Il cristianesimo e la sua influenza sul matrimonio e la famiglia
Testo della teologa suor Margaret Farley* tratto dal libro Just Love: A Framework for Christian Sexual Ethics, Continuum International Publishing Group (USA), agosto 2005, pagg. 238-244, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Non bisogna dimenticare il ruolo sostanziale del cristianesimo nelle concezioni politiche e culturali del matrimonio e della famiglia, soprattutto in Occidente. Non c’è bisogno di dire che il binomio cristianesimo-matrimonio è, come tutto ciò che riguarda quest’ultimo, complicato e soggetto a interpretazioni personali. Per esempio, potremmo cominciare col chiederci: perché i primi cristiani adottarono la monogamia? La prima ragione che viene in mente è che la ereditarono dalla loro cultura; dopo tutto, come scrive Theodore Mackin, nei primi anni quasi tutti i cristiani sposati erano adulti convertiti, che si erano sposati prima di diventare cristiani: “Fino a che il centro demografico del cristianesimo primitivo fu la Palestina, i primi cristiani contraevano matrimoni giudaici, giudaici per struttura sociale e motivazioni”. La maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che il cristianesimo degli inizi era un movimento all’interno del giudaismo; tuttavia, il contesto culturale in cui vivevano i primi cristiani e le famiglie giudaiche comprendeva il più vasto mondo grecoromano. Nel primo secolo della nostra era il modello matrimoniale giudaico e romano era di preferenza monogamico, anche se esistevano alcune, apparentemente atipiche, famiglie poliginiche, sia in ambito giudaico che persso altri popoli [1].
Non basta però dire che il matrimonio monogamico venne adottato dai primi cristiani semplicemente perché era l’opzione più comune; dopo tutto, i cristiani si consideravano “convertiti” nel senso che si erano volti a un nuovo stile di vita, che li caratterizzava come discepoli di Gesù Cristo e portava con sé significativi impegni morali. Il desiderio di evitare “la passione sfrenata” (peraltro all’epoca non un concetto esclusivo dei cristiani) rendeva le relazioni monogamiche più adatte per i cristiani; inoltre, la monogamia faceva parte delle credenze e della teologia dei primi cristiani per il suo potenziale significato simbolico di relazione tra Gesù Cristo e la Chiesa, ed anche per la sua affinità con il concetto cristiano di amore per il prossimo. Se il cristianesimo si sarebbe adattato ad altri modelli di matrimonio è una questione aperta ma, a mio avviso, abbastanza oziosa (per quanto non lo sia affatto in termini di dinamiche interreligiose e interculturali).
Anche le leggi e i costumi matrimoniali romani, basati sul mutuo consenso, si dimostrarono facilmente adattabili alla fede e alla mentalità cristiane. I cristiani, alla stregua della cultura in cui vivevano, pensavano che il matrimonio fosse un affare di famiglia, anche se era il mutuo consenso degli sposi che lo rendeva possibile. La prassi di avere pastori cristiani presenti alle nozze sorse gradualmente e in maniera informale.
Tuttavia, i cristiani avevano un atteggiamento diverso nei confronti del matrimonio: come scrive Mackin, le aspettative escatologiche dei primi cristiani facevano apparire il matrimonio come qualcosa di irrilevante, anche se una delle principali ragioni per sposarsi continuavano ad essere i bisogni sessuali degli individui. Il matrimonio in quanto tale non era molto importante per la diffusione della Buona Novella [2].
Questo ci introduce a un’altra importante questione sul ruolo del matrimonio nella Chiesa cristiana, dai primi anni fino a diversi secoli dopo: nonostante il fatto che esso potesse essere in armonia, sia con la cultura dominante che con la fede cristiana, il ruolo della famiglia e del matrimonio nella comunità cristiana rimaneva ambiguo, e per molte ragioni. Una di queste è che i cristiani credevano di vivere nel “tempo della fine”: il matrimonio veniva quindi relativizzato dalla speranza nell’eschaton.
Un’altra era la concezione scettica della sessualità umana, secondo cui la rinuncia al sesso era una scelta ragionevole per alcuni. Il cristianesimo, come abbiamo visto nel capitolo 2, emerse nella tarda epoca ellenistica, quando perfino il giudaismo era influenzato da una concezione pessimistica del sesso. Osserva Ruether: “Sia il mondo grecoromano che quello giudaico del primo secolo comprendevano movimenti e ideologie contrarie alla famiglia” e, possiamo aggiungere, contrarie al sesso in un modo o nell’altro.
Erano ben note alcune filosofie che predicavano la vita celibataria per mantenere la mente libera per il pensiero e il cuore sgombro, soprattutto senza una famiglia da mantenere. Presso gli Ebrei esistevano comunità organizzate per i celibi, ma in nessun altro gruppo in rapida ascesa l’idea di rinunciare al matrimonio e alla famiglia per dedicarsi pienamente a Dio e al servizio del Vangelo fu così forte come nelle comunità cristiane. Pur avendo i primitivi autori e predicatori cristiani affermato che il sesso era cosa buona, come parte della creazione, erano al tempo stesso convinti che esso fosse il paradigma dei danni causati dalle forze distruttive della Caduta morale. Perciò, prendendo esempio da Paolo, chi riusciva a non sposarsi per il Regno di Dio veniva incoraggiato nella sua intenzione.
Lo studio di Peter Brown sulla “rinuncia permanente al sesso” tra gli uomini e le donne dei circoli cristiani tra gli anni 40 e 430 d.C. costituisce un’analisi delle sfaccettature di questo fenomeno. Una cosa è chiara: non tutte le scelte di celibato fatte in questo periodo erano dovute a una valutazione negativa del sesso.
Le motivazioni di Paolo si basavano sulla libertà di annunciare il Vangelo, una motivazione pragmatica che non dipendeva da una negazione del sesso. Altri sceglievano il celibato per altre ragioni: l’anima poteva trasformare il corpo; la conversione del cuore era favorita dall’integrazione degli affetti per Dio svolta nel celibato; la mancata disponibilità sessuale delle donne poteva rovesciare le aspettative di genere; l’amicizia poteva essere più pura se trascendeva l’intimità sessuale; il rigoroso ascetismo comprendeva il ripudio del sesso; la rinuncia al sesso era comparabile al martirio, perché assicurava la totale donazione di sé a Dio; la morte e la resurrezione di Gesù venivano concepite in modo tale da rendere irrilevante il sesso. Brown trova tutte queste forme e motivazioni per il celibato permanente emergere, svilupparsi e competere tra di loro e con la castità sponsale. Nessuna di queste motivazioni era estranea alla società nel suo insieme e la maggior parte di esse era oggetto di intense discussioni. Tutto questo però non esaurisce l’ambiguità della condizione matrimoniale per i primi cristiani.
Secondo Rowan Greer, la Chiesa della tarda Antichità manifestava almeno tre atteggiamenti riguardo il matrimonio e la famiglia: la loro combinazione risultava in una profonda ambivalenza. Il primo atteggiamento era di apparente rifiuto dei legami famigliari, se non di aperta ostilità verso la famiglia. Il messaggio cristiano era una spada di divisione che opponeva i membri delle famiglie gli uni contro gli altri (Matteo 10:34–39; Luca 12:51–53).
In un certo senso, a tutti i cristiani era richiesto di lasciare tutto, inclusi padre, madre, coniuge e figli (Matteo 12:25, 22:30; Luca 20:35). I credenti vivevano nell’anticipazione di una nuova era, in cui il matrimonio non sarebbe esistito. L’atteggiamento cristiano verso il martirio talvolta manifestava un’estrema forma di rifiuto delle responsabilità famigliari. Le donne abbandonavano il marito e i figli per “correre al martirio” e gli uomini venivano talvolta incoraggiati a dimenticare le ricchezze, la moglie e i figli, i fratelli e le sorelle e si assicurava loro che la rinuncia ai legami umani avrebbe portato con sé nuovi legami spirituali e la libertà di annunciare il Vangelo.
Il secondo atteggiamento, fortemente legato al primo, era dato dal fatto che i primi cristiani consideravano la Chiesa un sostituto delle famiglie tradizionali: la Chiesa era la loro nuova famiglia. Chi era senza una famiglia (per esempio, le vedove e gli orfani) ora godeva della protezione della Chiesa; chi aveva dovuto lasciare la sua a causa della vocazione cristiana e delle divisioni che poteva creare, trovava un nuovo focolare nella Chiesa (Matteo 10:29-30). La comunità cristiana offriva un gruppo di appartenenza che prometteva di abolire ogni barriera di nazione, genere e condizione economica e offriva anche una vita condivisa e un’identità comunitaria che avevano la precedenza su ogni altra appartenenza, compresa quella famigliare.
Infine, in tensione con i primi due atteggiamenti, i cristiani credevano anche che il matrimonio e la famiglia nel senso corrente potessero essere confermati, non aboliti, dalla loro nuova vita di fede. “Lasciare ogni cosa” poteva acquistare un senso diverso per chi era chiamato a vivere in una famiglia tradizionale (Atti 10:2; 11:14; 16:15), vale a dire quell’amore altruistico necessario alle relazioni famigliari, l’obbligo per le famiglie di condividere i loro beni con i bisognosi, o una forma di “impegno distaccato” per una parte significativa della vita che, nondimeno, era destinata a passare.
La maggior parte dei cristiani sceglieva ovviamente il matrimonio, che costituiva un modo di vivere in cui la Chiesa aveva i suoi interessi. Il focolare domestico, per i cristiani così come per gli Ebrei, i Greci e i Romani, fu essenziale per il cristianesimo urbano primitivo; non c’è quindi da sorprendersi se alcuni leader cristiani erano allarmati dalle conseguenze, reali e potenziali, dell’atteggiamento di rifiuto della famiglia, atteggiamento che metteva in pericolo i matrimoni e attirava velenose critiche da parte degli osservatori esterni.
Per lenire o prevenire tali conseguenze, i leader legati a Paolo cominciarono a promuovere codici di comportamento famigliare nelle loro comunità (Colossesi 3:18–4:1; 1 Timoteo 2:8–15; Efesini 5:22–33; 1 Pietro 2:11–16; Tito 2:2–10); fondati sul modello imperiale della subordinazione di tutta la famiglia al pater familias, tali codici accettavano la schiavitù e rafforzavano il dominio dei mariti sulle mogli. Nonostante vengano a volte interpretati come una lode al matrimonio e alla famiglia, la loro imposizione non rispecchiava affatto l’”ordine nuovo” così importante per i primi cristiani; il messaggio di questi codici era che le famiglie cristiane dovevano adattarsi all’ordine sociale in cui vivevano.
Tuttavia, il messaggio dei primi cristiani rimaneva ambiguo e ambivalente, nella tensione tra gli atteggiamenti di rifiuto, sostituzione e conferma. Nel III secolo questi tre atteggiamenti contribuirono a una presa di posizione che si opponeva sia all’ostilità di fronte al matrimonio e al sesso tipica di alcuni gruppi gnostici (così come erano dipinti dai Padri della Chiesa), sia alle supposte pratiche libertine di altri. Per molti secoli la Chiesa cristiana ha continuato a predicare che il matrimonio era cosa buona, ma il celibato era migliore. La positività della famiglia risiedeva invariabilmente nella sua funzione socializzante per i figli e nell’ordine che portava nella società.
È stato sostenuto che l’ambivalenza cristiana nei riguardi del matrimonio e della famiglia, mantenuta per così tanti secoli, sia servita da critica nei confronti delle prassi in vigore nell’Impero Romano e che abbia operato per trasformare alcune versioni tradizionali di quelle istituzioni.
Codici famigliari a parte, il cristianesimo costituiva un implicito giudizio della famiglia in quanto espressione dei poteri mondani; da una parte, tuttavia, l’insegnamento cristiano modificò ben poco le caratteristiche generali e la struttura del matrimonio e della famiglia grecoromani: il pater familias in un modo o nell’altro continuava a regnare e il focolare domestico rispecchiava sempre l’ordine richiesto dalla cultura dominante.
D’altro canto, però, gran parte della relativizzazione escatologica del matrimonio e della famiglia, tipica della Chiesa primitiva, non andò perduta. Sebbene al matrimonio, nel XII secolo, fosse concessa la dignità di sacramento, rimaneva comunque una vocazione inferiore, relativamente meno significativa del celibato e perlopiù strumentale alla relazione con la Chiesa e la società. Anche gli sviluppi chiave della teologia del matrimonio e della famiglia non modificarono il loro posto nella vita cristiana, pur mettendo in discussione tematiche particolari, come la natura del legame sponsale e lo scopo dell’attività sessuale.
Solamente nel XIV secolo l’autocomprensione cristiana cominciò a cambiare significativamente, in modo da permettere una nuova concezione del matrimonio e della vita famigliare. Successivamente, gli umanisti del Rinascimento spostarono l’attenzione dal mondo dello spirito alle responsabilità sociali, dalla rinuncia al sesso all’autodisciplina e al successo, in un mondo in cui si cominciava ad associare famiglia e lavoro produttivo.
La Riforma protestante, poi, diede l’impulso definitivo a questo movimento e articolò in maniera coerente una nuova concezione del ruolo della famiglia nella vita cristiana: il matrimonio e la famiglia sostituirono il celibato come centro di gravità sessuale e di unità primaria della vita cristiana. Come abbiamo visto nel capitolo 2, Martin Lutero e Giovanni Calvino non modificarono il tradizionale sospetto cristiano nei confronti della sessualità, ma accettarono i lati peccaminosi di essa come parte della natura umana dopo la Caduta. Il sesso non poteva venire “giustificato”, né dalla procreazione né da altro; poteva solo venire perdonato, e il luogo in cui perdonarlo era il matrimonio eterosessuale.
La cura per il desiderio sfrenato era l’addomesticamento attraverso la responsabilità di mantenere una famiglia e di allevare figli. Inoltre, per Lutero, l’esigenza etica primaria per il cristiano era l’amore per il prossimo, e proprio nelle istituzioni del matrimonio e della famiglia si imparava l’obbedienza a Dio, la pazienza e ciò che serviva ad amare il prossimo. Attraverso il matrimonio, la sessualità poteva essere canalizzata verso il significato della vita nel suo insieme.
Nelle tradizioni luterana e riformata successive scomparve la primitiva ambivalenza cristiana verso il matrimonio e la famiglia.Attraverso queste istituzioni i cristiani (con rare eccezioni) erano ora chiamati alla santità e al servizio del prossimo, quello più vicino (il coniuge e i figli) e quello più lontano (la società tutta). La rimozione dell’ambivalenza fu così radicale che, per esempio, le donne avevano ben poche alternative alla vita di moglie e madre. Sino a quando i cambiamenti culturali del XIX secolo condussero alla separazione del mondo privato della famiglia dal mondo pubblico del lavoro produttivo, le interpretazioni cristiane della “natura femminile” confinavano la donna esclusivamente nella sfera privata e domestica.
Ovviamente la storia del matrimonio cristiano non si ferma alla Riforma, ma le credenze e le prassi delle maggiori tradizioni cristiane erano ormai fissate. Anche se fino alla seconda metà del XX secolo differenze significative tra cattolici e protestanti riguardo il nostro tema non sono mai mancate, ora le due tradizioni mostrano dei paralleli nell’interazione con i cambiamenti culturali che hanno avuto luogo tra il XVII secolo e il XXI: oggi le famiglie cristiane sono come quasi tutte le altre in Occidente, le loro problematiche sono del tutto simili: relazioni di genere, diversità di forme famigliari, cambiamenti strutturali e destabilizzazione dovuta a una cultura in cambiamento perpetuo. Dopo questo abbozzo di storia del matrimonio e della famiglia, perciò, prenderò in esame queste istituzioni per come si presentano oggigiorno.
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[1] Ross S. Kraemer osserva: “… se [il matrimonio poliginico] fosse più comune di quanto pensiamo, attualmente è impossibile da stabilire”, dato che “sappiamo poco sulle prassi famigliari della gente comune”. Kraemer, assieme ad altri, osserva anche che nell’Antichità vi era poco di caratteristicamente giudaico nelle famiglie giudaiche; citando Shaye Cohen, afferma che le famiglie giudaiche “nella loro struttura, nei loro ideali e nelle loro dinamiche sembra fossero praticamente identiche a quelle delle culture circostanti”.
[2] Questo non significa che il matrimonio e la famiglia non fossero, in molti modi, estremamente importanti per le Chiese cristiane fin dai primi anni; in quanto originari luoghi di culto, luoghi di ospitalità e centri di crescita ed educazione morali, è difficile immaginare il cristianesimo svilupparsi senza di esse.
* Suor Margaret A. Farley, nata il 15 aprile 1935, fa parte della congregazione americana delle Sisters of Mercy (Suore della Misericordia) ed è professoressa emerita di etica cristiana presso la Yale University Divinity School dove ha insegnato etica cristiana, dal 1971 al 2007, ed è stata anche presidente della Catholic Theological Society of America (associazione cattolica dei teologi d’America). Il suo libro Just Love (2005), ha avuto numerose critiche e censure da parte della Congregazione della Dottrina della Fede per le opinioni morali espresse, considerate divergenti dal magistero cattolico, ma ha ricevuto invece ampio sostegno ed l’approvazione dalla Leadership Conference of Women Religious (conferenza delle donne religiose degli Stati Uniti) e della Catholic Theological Society of America (associazione cattolica dei teologi d’America).