Judith Butler: Intanto ritengo importante precisare di non aver inventato gli “studi di genere” (gender studies): la categoria di “genere” era infatti già in uso dagli anni Sessanta, negli Stati Uniti, sia all’interno della ricerca sociologica, sia in quella antropologica. In Francia, invece, in particolare sotto l’influsso di Lévi-Strauss, si è preferito parlare di “differenze sessuali”. La cosiddetta “teoria del gender” prende dunque piede solo tra gli anni Ottanta e Novanta, innestandosi proprio all’incrocio tra l’antropologia statunitense e lo strutturalismo francese.
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Le Nouvel Observateur: Teoria spesso interpretata come un modo per dire che le differenze sessuali non esistono…
Judith Butler: Si tende a credere che la definizione del sesso biologico sia autoevidente; in realtà, sappiamo che è sempre stata al centro di numerose controversie all’interno del dibattito scientifico. In molti mi domandano se io ammetta o no l’esistenza del sesso biologico. Implicitamente, è come se mi stessero dicendo: «bisognerebbe essere pazzi per dire che non esiste!» E in effetti è vero, il sesso biologico esiste, eccome. Non è né una finzione, né una menzogna, né un’illusione. Ciò che rispondo, più semplicemente, è che la sua definizione necessita di un linguaggio e di un quadro di comprensione – esattamente come tutte le cose che possono essere contestate, in linea di principio, e che infatti lo sono. Noi non intratteniamo mai una relazione immediata, trasparente, innegabile con il sesso biologico. Ci appelliamo invece sempre a determinati ordini discorsivi, ed è proprio questo aspetto che mi interessa.
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Le Nouvel Observateur: I generi però sono delle norme che lei critica.
Judith Butler: La teoria del genere non descrive infatti “la realtà” in cui viviamo, bensì le norme eterosessuali che pendono sulle nostre teste. Norme che ci vengono trasmesse quotidianamente dai media, dai film, così come dai nostri genitori, e noi le perpetuiamo nelle nostre fantasie e nelle nostre scelte di vita. Sono norme che prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere un uomo o una donna. E noi dobbiamo incessantemente negoziare con esse. Alcuni tra noi sono appassionatamente attaccati a queste norme, e le incarnano con ardore; altri, invece, le rifiutano. Alcuni le detestano, ma si adeguano. Altri ancora traggono giovamento dall’ambiguità… Mi interessa dunque sondare gli scarti tra queste norme e i diversi modi di rispondervi.
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Le Nouvel Observateur: Lei ritiene che non esista una “natura maschile” e una “natura femminile”: che non sia possibile, in sostanza, dire “io, in quanto uomo”, o “io, in quanto donna”.
Judith Butler: Può esistere una natura femminile, ma come possiamo conoscerla? E come definirla? Nel momento stesso in cui noi iniziamo a parlarne, ci ritroviamo a dover argomentare a più riprese, a difendere il nostro punto di vista in materia: ciò significa che il genere è costantemente oggetto di/soggetto a pubblica discussione, non è un’evidenza naturale. Altrimenti la vedremmo tutti. Poi, certo: posso senz’altro prendere parola “in quanto donna”. Ad esempio, posso dire che “in quanto donna” lotto contro le discriminazioni che gravano sulle donne. E ciò sortisce un incontestabile effetto politico. Ma questa definizione è in grado di definire ciò che sono? Potrei mai essere sussunta sotto la categoria universale “donna”? Nel momento in cui impiego questa categoria per me sto per caso parlando a nome di tutte le donne?
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Le Nouvel Observateur: I suoi lavori si iscrivono in un certo filone di pensiero statunitense che ha per oggetto le vittime della dominazione: le donne e gli omosessuali per gli studi di genere, le minoranze razziali per gli studi postcoloniali, i soggetti vulnerabili per le etiche della cura. Il dominatore è comune a tutte: il “maschio bianco eterosessuale proprietario”. Le sue riflessioni si rivolgono a lui?
Judith Butler: Come tutti, in realtà, anche il “maschio bianco eterosessuale proprietario” è ripetutamente oggetto di interpellazioni di vario tipo alle quali si deve conformare. Vivere la sua eterosessualità, la sua “bianchitudine”, i suoi privilegi economici, tutto ciò significa modellare la propria soggettività in base ai canoni dominanti, ma significa anche lottare strenuamente contro altri aspetti della sua personalità: la sua parte omosessuale, quella femminile, quella “nera”… Come tutti noi, anche il maschio bianco eterosessuale deve negoziare, per esistere. Anche lui corre dei rischi. A volte, nel guardarsi allo specchio vedrà forse una donna… e tutte le sue certezze andranno in frantumi.
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Le Nouvel Observateur: La teoria del genere ha uno scopo politico?
Judith Butler: Il mio pensiero è rivolto a quelle persone il cui genere o la cui sessualità sono al centro di conflitti di vario tipo e mi piacerebbe contribuire a rendere il mondo un luogo in cui vivere un po’ più facilmente. Si consideri il caso della bisessualità: il regime degli orientamenti sessuali rende ardua la possibilità di poter amare sia un uomo sia una donna – vi si dirà che dovete scegliere tra le due alternative. O si consideri ancora la situazione degli intersessuali, le persone sessualmente ambigue o indeterminate: alcuni chiedono che questa ambiguità sia accolta come tale, senza che queste persone siano costrette a divenire donne o uomini. Come fare per aiutarle? La Germania ha appena introdotto il “terzo genere” tra le categorie con cui amministrare i corpi. E mi sembra un tentativo di rendere il mondo più vivibile.
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Le Nouvel Observateur: Ci si può liberare dal genere? Tante persone auspicano infatti la venuta di un mondo in cui il sesso biologico venga trattato alla stregua di variabile secondaria, come il colore dei capelli o la misura del piede…
Judith Butler: Per quanto mi riguarda, non ho mai pensato alla necessità di un mondo senza i generi, un mondo post-genere, così come non ho mai pensato a un mondo post-razziale. In Francia, alcuni esponenti della sinistra hanno proposto di eliminare la parola “razza” dalla Costituzione. È assurdo! Tutto ciò significa contribuire alla costruzione di un mondo privo di storia, privo di cultura, privo di psiche… Non credo che sia un’operazione di successo quella di far finta che la colonizzazione non abbia mai avuto luogo e che non esistano le rappresentazioni culturali razziali. Allo stesso modo, a proposito del genere, non possiamo ignorare la sedimentazione delle norme sessuali. Abbiamo tutti bisogno di norme perché il mondo possa funzionare: dovremmo semmai capire quali norme ci convengono di più.
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Le Nouvel Observateur: Nei paesi occidentali, le destre e anche le destre estreme spesso usano il tema dell’omosessualità per muovere una accusa di omofobia all’Islam. Nel 2010, durante il Gay Pride di Berlino, ha rifiutato un’onorificenza denunciando la pericolosa deriva xenofoba del movimento omosessuale. Questo pericolo è ancora attuale?
Judith Butler: In effetti esiste un modo nazionalista, di destra, di difendere la causa degli omosessuali. Ma all’opposto troviamo fortunatamente anche gay e lesbiche che lottano sia contro l’omofobia sia contro il nazionalismo estremo: si tratta di persone che hanno in testa un progetto di giustizia sociale e che non si accontentano di reclamare diritti solo per se stessi, ma anche per tutte le altre minoranze e soprattutto per i migranti. Ciò che mi ha infastidito, a Berlino, era che l’unico gruppo nei riguardi del quale le associazioni tedesche muovevano l’accusa di omofobia era quello degli immigrati musulmani. Come se fosse facile essere un adolescente gay nelle scuole tedesche! Come se la chiesa avesse mai sostenuto la causa degli omosessuali! Quindi, ridurre l’omofobia in Europa alla minaccia islamica è un modo come un altro per dire: “noi europei sì che siamo civili, non come i musulmani”. Significa edificare un capro espiatorio. Chiaramente la questione è molto più complessa di così. A chi sia capitato di recarsi a Il Cairo o a Ramallah vi avrà senz’altro trovato comunità gay molto vivaci.
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Le Nouvel Observateur: In passato lei ha criticato le leggi francesi che proibiscono l’uso del velo o il burqa a scuola. Ma non si tratta forse di esempi eclatanti di discriminazione di genere?
Judith Butler: Io francamente non ho mai compreso appieno la fissazione francese sul tema del velo. Il velo è certo segno di sottomissione, ma è anche segno di appartenenza a una data famiglia, a una religione, a un paese d’origine, a una comunità. Proibire a una ragazza o a una donna di portare il velo significa obbligarla a recidere i suoi attaccamenti, a sradicarsi. È bene che sia oggetto di giudizio politico se l’attaccamento alle proprie origini sia o no una buona cosa, ma non è certo allo Stato che spetta il compito di tradurre questo giudizio in una norma coercitiva. Togliersi il velo, per una musulmana, dovrebbe essere una scelta – proprio come il matrimonio per una coppia di persone omosessuali. Nessuno le obbliga a sposarsi, ma è bene che vi sia questa possibilità. È una norma, ma non è obbligatoria.