa di questa nuova fase. Non è un caso che l’articolo con cui Foucault parla di Comizi d’amore si intitolasse: Les matins de la tolerance, riprendendo un termine (tolleranza appunto) che Pasolini usa negli Scritti Corsari a proposito della nuova condizione degli omosessuali nella società capitalistica.
Per cogliere il senso di questa lettura particolarmente lucida occorre ricordare che, nel 1977, Michel Foucault aveva già visto Salò o le 120 giornate di Sodoma e che, quindi, poteva proporre una lettura dell’opera di Pasolini come un’unica epopea il cui soggetto è una gioventù che la società degli adulti, dal Medioevo in poi, non è mai riuscita ad integrare, salvo farla uccidere, ogni tanto, in guerra (l’articolo Le matins de la tolerance è stato pubblicato su Le Monde il 23 marzo 1977 e si trova ora in: M. Foucault, Dits et Ecrit (1976-1979), Gallimard, Paris, 1994, vol. III, pp. 269-271).
Un Pasolini attualissimo e profetico
Forse il testo più utile per capire davvero Comizi d’amore l’ha scritto lo stesso Pasolini quando scrive: «Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese è speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale» (cfr. P.P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1985, pag. 87).
Scheda
Soggetto e sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini
Regia: Pier Paolo Pasolini.
Aiuto alla regia: Vincenzo Cerami.
Fotografia: Mario Bernardo, Tonino Delli Colli.
Montaggio: Nino Baragli.
Interventi e interviste: Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Cesare Musatti, Giuseppe Ungaretti, Camilla Cederna, Adele Cambria, Oriana Fallaci, Antonella Lualdi.
Commenti: Lello Bersani e Pier Paolo Pasolini.
Produzione: Alfredo Bini per l’Arco Film.
Distribuzione: Titanus (ora Cineteca Nazionale e Nuova Comunicazione-Arci).
Riprese: Marzo-Novembre 1963.
Esterni: Napoli, Palermo, Cefalù , Roma, Fiumicino, Milano, Viareggio, Firenze, Bologna, campagna emiliana, Venezia Lido, Catanzaro, Crotone.
Bibliografia
M.A. Bazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Mondadori, Milano, 2008.
A. Ferrero, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, Marsilio, Venezia, 2005.
M. Foucault, Dits et Ecrit (1976-1979), Gallimard, Paris, 1994.
M.A. Mazzocchi, I burattini filosofi. Pasolini dalla letteratura al cinema, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
P.P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1985.
E.. Siciliano, Vita di Pasolini, Mondadori, Milano, 2005.