Corpi, storie e generi queer sul piccolo schermo
Dialogo di Katya Parente con Antonia Caruso
Personaggi e serie arcobaleno sono diventati, se non la norma, almeno molto frequenti nel palinsesto televisivo. È a partire da questo assunto che nasce Queer Gaze. Corpi, storie e generi della televisione arcobaleno, un volume curato da Antonia Caruso, che è con noi per parlarcene un po’ più diffusamente.
Personaggi queer. Un fenomeno mediatico. Da quanto tempo lo sono diventati?
I talk show (soprattutto statunitensi) hanno spesso chiamato ospiti variamente queer. Lo facevano molto più per fare colore e per mostrare dei freak che altro.
Poi sì, ci sono stati i film, ma è stato con le serie tv che i personaggi LGBTQ+ hanno acquistato sempre più forza, da Will & Grace e L World, e Netflix, cambiando il modo di visione, da un palinsesto fisso a un catalogo molto vasto, disponibile non solo in qualsiasi momento, ma su qualsiasi piattaforma.
Questo ha creato la possibilità di creare dei prodotti per un pubblico più definito e meno generalista. Quindi, più storie e personaggi LGBTQ+ per un pubblico LGBTQ+, e non solo. Non è solo una questione di marketing, ma è anche una questione di marketing. Essendo dei prodotti audiovisivi non ci si può esimere dal fare un discorso sul marketing. Certo, si nota uno sforzo notevole nella scrittura, ma non è abbastanza, non è mai abbastanza.
Il medium televisivo influenza la società, o è il contrario?
Che domandona! I prodotti culturali fanno parte della società, ne sono il risultato. È un ciclo di scambio continuo. I prodotti culturali, come ad esempio le serie tv, possono diventare dei riferimenti per spiegare delle cose. È molto più semplice parlare di identità trans se una persona ha visto Pose o Transparent, o di AIDS se si conosce It’s a Sin. Le serie diventano dei veri e propri materiali divulgativi ed esemplificativi, anche se non proprio didattici, per fare dei discorsi politici.
Poi c’è da fare una distinzione tra i tipi di contenuti e di messa in scena, e di che tipo di televisione parliamo. La tv generalista propone valori diffusi della società, quasi sempre rassicuranti, confermandoli. Le serie tv e il cinema hanno il vantaggio di poter essere più dirompenti (più il cinema che le serie). Un programma come Uomini e Donne (per quanto lo conosca poco, ma è solo un esempio) prende valori, storie, ruoli, personaggi dalla società, li rende compatibili con la tv e li mette in onda. Il pubblico in parte riconosce come propri queste storie e valori, in parte potrebbero essere anche nuovi e potrebbe assumerli come propri, come coerenti con gli altri, e diventare così dei riferimenti e degli status symbol.
Ho semplificato molto un processo complesso che vale per qualsiasi prodotto culturale. Poi bisognerebbe capire cosa si intende per società, è solo quella che si può permettere la tv o l’abbonamento a Netflix?
Diversi autori, molteplici angolazioni. Davvero il fenomeno è così sfaccettato?
Con Asterisco, la casa editrice, abbiamo deciso di chiamare solo persone LGBTQ+ e prevalentemente di genere femminile (Valerio De Simone, Irene De Togni, Federica Fabbiani, Nina Ferrante, Stefano Guerini Rocco, Elisa Manici, Lucia Tralli, Mijke van der Drift, ed Eugenia Fattori). Questo perché lo sguardo queer del titolo è quello della critica, più che quello della produzione.
L’impostazione di tutto il volume è di critica, da un punto di vista non normativo e anticapitalista, cioè propriamente queer. È una posizione che è venuta fuori da sola, non è stata imposta da me o dalla casa editrice.
Serve uno sguardo critico, non basta mettere un personaggio gay in una storia per far sì che sia una storia LGBT. Perché per esempio se metti un personaggio gay, e poi gli fai dire delle cose stupide o viene picchiato, non serve a molto. Non serve a molto se non tematizzi la violenza omofobica, in questo caso.
Si potrebbe definire il volume un libro in qualche modo che affronta un fenomeno antropologico-culturale?
Credo che ogni analisi di prodotti culturali possa essere un’analisi di un fenomeno che va oltre il prodotto in sé. Come dicevo prima, i prodotti, soprattutto se parliamo di prodotti mainstream o con una diffusione molto ampia, vengono appunto dalla società.
Quando parliamo di prodotti LGBTQ+, ci sono varie interpretazioni. Possono essere frutto di rainbow washing, oppure dietro c’è l’idea di come si pensa che sia una ipotetica comunità LGBTQ, o si pensa che debba essere.
Le storie servono a questo, cioè a mettere in scena tante possibilità. Poi, certo, sarebbe meglio farlo sempre con le autoproduzioni o con le produzioni indipendenti, ma lì il problema rimane sempre la distribuzione, e come far sapere al resto del mondo che esiste altro.
Esiste altro… Come dice Antonia è un “altro” che allarga gli orizzonti e, spesso facendoci sorridere, ridere o addirittura piangere, ci entra sottopelle, cambiando davvero il nostro sguardo.
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