Cos’è la preghiera? Prossimità preminente
Giornalista: “Cosa chiede quando prega?”. Niente, mi metto in ascolto. “E Dio cosa le dice?”. Nulla; anch’Egli è in ascolto. (…?…). Se non lo capisce, non posso spiegarglielo. (madre Teresa di Calcutta)
Che cos’è questo ascolto? È un ascolto interno, naturalmente. Quando si pone l’attenzione dentro di sé, ciò che accade è la percezione dello scorrere del ruscello dei pensieri automatici, quelli che, nello stato di veglia durante le attività, le relazioni, gli avvenimenti e gli imprevisti quotidiani, muovono l’emergere di emozioni che il più delle volte non sappiamo decifrare.
Ciò che assume valore totale, avvolgente, è un sentimento di commozione verso le nostre miserie e più in generale di compassione verso la limitatezza delle vicende legate alla sfera delle azioni e dei desideri umani.
Per chi possiede la fiducia di essere divinamente protetto e guidato, e comunque amato, tutto ciò, piuttosto che rappresentare l’elemento di evasione dalla materialità dei corpi, produce indulgenza e partecipazione alle umane traversie.
E questa è la riconoscenza di essere vivi qui, oggi: non vincenti, esigui agli occhi della mente, ma perfetti nella potenza di una tenerezza di vita che travalica i limiti della biologia e ci fa parte universale.
La preghiera diventa forma della gratitudine, che, nella pratica della libertà che è la vita, esplica la sua realizzazione. (appunti del 7 maggio 2007, ore 6,00)
La preghiera di cui parlo è altro dalla ripetizione di una litania codificata: lì c’è uno svuotamento della mente simile alla ripetizione di un mantra, e, se non una fuga o una rimozione, ciò che avviene è un allontanamento dalle meschinità quotidiane.
“Dove due o più sono riuniti nel mio nome, là sono io”.
Nella preghiera dell’ascolto si produce un’immersione nella realtà sensibile: quella che è più strettamente in connessione con noi, poiché è l’immagine che noi ne abbiamo, ovvero il prodotto all’esterno della proiezione di quel noi costruito nella nostra carne (l’eredità singolare e l’eredità collettiva, la nostra storia).
Per quanto questa rappresentazione della realtà possa essere fraintesa dai nostri preconcetti, la preghiera dell’ascolto non ne potrà mai prescindere, non potrà mai accantonarla, neppure per un momento di sospensione.
La bonaccia che ne viene prevede il coinvolgimento, e questo coinvolgimento su un piano compassionevole ci fornisce l’energia che, nella concretezza della veglia, ci restituisce carichi ad affrontare le sfide del servizio.
Più discende da un’emozione empatica, più l’operosità sarà scevra dal giudizio, che invece può venire da quella beneficenza sulla quale si accumulano valutazioni di ragione.
Non rigetto la ragione: non rinuncio alla capacità di manovrare una macchina, ad allacciarmi le scarpe, ad organizzare un’attività, ad approfondire l’esegesi e a comprendere, ma non la guardo come strumento utile a frequentare l’essenza del messaggio evangelico (appunti dell’11 novembre 2008, ore 12,00)
Singolare aver riscoperto questo scritto oggi, quando per rasserenarmi mi scovo in automatico impegnato a replicare, come infantili tiritere, preghiere originarie imparate e appartate nell’oscurità dei tempi del catechismo e delle istruzioni di una madre osservante; quando mi accuso del modo di pormi immolato alle alterazioni esterne, deprivato del desiderio e della quiete; quando addebito l’essere tenacemente spogliato del coraggio al sentore della mia minorità; quando ciò che vedo scorrere nell’ascolto è la colpa di essermi prestato a tutto questo.
Altrettanto singolare riflettere come mi verrebbe ad alta voce da alzare al cielo un’unica preghiera, quella di Giobbe al capitolo 3, che però riunito coi fratelli sentirei di censurarmi perché sconveniente all’edificazione.
Eppure proprio in questo tempo mi sono ricordato di quell’intervista a Teresa di Calcutta e impegnandomi a praticare quell’intuizione, ne ho afferrato la potenza (appunti del 13 novembre 2008)