Contro le donne, in nome di Dio
Articolo di Lilia Sebastiani pubblicato nella rivista “Esodo” n. 4 di Ottobre – Dicembre 2018
La chiesa nelle sue voci ufficiali condanna ogni violenza, e qualche volta, soprattutto da papa Francesco, è stato richiamato il femminicidio, benché con qualche ritardo a riconoscere lo specifico di questo crimine che, rispetto agli altri omicidi, ha una fortissima componente culturale e sessuale anche quando non è accompagnato da abusi sessuali espliciti.
Quello che si tarda a riconoscere è la responsabilità della tradizione giudeocristiana in questa situazione.
Responsabilità non certo esclusiva, condivisa con gran parte del mondo ex-patriarcale (pensiamo ai feroci stupri di gruppo avvenuti in India, che prendevano di mira ragazze normalissime colpevoli di tornare dal lavoro, di prendere un autobus, di andare al cinema con il fidanzato), ma da assumere in un serio processo di riflessione condivisa, unica reale via per un superamento.
Perché, quantunque si creda di essere ben oltre la mentalità primitiva, certi condizionamenti – soprattutto quando sono veicolati dalle tradizioni religiose – continuano ad agire soprattutto sulle persone più deboli, anche in modo travestito o irriflesso, e tendono ad acutizzarsi nei momenti di trapasso culturale. Cioè quando sembra che le donne stiano diventando ‘troppo importanti’, ‘troppo libere’, e troppo facilmente possano fare a meno degli uomini.
Sarebbe un grave errore considerare l’esplodere della violenza fisica e sessuale solo come un episodio isolato o un comportamento individuale perverso; ha anche un tragico significato strutturale.
I “testi del terrore”
Texts of Terror è il titolo di un libro della teologa statunitense Phyllis Trible (n. 1932) pubblicato in America negli anni Ottanta, non tradotto in italiano¹.
Una rilettura critica commentata dei passi in cui il “Dio dei padri” (e delle madri, speriamo) del popolo di Israele sembra legittimare la violenza e la sopraffazione maschile sulle donne, di diritto e di fatto; la loro riduzione a oggetto. Non è una trattazione completa e non poteva esserlo. Non è una lettura consolante, non è ‘edificante’ nel senso comunemente inteso. Eppure è indispensabile familiarizzarsi con questa tradizione impastata così a fondo con le nostre origini. Indispensabile per fare discernimento e per andare avanti, per dare il proprio piccolo contributo al cammino della storia, che è anche un luogo teologico.
In effetti il Primo Testamento riporta una quantità impressionante di episodi di violenza sessuale e di uccisioni di donne – neanche sempre riconoscibilmente condannate dall’autore sacro. Ma la violenza contro le donne è presente e operante anche nel Nuovo Testamento, anche in testi al di sopra di ogni sospetto, testi che non considereremmo in una riflessione sulla violenza contro le donne in quanto donne, perché a prima vista parlano di altro.
Così, ad esempio, il passo paolino sulla necessità che la donna porti il velo (1Cor 11,2-10) perché “non è immagine di Dio” bensì dell’uomo, e “a motivo degli angeli” (c’è un riferimento al peccato degli angeli “figli di Dio” con le “figlie degli uomini”, raccontato in Gn 6: come dire che le donne sono così funeste da indurre in tentazione perfino gli angeli…). È solo uno dei molti racconti biblici in cui tutta la responsabilità del peccato viene scaricata sulle donne.
Nella Bibbia si parla anche di stupri in tempo di guerra, e se ne parla come di un fatto ovvio. (Allora e oggi è una dimostrazione di superiorità e di disprezzo nei confronti dei vinti, ma non solo: in effetti la guerra fornisce agli uomini lo scenario psicologico ideale per esprimere la loro avversione per le donne e la volontà di umiliare i più deboli).
In Gn 12,10-20 viene raccontato, senza ombra di disapprovazione, un episodio che non fa troppo onore ad Abramo. Disceso in Egitto a causa della carestia, impone alla moglie Sara, prevedendo che sarà notata dal Faraone per la sua bellezza, di dichiararsi sua sorella e non sua sposa, per evitare che
il faraone lo faccia uccidere per averla. Quindi la espone al disonore e all’adulterio, allo scopo di evitare guai a se stesso e procurarsi anche qualche vantaggio, come poi avverrà. (Lo stesso episodio, chiaramente duplicato, torna in Gn 20, ma con Abimèlec, re di Gerar al posto del Faraone, e il racconto mostra maggiore attenzione agli aspetti etici). Nei capitoli 16 e 21, sempre all’interno della storia di Abramo, compare la triste vicenda in due atti della schiava Agar, con una specie di semi-lieto-fine che non elimina affatto l’amaro della vicenda.
In Gn 19 Lot offre agli abitanti di Sodoma, che vogliono abusare dei suoi due ospiti (in realtà angeli in incognito) le sue figlie vergini: “… Io ho due figlie che non hanno ancora conosciuto uomo; lasciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi piace, purché non facciate nulla a questi uomini…” (Gn 19,8).
E in Gn 34 è la triste vicenda di Dinah, unica figlia femmina di Giacobbe, violentata “per amore” (?) da un principe di Sichem, in seguito innamorata del suo assalitore, che però verrà ucciso insieme a tutti i giovani uomini di Sichem dai fratelli di Dinah, decisi a vendicare l’offesa recata al loro sangue, alla stirpe. I sentimenti di lei non sono rilevanti.
Pensiamo ancora, di contro, al sacrificio di Isacco impedito da Dio in extremis, al sacrificio effettivo della figlia di Jefte (Gdc 11,29-40). Al padre non chiede di risparmiarle la vita ma di accordarle una dilazione “per piangere sui monti la sua verginità” prima di morire: perché morendo vergine, cioè senza aver messo al mondo figli, dovrà vedere la propria vita del tutto inutile ed effimera. La figlia di Jefte rimane senza nome.
La gentile offerta di Lot ai suoi concittadini, di voler accontentarsi delle sue figlie per risparmiare i suoi ospiti – non accettata dagli abitanti di Sodoma, perché le donne non sono di loro gradimento -, ricompare nel cap. 19 del libro dei Giudici, nell’oscuro e doloroso episodio della concubina del levita. Lo status di concubina, in pratica moglie di serie B di un uomo che aveva altre mogli, era riconosciuto dalla Legge in Israele. Il levita trova molto naturale offrire una ‘cosa’ di minor valore per mettere al riparo se stesso, e in questo caso gli abitanti di Gàbaa si accontentano. La donna, dopo una notte di violenze multiple, si trascina a morire sulla soglia del suo padrone (fino a quel momento chiamato ‘marito’; ma, a parte il fatto che la parola ba’al aveva entrambi i significati, sarebbe difficile chiamare marito uno che agisce in quel modo), Il quale taglierà il suo cadavere in dodici pezzi e ne invierà uno a ogni tribù di Israele per chiedere vendetta; anche se l’atroce fine della donna è stata da lui tranquillamente voluta.
Ne segue una guerra sanguinosa, un’iperbolica strage narrata in modo preciso e compiaciuto, in cui la vittima iniziale non viene più neanche nominata.
Nella Legge lo stupro di una vergine (Es 22,15 ss.; Dt 22,23 ss.) non è un delitto contro di lei come persona, bensì contro i diritti di proprietà del padre e del futuro sposo. L’uomo può sempre avere rapporti con schiave e con prigioniere di guerra anche vergini.
In Nm 5,11-31 si parla del ‘giudizio di Dio’ in caso di ‘sospetti da gelosia’: ovvero quando l’uomo dubita della fedeltà della sua sposa, ma dell’infedeltà non ha nessuna prova. I sospetti fanno senz’altro della donna una colpevole presunta, ed essa deve sottoporsi alla prova dell’acqua amara, in pratica una specie di ordalia, non solo offensiva per la sua dignità ma, sembra oggi, non innocua per la salute. In caso di non riuscita, sarà senz’altro condannata a morte come adultera. Se il ‘giudizio di Dio’ le risulta favorevole, si salverà… Ma nessuna conseguenza è prevista per il marito che l’ha accusata ingiustamente.
E si potrebbe continuare ma, tra violenze esplicite e costrizioni morali e oppressione di una cultura violenta, si dovrebbe andare avanti molto a lungo, troppo. I passi da ricordare sarebbero innumerevoli; e quelli meno eclatanti non sono meno significativi degli altri.
Perché occorre parlarne ancora
Insistere su questo ordine di ricordi a prima vista è inutile – la storia passata non cambia – e certe volte espone ad accuse di ideologismo o di vittimismo storico. Come se le donne dovessero lamentarsi solo di ciò che tocca personalmente, visibilmente la loro esperienza di vita. Conosciamo bene la risposta ecclesiastica moderna, quando si socchiude la porta di questo museo degli orrori biblici: qui la fede non c’entra…, era la cultura, era una civiltà lontanissima dalla nostra, i tempi sono cambiati…, anzi forse certi fatti non sono mai accaduti davvero. D’accordo: ma sono stati proposti, narrati e ripetuti all’interno di un testo sacro. E le tendenze neo-fondamentaliste in agguato non possono lasciarci tranquilli.
Perché il condizionamento culturale dev’essere invocato dagli uomini di chiesa solo quando fa comodo? Perché viene invece ignorato quando vi è il rischio di scuotere le certezze? Oggi qualsiasi persona ragionevole, a prescindere dal sesso, può e deve riconoscere che l’esclusione della donna da ogni funzione di autorità, di rappresentanza e di magistero nella chiesa ha ben riconoscibili e ben conosciute radici culturali; era comprensibile in passato pur nella sua oggettiva inequità, in quanto appoggiata da un contesto d’insieme non più esistente nel mondo civile. La posizione ufficiale degli uomini di chiesa, non essendoci alcun argomento rispettabile a sostegno di un’esclusione che ormai è solo motivo di scandalo, non può che rifarsi a una pretesa volontà di Dio (o intenzione di Gesù), certo non discutibile, almeno in quanto mai espressa da nessuna parte, nemmeno in modo implicito. Assai più validamente si potrebbe sostenere – e un po’ anche dimostrare – che va, questo sì, contro la volontà e la prassi di Gesù la reintroduzione di un sacerdozio nella comunità dei credenti.
Anche se oggi la chiesa cattolica e tutte le religioni per bocca dei loro capi condannano la violenza contro le donne, almeno quando si configura come crimine con conseguenze penali, il messaggio trasmesso dalle antiche tradizioni e dalle esclusioni che sopravvivono è sempre lo stesso: la donna vale meno e conta meno dell’uomo, si identifica con la corporeità – il suo spirito è inessenziale, come il suo intelletto -, costituisce una tentazione, è inadatta per natura a esprimere la trascendenza…, e deve ubbidire.
Una volta si diceva apertis verbis, oggi no. Il linguaggio è diventato meno duro, ma questo non è sempre un bene: occorre essere molto sensibili e molto informati per sentire l’insidia e per reagire costruttivamente.
Non è facile tracciare anche a grandi linee delle piste di superamento di una situazione che è così arcaica nelle sue radici e, quantunque con i ‘collegamenti’ non sempre visibili, ancora attualissima nelle sue manifestazioni.
Sono solo piste, già aperte (da alcune/i pioniere/i generalmente incomprese/ i), piste poco conosciute e poco percorse da quelli e quelle che abbiamo intorno.
Superare il regime del sacro
Occorre acquisire una consapevolezza precisa, ‘vivente’, della differenza essenziale che sussiste tra religione (sempre relativa) e fede, fra Tradizione e tradizioni; acquisire una consapevolezza storica sempre più matura del vissuto culturale che abbiamo alle spalle, per saper distinguere l’essenziale da ciò che non lo è. È un’urgenza speciale oggi, perché la prospettiva storica e la coscienza storica tendono a estinguersi, anche nelle persone istruite – non diciamo colte, che è diverso -, anche e soprattutto nelle nuove generazioni.
Ormai da più di mezzo secolo è stato riconosciuto, a partire dalla teologia femminista americana, che il sessismo ha molto in comune con le varie forme di razzismo e con i diversi meccanismi di emarginazione.
Nell’atteggiamento sessista l’alterità di cui la donna è portatrice nei confronti dell’uomo viene guardata come una minaccia mostruosa. Alla base di queste patologie, sempre potenzialmente omicide, si trova sempre la paura dell’altro/altra e della diversità che rappresenta; occorre avviare un percorso di superamento delle barriere, attraverso l’avvaloramento delle differenze.
Occorre imparare ad aprirsi, non a parole, ma con i fatti e nella verità, all’accoglienza grata dell’altro: in ogni gradazione dell’alterità, ma in particolare all’Altro per eccellenza, nell’unicità dell’incontro di amore, senza il quale non è nemmeno possibile fare veramente esperienza di Dio. Il futuro delle donne nella chiesa, la questione stessa della possibilità di un futuro dipende dalla nuova coscienza di sé sviluppata dalle donne e dal modo in cui sapranno metterla in circolo e condividerla per la vita e la crescita dell’umanità.
È necessario che donne e uomini diventino consapevoli delle insidie del sacro e della necessità di trascenderlo risolutamente per essere discepole e discepoli di Cristo. La dicotomia sacro-profano
appartiene alla logica ‘religiosa’ precristiana ed extracristiana (e anche a quella esoterica); Gesù ci ha insegnato con il suo esempio ad andare oltre.
Sacro è parola di derivazione latina (non sempre positiva: in molti casi, sacer significa anche ‘maledetto’, da evitare) che si riferisce a persone, luoghi, oggetti associati alla divinità, che consentono di entrare in rapporto con essa, ma per mezzo di personale autorizzato e rispettando regole severe e inviolabili: di entrare in rapporto sì, ma a prezzo di un sistema di esclusioni consolidate dal potere e dalla paura. Invece profano, pro-fanum è ciò che sta davanti al tempio o allo spazio sacro come realtà ‘altra’. Ricordiamo che il significato originario di tempio non rinvia a un edificio, ma a uno spazio delimitato.
Il laico, attraverso i secoli, è stato considerato pressappoco come l’addetto alla profanità, e questo rende tanto più grave la convinzione, ancora strenuamente difesa dalla gerarchia della chiesa, che le donne, in nome di una loro pretesa ‘natura’ – che tragicamente e risibilmente si riduce a un fatto cromosomico e a nessun’altra variabile umana -, possano essere solo laiche e nient’altro.
Ogni comunità religiosa che la storia ci presenta ha avuto, prima o poi, la tendenza a stabilire una separazione tra sacro e profano, a dichiarare qualcosa intoccabile perché assolutamente riservato alla divinità e quindi oggetto di timore e venerazione. “Sacro e profano” dice Mircea Eliade nel suo libro omonimo, “sono – nelle religioni – le due dimensioni del mondo”. Può darsi; ma certo non sono le coordinate di un mondo redento.
L’incontro delle culture è la sfida che maggiormente interpella il futuro. Le donne, avendo sperimentato sulla propria pelle il pregiudizio e l’esclusione, possono avere in questo un ruolo decisivo.
Rinunciare al regime del sacro, dunque.
L’espressione, isolata così, sembra molto forte. Alcuni (anche antropologi) vedono l’esperienza del sacro come il primo livello dell’esperienza religiosa, anche se ciò non riguarda specificamente il cristianesimo e anzi lo contraddice nella sua intima essenza.
Rinunciare al sacro, perché? Sembrano due le ragioni fondamentali.
La prima, generale: perché il sacro ‘produce’ il profano, ne ha bisogno per la propria difesa sussistenza e perpetuità. La seconda, specificamente cristiana: perché Gesù, con tutta la sua vita e la sua morte e la sua vittoria sulla morte ha segnato la fine del regime del sacro. Il sacro non aiuta il santo. Una certa concezione religiosa – non certo cristiana, in sé, ma fatta propria da varie correnti di pensiero cristiano – tende a vedere la realtà esterna al fatto religioso in senso stretto come profana, estranea, potenzialmente peccaminosa: parte dall’idea che alcuni ambiti del mondo (uomini, cose, luoghi) potrebbero temporaneamente o stabilmente venire isolati dalla profanità per rendere possibile una relazione con Dio. Di qui la visione del clero come categoria separata e, per definizione, più vicina a Dio, ma protetta per mezzo di varie esclusioni; di qui anche la concezione gerarchico-sacrale della chiesa, la cui persistenza rende di fatto così difficile aprirsi nel profondo e nei fatti a una concezione comunionale.
Il Concilio Vaticano II, lo sappiamo, ha scalzato alla base questa logica.
L’ha fatto molto seriamente ma parzialmente, senza abolirla: infatti nei documenti del Concilio coesistono (senza fondersi, perché essenzialmente incompatibili) due ecclesiologie diverse, anzi opposte o quasi, che si limitano a vicenda.
Il vero superamento della logica del sacro-profano opera alla fonte, cioè nello stesso evento di Gesù narrato dai Vangeli. Il cristianesimo si fonda sull’incarnazione del divino nell’umano. Anche la Risurrezione è vittoria della vita sulla morte, è irruzione del divino nell’umano, perciò dovrebbe essere la fine della separazione, di ogni separazione.
Gesù nella sua vita terrena sembra misurarsi, più che con le categorie del sacro-profano, con quelle, in un certo senso equivalenti, del puro e dell’impuro: anche se l’impurità nel suo ambiente era concepita come un dato quasi fisico (e molto contagioso), operante a prescindere dalle intenzioni personali.
In modo solenne e definitivo dichiara che “non c’è nulla fuori dall’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro” (Mc 7,15), e spesso infrange consapevolmente, programmaticamente quasi, i tabù dell’impurità (tocca i lebbrosi, perfino i morti, tocca le donne e si lascia toccare da loro, anche da
quelle in stato di impurità permanente), sconfina ogni tanto nei territori abitati dai pagani, frequenta i peccatori riconosciuti fino a condividere la mensa con loro: se la mensa per noi troppo spesso significa solo mangiare qualcosa, nell’ambiente di Gesù significa comunione di vita, e perciò non si può, non si deve condividere con chiunque…
In Lc 10,29-37 il buon Samaritano, molto ‘laico’, impuro ed eretico per i Giudei come tutti i samaritani, viene contrapposto al sacerdote e al levita, in un confronto vincente: è impuro per definizione, è peggio che estraneo rispetto al popolo santo di Dio (anche se non del tutto estraneo quanto all’origine), apparterrebbe dunque per eccellenza alla sfera del ‘profano’, e da Gesù è assunto come figura dello stile di Dio; in Gv 4 una donna samaritana dal vissuto discutibile è interlocutrice di Gesù nel più lungo dialogo rivelativo che appare nei Vangeli, ed è la sua prima annunciatrice fuori della terra di Israele.
Nel momento della morte di Gesù in croce, secondo Marco (15,38), seguito da Matteo (27,51) e da Luca (23,45), il velo del Tempio si lacera in due da cima a fondo. È la cortina che divide dal resto del Tempio il “Santo dei Santi”, il luogo inaccessibile per tutti fuorché per il Sommo Sacerdote nell’esercizio delle sue funzioni e solo una volta l’anno. La quintessenza e il simbolo del sacro come separazione.
Dopo l’evento di Gesù non vi è più bisogno di sacerdoti, né di tutto l’apparato sacro con relative esclusioni: tempio, culto, Legge, intesa come insieme di precetti. Il rapporto con Dio è im-mediato, è vicino, è totale, anche se di una totalità sempre in divenire; ed è stato Gesù a sancire questa vicinanza con il suo messaggio e la sua persona. Gesù, anche se (e proprio perché) pienamente umano, “riunisce il cielo alla terra e l’uomo al suo Creatore”, come viene detto nel Preconio pasquale.
Non ci sono un mondo sacro e un mondo profano, non ci sono persone sacre (e perciò riservate, ‘ontologicamente’ diverse), perché la persona, ogni persona è sacra, nella sua alterità e nel suo mistero. Con il suo corpo sacramento dell’interiorità, non ‘nonostante’ il corpo, l’essere umano è tempio dello Spirito santo e ha accesso alla comunione con Dio. L’amore di Dio sceglie, ‘elegge’, non però nel senso della separazione, bensì della comunione, e ci vuole tutti “santi e immacolati al suo cospetto nell’amore” (cfr Ef 1,4).
Nota 1) Phyllis Trible, Texts of terror: literary-feminist readings of Biblical narratives, Fortress Press, Philadelphia 1984.