Cosa può insegnarci l’epidemia di AIDS durante la pandemia da coronavirus?
Articolo di Masha Gesse* pubblicato sul sito del mensile The New Yorker (Stati Uniti) l’8 aprile 2020, liberamente tradotto da Innocenzo Pontillo
Quelli che, come noi, hanno vissuto l’epidemia di aids (negli anni 80) hanno cercato di capire cosa può dirci quell’esperienza oggi nella crisi da Covid-19.
Allora abbiamo imparato qualcosa che può essere utile ancora oggi? Abbiamo scoperto qualcosa che può aiutarci a sopravvivere a questa pandemia? Abbiamo cose da insegnare a quelle persone che non hanno mai conosciuto prima questo dolore e questa rabbia? (…)
Scriveva su BuzzFeed il giornalista Mark Schoofs, ricordando il dolore e la paura che è stata la nostra compagna quotidiana durante la crisi dell’Aids, che quella tragedia ci ha offerto una serie di lezioni ovvero: comportati come se fossi infetto; ricordati che il governo non ti salverà; sappi che tutti sono a rischio e questa è la nostra migliore speranza.
Sul Guardian, il romanziere Edmund White ha enumerato le tante differenze tra l’epidemia di aids negli anni ottanta e la pademia da covid-19, ma anche le somiglianze sorprendenti che le uniscono ovvero le voci, la disinformazione e il folklore parascientifico che le circondano entrambi.
White, che ha ottant’anni, si è anche chiesto se sarebbe sopravvissuto al coronavirus, dopo aver convissuto con l’HIV dal 1985.
Su LGBTQ Nation, Mark S. King si è opposto a tracciare dei parallelismi tra i due virus. “A nessuno importava delle persone che morivano di aids nei primi anni della malattia”, ha scritto, “Il mercato azionario non crolló. Il presidente degli Stati Uniti non tenne all’epoca delle conferenze stampa. Non vennero spesi migliaia di dollari.. Non c’è proprio paragone.”
Ma, naturalmente, continuiamo a fare paragoni, perché l’aids è stata una epidemia globale che ha ucciso milioni di persone ed ha provocato quel misto di dolore e paura che oggi ci sembra così familiare.
“La sensazione principale che provo quando mi sveglio ogni mattina è palpabile e fisica”, ha twittato Gregg Gonsalves, che era un attivista contro l’aids prima di diventare un epidemiologo.
“È un peso che sento nei miei occhi per le lacrime che non mai versato. Sono così triste in questo momento, Mentre penso a una via d’uscita che riduca al minimo il dolore e la sofferenza che ci aspettano. Tramp (presidente degli Stati Uniti all’inizio della pandemia da covid) ed il suo partito non hanno avuto alcun interesse e nessuna idea di come andare avanti.
Significa che tutto questo andrà avanti più a lungo di quanto dovrebbe e sarà più crudele del necessario. Questo è uno degli episodi più vergognosi della storia americana ma sta accadendo in tempo reale”.
Quindi continuo a cercare nella mia memoria quelle lezioni che potrebbero essere utili. Una lezione che ci ha lasciato la pandemia di aids riguardava il potere delle comunità che si uniscono per prendersi cura l’una dell’altra, per toccarsi, per agire, usando i corpi , spesso fragili, corpi sempre in pericolo, a volte anche i cadaveri – per combattere.
Questa lezione è difficile da applicare nell’era del distanziamento sociale, anche se alcuni veterani di Act up stanno riuscendo a mettere in scena azioni dirette di sensibilizzazione anche adesso, stando a due metri di distanza.
Forse la lezione più importante che ho imparato dall’epidemia di aids era che prima o poi sarebbe finita e che il mondo sarebbe rinato.
Ora, quando guardo le immagini delle strade deserte di Parigi o del centro vuoto di Mosca, penso a tutta la violenza, le tragedie e la storia a cui quegli edifici hanno assistito.
Le città saranno ancora lì quando questa pandemia sarà finita, ed anche molti di noi saranno ancora lì e “ci incontreremo di nuovo “, come ha detto la regina d’Inghilterra, nel suo discorso alla nazione.
C’è stato un tempo, quando ero molto giovane, in cui tutti nel mio mondo erano malati e morivano a causa dell’Aids. Nei miei primi vent’anni, ogni settimana andavo a diversi funerali. Il mio compagno di stanza è morto di aids. L’altro mio compagno di stanza è morto.
Tutti i miei insegnanti sono morti. Ho curato una rivista gay che conteneva una rubrica sulla convivenza con l’aids. L’editorialista del giornale è morto, trovai un sostituto, ma sarebbe morto anche lui.
Non potevo credere che tutto questo stesse accadendo intorno a me, non potevo credere che il governo e tanti altri non si rendessero conto che stava succedendo e non potevo credere che non sarebbe finita mai, soprattutto perché la scienza ci aveva detto che non ci sarebbe mai stata una cura o un vaccino.
Poi, per molte persone, è finita, improvvisamente come era iniziata. I miei amici più giovani non hanno idea di come sia stato vivere l’epidemia di aids e nemmeno i miei amici etero, o gli amici che erano etero all’epoca.
L’anno scorso, quando stavo raccogliendo i miei ricordi per il cinquantesimo anniversario di Stonewall, sono rimasto colpito da quanto poco spazio sembrasse occupare l’aids nei ricordi delle persone che l’avevano vissuto.
Scrivendo sulla Boston Review, Amy Hoffman ha suggerito che, poiché l’aids è stato così traumatico, così al di fuori della nostra comprensione della vita, non può essere inserito in nessuna narrativa; si parla o di aids o di altre storie di vita, ma non di entrambe le cose allo stesso tempo.
Potrebbe esserci un’altra ragione per cui è molto difficile conservare la memoria dell’era dell’aids. Incontrando un medico di una certa età, verrebbe da chiedersi: Eri uno di quelli che si rifiutavano di entrare nella stanza dove vi era una persona malata di aids?
Incontrando una simpatica signora, che molto tempo fa ha perso un figlio a causa dell’aids , verrebbe da chiedersi: eri una di quelle madri che si rifiutavano di far tornare a casa suo figlio perché malato? I suoi amici si sono presi cura di lui quando è morto, mentre tu sei rimasts lontano?
Leggendo un necrologio o una biografia di Ronald Reagan o George H. W. Bush, ci si dovrebbe chiedere: le persone che sono morte di aids contano così poco che i loro biografi possono ignorare l’inerzia avuta da entrambi i due presidenti nel combattere questa malattia?
Le crisi tirano fuori il peggio di noi, ma spesso lo dimentichiamo a nostro rischio e pericolo.
Nel 1985, gli abitanti di Kokomo, nell’Indiana, impedirono a Ryan White, un ragazzo malato di aids, di andare a scuola; oggi invece un edificio a Manhattan ha allontanato un medico che era venuto in città per curare i newyorkesi malati di covid-19.
Nel 2015, sempre in Indiana, Mike Pence , allora governatore dello stato, ha volontariamente gestito male un focolaio di HIV; con trump è stato vicepresidente e responsabile della task force sul coronavirus.
Le nazioni hanno chiuso i loro confini. Gli Stati vogliono chiudere le frontiere. Cape Cod vuole chiudere i ponti (una petizione online ha raccolto tredicimila firme).
A Rhode Island, un campo da golf ha affisso il cartello “Luogo aperto solo ai residenti” e hanno arrestato tre uomini del Massachusetts per avervi giocato a golf. (No, non avrebbero dovuto giocare a golf, ma nemmeno gli abitanti del Rhode Island dovrebbero farlo in piena pandemia)
C’è abbastanza sovrapposizione tra politiche sane, come il distanziamento sociale e la riduzione al minimo dei viaggi e il comportamento xenofobo che difficilmente mettiamo in discussione come l’assurda ipotesi che siano nazionai o locali i confini siano ostacoli significativi per il virus.
Trump potrebbe non essere riuscito a costringere tutto il mondo a chiamare il covid-19 come “virus cinese”, ma ovunque la gente ne parla come la malattia che colpisce altre persone. La paura del virus invisibile, viene sostituita con la paura e la colpa da assegnare ad altre persone di altri luoghi.
Quando parliamo di salute pubblica, in qualche modo immaginiamo che l’epidemia sarà contrastata da chiunque verrà proteggere se stesso. Eppure il genero del presidente Trump, Jared Kushner, affermó che le scorte strategiche nazionali non possono essere utilizzate dai diversi stati per combattere il virus.
Gli stati fanno offerte l’uno contro l’altro per accaparrsi i ventilatori polmonari. Il governo dice a tutti noi di trovare o realizzare da soli le nostre mascherine di protezione. “La supposizione che si possa emettere un ordine dall’alto, e una popolazione estremamente eterogenea in condizioni di stress e di carenza di risorse possa improvvisamente conformarsi senza che il governo fornisca loro ciò di cui hanno bisogno è sorprendente”.
Sheila Jasanoff, professore di studi scientifici e tecnologici presso l’Università di Harvard alla Kennedy School of Government, ha detto a The Nation che oggi : “A malapena ci viene in mente che il bene comune non è semplicemente una questione di responsabilità personale di ciascuno di noi”.
Anche nel mezzo di un crisi nazionale, a nessun livello pensiamo alla pandemia come al nostro problema . (…)
Prima che finisca, la pandemia peggiorerà molto, e anche noi con lei. Poi finirà. E, a meno che non iniziamo il lavoro di annotare e ricordare già ora, dimenticheremo quanto siamo caduti in basso. Assimileremo i modi in cui il virus ha cambiato le nostre percezioni.
Romanticizzeremo l’eroismo e l’ingegnosità con cui le persone non sono state sostenute dal loro governo, piuttosto che affrontare le persone responsabili colpevoli di queste mancanze.
* Masha Gessen è diventata una scrittrice del The New Yorker nel 2017. Il loro ultimo libro è “Surviving Autocracy” (editore Penguin, 2020, 288 pagine)
Nata a Mosca nel 1967, Masha Gessen si è spostata con la famiglia negli Stati Uniti nel 1981 per tornare in Russia dieci anni dopo e lavorare come giornalista e attivista Lgbt. È stata redattrice capo della più longeva rivista russa, Vokrug sveta, e nel dicembre 2013 è tornata a stabilirsi negli USA, a New York, a causa delle minacce legali rivolte alla comunità gay. È autrice di diversi libri, tra cui Putin. L’uomo senza volto (2012) e I fratelli Tsarnaev. Una moderna tragedia americana (2017), su due ceceni responsabili dell’attentato alla maratona di Boston del 2013. Il futuro è storia ha vinto il National Book Award 2017 ed è stata finalista al National Book Critics Circle Award.
Testo originale: What Lessons Does the AIDS Crisis Offer for the Coronavirus Pandemic?