Credere ovvero guardare con gli occhi della pelle
Riflessioni di Silvia Zucchini
Leggo il brano dal Vangelo di Giovanni (20, 19-31) nella seconda domenica di Pasqua. Come in un flashback mi vedo seduta intorno a una tavola non più apparecchiata, insieme ai discepoli, ammutolita per lo sgomento.
Tutti siamo chiusi in una stanza col fiato corto e i battiti del polso accelerati, dopo essere stati messi in fuga dalla paura (il verbo phobeo, infatti, non indica chi è paralizzato per il terrore, ma chi è scappato a gambe levate in cerca di un rifugio nel quale rinchiudersi a doppia mandata).
E la paura, si sa, toglie lucidità di giudizio e lascia libero campo al pregiudizio.
La stessa paura che io ho provato davanti alla nuova prospettiva svelataci da nostro figlio, davanti all’im–pre-visto del coming out, davanti all’im–pensato.
La paura del nuovo che mette in fuga dalle nostre instabili certezze e dalla pretesa di vedere prima, di pensare in anticipo e in modo definitivo sulla vita dei nostri figli e delle nostre figlie, privando loro dell’ultima parola.
La scena dunque non è immobile, è scossa dal tremore delle membra e dal turbinio dei pensieri messi in moto dal tumulto delle dicerie.
Ma ecco l’arrivo a sorpresa di Gesù Risorto, che sta in mezzo a noi, si ferma, sceglie di rimanere. “Pace a voi!”. La paura dell’inaudito finalmente si dissolve come nebbia ascoltando il saluto di pace, che genera salvezza.
Dalla concitazione della paura, alla calma interiore della pace donata. A questo punto, la sfida più grande ce la indica Tommaso: credere.
Mi riconosco in lui: faccio appello a tutte le mie risorse, impegno ogni mio sforzo per prestare fede a un fatto riportato da altri, discepole e discepoli che il giorno prima erano davanti al sepolcro vuoto.
Ma la loro testimonianza “Abbiamo visto il Signore!” non è sufficiente per far crollare ogni mia resistenza “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel segno dei chiodi…io non credo”: è difficile per me credere al modo in cui suggerisce il verbo pisteuo, cioè nel senso di prestare fede a un discorso.
Come Tommaso, ho bisogno dell’incontro con il Signore Risorto, per passare dall’ascolto di un fatto all’esperienza di un vissuto.
Come Tommaso, ho bisogno di attivare tutti i miei sensi, non solo la vista, ma anche e soprattutto il tatto, per vivere l’esperienza del Risorto, per vivere là dove i nostri figli e le nostre figlie, finalmente risorti, ci chiamano.
Ricordo il titolo di un’opera letteralmente visionaria di Juhani Pallasmaa, “Gli occhi della pelle”: nell’apparente cortocircuito tra vista e tatto, l’architetto finlandese ci invita ad abbandonare la visione focalizzata che è per sua natura escludente e che ci spinge fuori dallo spazio, rendendoci meri spettatori.
Propone, piuttosto, di assumere una visione tattile che ci inviluppa nelle fibre del mondo, ci integra nello spazio con tutti i sensi: il tatto infatti avvolge ogni parte del nostro corpo, anche la retina è ricoperta da un sottilissimo strato di pelle. Fidarci di quanto i cinque sensi ci suggeriscono è l’unico modo per avere consapevolezza di essere coscienze incarnate che vivono nel mondo da cui si lasciano plasmare, plasmandolo a loro volta.
Tommaso lo aveva ben capito e ci offre l’esempio: credere non è solo esperienza intellettiva, non può interessare esclusivamente la mente, ma è un’esperienza corporea che chiama in gioco anche la nostra fisicità nell’incontro con gli altri e con l’Altro.
Credere, non nonostante il corpo, ma con il nostro corpo vissuto, da cui non possiamo prescindere.
Tommaso finalmente l’ha capito: può dirsi credente, nel senso suggerito dal verbo peitho, (diverso da quello usato poco sopra) cioè, degno di credere e di essere creduto. E’ il verbo che indica la relazione di fiducia propria dell’amico, una fiducia che non tradisce, frutto di un incontro di conoscenza profonda.
E così credere passa dal piano razionale a quello relazionale, perché è avvenuta l’esperienza coinvolgente di corpi che si spingono al tocco e si espongono al tocco: metti qui il tuo dito…tendi la tua mano.
Tommaso mi invita a tornare a una consapevolezza della carne, a una rivalutazione del corpo in tutte le sue componenti, quale mezzo di conoscenza e di riconoscimento: “Mio Signore e mio Dio!”.
Perché, come ci ricorda il poeta e teologo portoghese José Tolentino de Mendoņca, “il corpo che noi siamo è una grammatica di Dio”.