Cosa aspettarsi da un incontro con le persone LGBT? La normalità!
Articolo di Guido Gabotto pubblicato sul sito Vercelli Oggi il 30 novembre 2014
Chi si fosse aspettato lustrini, paillettes, piume di struzzo, body leopardati, sarebbe rimasto deluso. La serata è piovosa e niente fa pensare ad un gay pride, qui a Borgosesia, in questo venerdì autunnale.
Gli abiti sono quelli adatti alla stagione, con l’aggiunta degli ombrelli, perché fuori piove. E anche la location: niente atmosfere soffuse e complici come quelle di un palcoscenico calcato dalle drag queens, oppure ironicamente glamour come se si preparasse un remake de “La cage aux folles”.
La sala riunioni dell’elegante hotel valsesiano ricorda piuttosto, con le sue algide luci al neon e le lavagne luminose pronte a ricevere le slides, il luogo per un incontro tra agenti di commercio monomandatari che – invitati dalla Casa Madre preponente – analizzino l’andamento delle vendite per il trascorso 2014 e preparino obbiettivi e budget per il prossimo 2015.
Con tanto di contest da raggiungere da qui e per quest’ultimo scorcio d’anno. Se volevano dimostrare la “normalità” della “diversità”, quelli di Rainbow Vercelli Valsesia ci sono riusciti, a partire dalla assoluta ordinarietà dell’atmosfera alla quale dà vita l’incontro.
Più vicino – se proprio bisogna rintracciare analogie – al gruppo di auto mutuo aiuto.
Perché di questo c’è forse più bisogno: di parlar-si e non solo di “parlare”; di raggiungere la mente ed il cuore delle persone e non solo di manifestare, anche manifestandosi. Parlare alla gente, alla società. Quella più prossima: il vicino di casa, il collega di lavoro, il compagno di scuola. Per farsi carico – senza nessuna presunzione, né pretesa elitaria o illuministica, ma anche senza afasie, né vergogna – di una azione “educativa”.
Che sappia cioè trasferire nel costume e nella cultura non solo l’idea della “accettazione”, ma – di più – anche e soprattutto quella della “accoglienza”. Così, non fanno a pugni le nozioni – diversità e normalità – nella loro apparente contrapposizione, che è invece giustapposizione utile alla ricomposizione, vagheggiata nella visione di relazioni umane armoniche: quella “diversità” che non può essere negata è, a suo modo quanto certamente, “normale”.
Perché rintraccia le ragioni della propria naturale ragion d’essere nella oggettiva accettazione di una “differenza” anch’essa “naturale”, cioè contemplata nella forse misteriosa, ma sempre sapiente, dimensione della provvidenzialità del creato. Così la fredda accettazione, la semplice “tolleranza” può naturalmente evolvere nella “accoglienza”, più impegnativa ed insieme capace di consegnarsi alla dimensione della fraternità, alla quale siamo sempre chiamati. Anche quando facciamo forse più fatica a sentirla e soprattutto metterla in pratica, questa fraternità.
La nostra fatica non è – anch’essa – innaturale. È però la cifra di un percorso che dobbiamo compiere per dirci davvero e coerentemente costruttori responsabili della società terrena. La città terrena, se non è ancora la Gerusalemme Eterna, certo non può essere solo la pur “normale” città di Caino, Enoch, quella prima modalità di convivere tra simili che l’antico progenitore concepisce per rifugiarvisi, per “strutturare” le difese dalla propria debolezza.
La debolezza è sempre quella: la difficoltà di riconoscere ed amare l’altro come fratello. La città che è simbolo della nostra ineludibile esigenza di organizzare la vita tra gli uomini, diventa forse la soluzione per mettersi, anche così, al riparo dalla possibilità che si ripeta la drammatica esperienza di una fraternità difficile; difficile fino ad essere impossibile, luttuosa. Anche se il percorso non è facile, né semplice, né breve, bisogna intraprendere il cammino perché la semplice accettazione diventi accoglienza, la tolleranza si riconosca ancora incompleta espressione di carità. La carità, poi, come sappiamo, è amore.
Ed è forse ricollocando il baricentro della nostra attenzione su questa parola, sull’amore, sui sentimenti, piuttosto che soltanto sul sesso riusciamo meglio a rapportarci con l’omosessualità e con le sue ragioni e comunque con la sua insopprimibile realtà e verità. Perché le persone Lgbt (la sigla richiama alle parole lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) avvertono spesso l’attenzione del mondo “etero” come se fosse concentrata sulla componente sessuale della vita, anche della vita affettiva.
Componente – quella sessuale – importante e che, tuttavia, non rappresenta il punto di “partenza” per traguardare il nostro orizzonte di oggi, punto di partenza radicato invece nella dimensione identitaria e affettiva. Sono questi due momenti – la presa di coscienza di una identità considerata “diversa” e lo sviluppo di relazioni affettive con persone dello stesso sesso – il primo segno di contraddizione affrontato da tanti ragazzi e ragazze, dalle loro famiglie.
Ragazzi che sempre finiscono per essere alle prese con il proprio sistema di relazioni (scuola, mondo del lavoro, ambiente domestico o familiare in senso lato), cioè con quelle relazioni di prossimità che a loro generano disagio e sofferenza. Perché il problema è – finisce per essere – sempre questo. Le persone Lgbt in qualche momento della loro storia, quando emerge un punto di approdo della propria ricerca identitaria, quando prendono contezza del proprio orientamento sessuale, nel momento in cui condividono (che lo debbano fare, lo scelgano, lo vogliano fare o non possano fare a meno di farlo) la propria esperienza con gli altri incontrano inevitabilmente il dolore. Conoscono la sofferenza come conseguenza di ciò che sono, di come amano.
Ed è questo dolore che percorre, come un “fil rouge”, le esperienze che sentiamo raccontare; un denominatore comune umiliante per noi – se non riusciamo a fare nulla perché le cose cambino – almeno quanto per loro. Perché è un dolore inaccettabile. È inaccettabile che una persona soffra per la propria identità.
I protagonisti di alcune di queste storie sono qui a Borgosesia (Provincia di Vercelli), proprio perché, anche mediante la conoscenza delle loro esperienze, in tanti possiamo incominciare un cammino, “educarci” alla accoglienza. E proprio per questo conviene forse, a questo punto, una precisazione.
Per una volta abbiamo preferito dare maggiore “peso”, nella compilazione del servizio, alla parte filmata. Questo anche per una ragione. Sono racconti di persone assolutamente “normali”. Anche in questo senso, che cerchiamo di esporre. Lo scopo della associazione Rainbow è, tra gli altri, quello di dire un po’ a tutti che la condizione omosessuale sia una cosa “ordinaria”.
Così non sono stati invitati, qui a Borgosesia, specialisti in psicologia, sociologi, e figure professionali idonee ad indagare “da fuori” un “fenomeno”. La parola è stata data – per dir così – al “gay della porta accanto”. Persone che potrebbero essere, come abbiamo detto, un vicino di casa, un collega di lavoro, un compagno di scuola. Insomma, persone come chiunque di noi. Perché la vita “normale” è anche questa. Non è che l’argomento sia da rivista patinata.
Quella di questo venerdì sera, 28 novembre a Borgosesia è un’occasione per testimoniare. Per testimoniare anche in questo modo, ad una platea certo non oceanica, ma nemmeno così esigua, composta anche da persone eterosessuali e – soprattutto – da persone che non vogliono nascondersi. Testimoniare che la sofferenza inflitta ad una persona solo perché ha una diversa identità sessuale è sempre ingiusta.
Certo, poi le cose si superano, la realtà è (quasi) sempre metabolizzata, la vita ad un certo punto si assesta e poi continua. Non è un caso che la parola più inconsapevolmente ricorrente, quasi una costante anche nella relazione dei presentatori, sia quella di “corazza”. “Ormai siamo corazzati”. E ancora “poi mi sono sentito corazzato”. Perché le offese ci sono state e qualche volta, più sottili e subdole, ci sono ancora: e allora è d’uopo affrontare la vita con la “corazza”.
E se un messaggio si può e bisogna portare a casa è proprio questo: non è giusto che ci siano persone costrette ad affrontare la vita come un campo di battaglia, con tanto di cotta e corazza, per potere rientrare a casa senza le ferite rimediate a scuola, in palestra, al lavoro.
I protagonisti però raccontano dell’atteggiamento crudele dei compagni e soprattutto delle compagne di scuola. In quella difficile “età di mezzo” che ora parte già dalla Scuola media, non più dalle Superiori.
Dove si sa già molto, se non tutto, della vita, magari avendolo appreso nel peggiore dei modi. E dove si incomincia – prima ancora che ad emarginare – a dileggiare, schernire, insultare, il ragazzo (più di rado la ragazza, che arriva qualche anno dopo, generalmente, alla presa di coscienza) che sente di essere “diverso”, così manifestandosi. Colpisce soprattutto, nei racconti, la perseveranza degli aguzzini che “tutti i giorni” ti chiamano culattone, “tutti i giorni” ti fanno i risolini, “tutti i giorni” ti indirizzano pesanti allusioni, anche in presenza degli insegnanti. Così tu vai a scuola e vedi l’ora dell’intervallo come un incubo, invece che una ricreazione. Parti da casa e ti senti come quando ti aspetta un compito in classe e non sei abbastanza preparato.
Tutti i giorni sono, se non come il giorno di un compito in classe, di sicuro il giorno di una prova. Supplementare. Sono cresciuti due volte. Allora vorresti fuggire, andare altrove. Hai solo dodici anni, ma ti ritrovi a pensare che questa via d’uscita possa essere dal balcone del quarto piano.
Poi, nei loro racconti, ci sono anche le esperienze confortanti: spesso la nonna che capisce e aiuta; altre volte l’insegnante intelligente che si adopera per sistemare le cose. Una volta, persino, è venuto in aiuto un Maresciallo dei Carabinieri che ha ammonito le piccole, ma pestifere “bulle” sulle conseguenze cui sarebbero potute andare incontro persistendo nel denigrare il loro compagno gay.
Importante anche la voce dei genitori di ragazzi omosessuali. Si sono riuniti in Associazione, la “Agedo” – Associazione tra Genitori di Omosessuali – perché anche la famiglia più aperta ed affettuosa, quando capisce che il proprio figlio si riconosce omosessuale, si trova alle prese con un problema generalmente mai messo in conto. Così che si può dire di genitori chiamati ad essere “genitori due volte”. Un problema che non può essere banalizzato, né indagato secondo un approccio semplificatorio: non è utile.
Perché l’impatto emotivo per i genitori non è meno netto. Talvolta condizionato dalla illusione di rimuovere, rimandare, relegare la faccenda a giovanili quanto “passeggere” suggestioni. Talaltra, all’opposto, capace di generare ansia per la necessità di “proteggere” il proprio figlio da tutte le difficoltà e cattiverie che si teme – e spesso con ragione – potrà incontrare nella vita.
E se questo è il sentimento generalmente vissuto dalla mamma, il papà invece – anche il papà più aperto e volenteroso – deve talvolta fare i conti con la propria immaginazione. Finché il proprio figlio arriva a casa e presenta il fidanzato, si pranza insieme, va ancora tutto bene. Ma, quando la domenica passa ed il papà si ritrova solo e pensa ai due ragazzi che sono a letto insieme, allora spesso è il momento del rifiuto.
Per loro parla in questa serata Vanda Aiazza che, con altre famiglie, incontrammo agli albori della esperienza di VercelliOggi, nel 2010, proprio per un approfondimento e per fare conoscere anche in provincia di Vercelli questo punto di ascolto e condivisione.