Cosa ci dice il Signore quando ci vietano di pregare in una chiesa per le vittime dell’omofobia?
Riflessioni di Gianni Geraci, portavoce del gruppo del Guado di Milano
La samaritana di Sicar (Gv 4,1-30), mentre andava a prendere l’acqua al pozzo di Giacobbe, non pensava certo di incontrare qualcuno che avrebbe dato un significato nuovo a tutta la sua vita. D’altra parte, chi avrebbe mai parlato di certe cose con lei, che era Samaritana, che era donna, che aveva avuto cinque mariti e che viveva con un uomo che non era suo marito?
Anche noi omosessuali, quando ci avviciniamo alla chiesa, facciamo fatica a superare il pregiudizio di chi si aspetta sempre e comunque un rifiuto fatto di parole, di norme, di esortazioni e di condanne che, al massimo, possiamo far finta di ignorare, ma che restano come macigni lungo il nostro cammino.
Ma come sempre Gesù ci sorprende e ci fa capire, con il racconto che Giovanni riporta nel suo Vangelo, che anche se sa chi siamo («Hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito» dice alla donna), ci parla, ci chiede un aiuto, ci offre l’acqua della vita e perde il suo tempo con noi.
Il parallelismo che c’è tra la condizione di molti omosessuali credenti e l’episodio della Samaritana, mi è tornato alla mente oggi, quando ho letto che la Chiesa di Genova, in considerazione della campagna elettorale in corso per le elezioni regionali, ha interrotto quella tradizione di ospitalità con cui, in passato, aveva accompagnato le Veglie per le vittime dell’omofobia che molti gruppi di omosessuali credenti organizzano in giro per il mondo.
Mi è tornato in mente, perché ho ripensato alle parole con cui Gesù risponde alla questione che solleva la Samaritana: «Vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare» e, al posto di risponderle direttamente, la invita a guardare più in là: «è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità».
E così, rileggendo quel brano, ho trovato una risposta alla domanda che mi era sorta spotanea: «Cosa ci dice il Signore quando sentiamo bruciare sulla nostra pelle il rifiuto con cui, qualche volta, ci viene negata la possibilità di pregare in una chiesa per le vittime dell’omofobia?»
Permettendoci di vivere questa esperienza di rifiuto, così stridente con l’aggettivo di “cattolica” (che vuol dire “universale”) con cui la chiesa stessa si presenta, il Signore ci invita ad andare più in là; ci invita a non smettere di pregare nemmeno quando non ci permettono di pregare nelle sue chiese; ci invita ad affidare a lui la nostra preghiera senza preoccuparci dei giudizi e delle paure dei suoi ministri.
Perché prima ancora di questi ministri, prima ancora di questi uomini di chiesa che, schiacciati dalle loro paure, rifiutano di accoglierci.
Prima ancora di questi ecclesiastici, che si preoccupano più del giudizio degli uomini che del giudizio di Dio e contro l’ipocrisia che li spinge a dire e a non dire, a nascondersi per non compromettersi, a sentirsi padroni di una chiesa che invece dovrebbero servire, c’è Lui, il Signore, che ci viene incontro e che ci invita a passare un po’ di tempo con lui.
E allora preghiamo! Preghiamo là dove possiamo farlo, senza dover chiedere il permesso a nessuno! Preghiamo senza scoraggiarci anche quando abbiamo l’impressione che gli uomini di chiesa non gradiscono le nostre preghiere o quando ci accorgiamo che siamo circondati dal disinteresse.
Preghiamo forti della certezza che il Padre di colui che ha detto: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Lc 11,9), accoglierà le nostre invocazioni, ci farà trovare ciò di cui abbiamo bisogno per incontrarlo e ci aprirà le porte del suo Regno, che sono molto più importanti delle porte di qualunque chiesa.