Cristiani, alla luce del sole. Inchiesta sui credenti omosessuali in italia
Articolo di Marco Zerbino tratto da Adista Notizie n. 93, 17 Dicembre 2011, pp.7-10
Una realtà in piena crescita. Dinamica, variegata, non priva di differenziazioni interne. È questo il quadro che emerge dall’inchiesta che Adista ha voluto dedicare ai gruppi di omosessuali credenti presenti nelle varie realtà locali del nostro Paese.
Un tentativo di fare il punto della situazione, ma anche di dar conto, sia pure in maniera necessariamente incompleta e parziale, della specificità di un’esperienza: quella di uomini e donne che hanno deciso innanzitutto di incontrarsi per condividere una storia e un vissuto simili, spesso non facili, e che intendono riflettere apertamente sul rapporto che intercorre fra orientamento omosessuale e fede cristiana.
Realtà associative che sollevano, pubblicamente e a beneficio della più vasta comunità dei credenti, il problema di quanto sia difficile ancora oggi per tante persone conciliare al proprio interno l’essere omosessuali e il sentirsi parte di una comunità in cammino, che molti (non tutti) identificano con la Chiesa cattolica.
Una realtà in espansione
Con l’aiuto del Progetto Gionata su Fede e Omosessualità (www.gionata.org) abbiamo identificato circa 30 gruppi di credenti omosessuali sparsi in tutt’Italia.
Fra questi, sono 24 quelli che hanno fornito dati e materiale ai fini della redazione del Rapporto sui gruppi di cristiani omosessuali in Italia, presentato nella primavera del 2010 in occasione del Primo Forum Italiano dei Cristiani Omosessuali (v. Adista n. 30/10).
Le cifre fornite dal rapporto, in parte già superate, possono tuttavia servire a dare un’idea della consistenza del fenomeno e della sua composizione.
La ricerca effettuata dai volontari di Gionata stimava che il numero totale dei partecipanti ai gruppi di cristiani omosessuali italiani fosse di 708 unità. Di questi, 538 erano quelli che facevano parte ai gruppi rispondenti al questionario.
La composizione di genere di queste realtà di vita comunitaria e associativa vedeva una considerevole maggioranza di uomini (84%) a fronte di una minoranza di donne (16%), la cui presenza era tuttavia cresciuta notevolmente rispetto al passato e in via di consolidamento (il Rapporto, ad esempio, dava notizia di alcuni gruppi costituiti al 40% da donne, mentre erano il 33% i gruppi che avevano una responsabile di sesso femminile).
Dislocazione geografica dei gruppi: Nord-Ovest 43%, Nord-Est 24%, Centro 19%, Sud e Isole 14%. Nell’81% dei casi, i gruppi erano realtà informali (cioè prive di statuto e di riconoscimento giuridico), e solo il 5% di essi era diretto da sacerdoti o pastori.
Dei 21 gruppi inseriti nel Rapporto 2010, 20 erano totalmente cattolici o a stragrande maggioranza cattolica, mentre solo un gruppo (Il Varco di Milano) era a maggioranza valdese.
Un elemento su cui riflettere: i cattolici che facevano parte dei gruppi erano praticanti nel 52% dei casi, a fronte di una pratica religiosa cattolica che si attesta in Italia, secondo dati Eurispes del 2009, attorno al 37%.
Infine, il tasso di incremento medio annuo dei partecipanti ai gruppi, che il Rapporto quantificava al 7%, ci dà la misura di come molte delle cifre che abbiamo appena fornito vadano verosimilmente, a fine 2011, riviste al rialzo.
Trent’anni e non sentirli
Se il Rapporto 2010 offre l’immagine di una realtà in crescita e diffusa nei vari territori, va anche detto che un simile risultato non è stato conseguito dall’oggi al domani e che la storia dei gruppi di omosessuali credenti italiani è ormai antica e stratificata.
Secondo Gianni Geraci, fra i fondatori, nel 1980, del primo gruppo italiano, Il Guado di Milano (assieme a don Domenico Pezzini) se ne possono isolare almeno tre fasi. «Inizialmente siamo nati come gruppi di pressione. Avevamo trovato degli interlocutori nel clero, penso ad esempio a don Franco Barbero, come anche a livello teologico ed episcopale, e qui il pensiero non può non andare a don Giannino Piana e a mons. Luigi Bettazzi.
Il principale strumento di coordinamento che avevamo individuato allora erano i campi di Agape». Verso l’inizio degli anni ’90, tuttavia, vengono a mancare una serie di interlocutori e, nel 1992, comincia a delinearsi una seconda fase.
Quell’anno i vari gruppi decidono di invitare ad un campo di Agape diversi movimenti ecclesiali per aprire un confronto su fede e omosessualità. «Avevamo rivolto l’appello, ad esempio, all’Azione Cattolica e agli scout, ma dovevano esserci anche molte altre realtà ecclesiali. Fu un’amara delusione, perché all’incontro non si presentò nessuno».
È a partire da questo momento che, secondo Geraci, comincia a delinearsi l’idea di un cambio di prospettiva.
O meglio, comincia a farsi strada, accanto all’approccio più rivendicativo, spesso rivolto verso la gerarchia e incentrato sulla richiesta di riconoscimento, l’idea che i gruppi servano anche come spazio di condivisione di esperienze e di crescita individuale funzionali alla piena accettazione della propria identità di omosessuali credenti, troppo spesso fonte di sofferenza e di laceranti conflitti interiori.
Si tratta di due diverse modalità di intendere la funzione dei gruppi che, come vedremo, convivono ancora oggi.
Gli anni ’90, cominciati idealmente con il convegno del campo di Agape, si concludono con quello del 1999 che, al contrario, sarà un successo e darà luogo a un volume di atti (Il posto dell’altro. Le persone omosessuali nelle Chiese cristiane, La Meridiana 2000) che rimane un documento fondamentale per capire il dibattito su fede e omosessualità sviluppatosi poi in Italia.
«Il libro viene inviato a tutti i vescovi italiani titolari di diocesi, anche se rispondono solo in quattro», prosegue Geraci. «È più o meno in questo periodo, con la polemica sviluppatasi nella Chiesa attorno alla nostra partecipazione al World Pride di Roma del luglio 2000, che la seconda fase si avvia alla sua conclusione.
In seguito all’esperienza del Pride prende avvio un tentativo un po’ pionieristico, un gruppo di lavoro su fede e omosessualità comprendente, oltre a membri dei gruppi di omosessuali credenti, anche membri ecclesiastici indicati dalla parte più sensibile della gerarchia.
Il gruppo, tuttavia, nel giro di un paio d’anni naufraga e, nei mesi successivi, molte realtà associative di omosessuali credenti vanno in crisi».
La terza fase, infine, è quella segnata dalla nascita del portale gionata.org come strumento di scambio di esperienze e di coordinamento fra i gruppi.
«Nella seconda metà degli anni 2000 l’attivismo dei vari gruppi a livello nazionale trova un momento di visibilità nel progetto Gionata e nell’organizzazione delle veglie di preghiera per le vittime dell’omofobia».
Pregare insieme contro la discriminazione
Ancora nel 2007, primo anno in cui vennero organizzate in occasione delle giornata internazionale contro l’omofobia le veglie di preghiera per ricordare le vittime di questa forma di discriminazione, la maggior parte degli incontri si tenne all’interno di chiese riformate.
Quattro anni dopo, nel maggio del 2011, la situazione era decisamente mutata. A Firenze, Cremona, Milano, Bologna, Genova, Padova e Catania sono state le comunità parrocchiali ad ospitare le veglie, con l’eccezione di Palermo, dove l’arcivescovo Paolo Romeo è intervenuto d’autorità per impedire al parroco di Santa Lucia, Luigi Consonni, di far svolgere nella sua chiesa l’incontro di preghiera (v. Adista n. 39 e 44/11).
L’anno di svolta, tuttavia, è senz’altro il 2010. Fu allora che, a poco più di un mese di distanza dallo svolgimento del Primo Forum Italiano dei Cristiani Omosessuali (tenutosi anch’esso presso una struttura religiosa cattolica, la casa dei padri somaschi di Albano Laziale), per la prima volta il numero di veglie ospitate all’interno di una parrocchia risultò essere cospicuo: oltre ai casi di Milano, Padova, Torino e Catania, ebbe quell’anno particolare risonanza quello di Cremona, dove fu il vescovo in persona, mons. Dante Lafranconi, a presiedere l’evento organizzato dalla curia in collaborazione con il gruppo di omosessuali credenti Alle Querce di Mamre (v. Adista n. 44/10).
Un cambio di passo netto, dunque, dovuto anche all’infaticabile lavoro di sensibilizzazione e di informazione svolto nei mesi precedenti dai gruppi, alcuni dei quali avevano tentato, tramite lettere aperte a parroci e diocesi delle rispettive realtà locali, di aprire un confronto a partire dalla richiesta di ospitare le veglie.
Così si era mosso, ad esempio, il gruppo Kairòs a Firenze, o il gruppo Ali d’Aquila a Palermo (v. Adista n. 37/10), mentre un’analoga iniziativa lanciata dal gruppo Nuova Proposta di Roma si era dovuta scontrare con la netta opposizione del vicario del papa, card. Agostino Vallini, che aveva chiesto espressamente ai parroci della capitale di evitare di affiggere la lettera inviata dal gruppo nelle bacheche parrocchiali e di non ospitare le veglie all’interno delle loro chiese (v. Adista n. 44/10).
A viso aperto
La breve storia delle veglie antiomofobia, pur nelle sue contraddizioni, rende chiaro un fatto: i rapporti dei gruppi con le comunità di credenti locali e con le parrocchie si sono nel tempo intensificati ed ampliati, all’interno di un percorso di conoscenza reciproca volto a superare resistenze e pregiudizi.
«In effetti», ci spiega Innocenzo Pontillo, uno dei volontari del portale gionata.org «è proprio questa la novità degli ultimi anni: molti gruppi di credenti omosessuali hanno trovato accoglienza nelle parrocchie, e questo non solo in occasione delle veglie, ma anche per tenere i propri incontri e per organizzarne altri insieme alla più vasta comunità parrocchiale».
Qualcosa di simile è successo ad esempio a Genova, dove il gruppo Bethel, formatosi subito dopo il Genova Pride del 2009 su iniziativa del salesiano don Piero Borelli, per circa due anni si è riunito presso la parrocchia di San Giovanni Bosco e San Gaetano.
«Ora che don Piero se ne è andato perché è scaduto il suo mandato», ci spiega Laura Ridolfi, una delle animatrici del gruppo, «abbiamo preferito continuare a vederci insieme a lui, una volta al mese circa, presso la comunità di don Andrea Gallo».
Una punta avanzata nell’accoglienza parrocchiale verso i credenti omosessuali è senz’altro Catania, dove da più di vent’anni il gruppo locale, I Fratelli dell’Elpìs, si è inserito nelle attività della parrocchia del SS. Crocifisso della Buona Morte.
«Inserito, non ospitato», ci tiene a precisare il parroco, don Giuseppe Gliozzo. «I membri del gruppo sono conosciuti da tutti in parrocchia e prendono parte a pieno titolo, come chiunque altro, alle attività della comunità.
E questo perché noi intendiamo camminare attorno alla parola di Dio con tutte le persone che vogliono venire, senza distinzioni».
Un rapporto decisamente positivo con la comunità parrocchiale di riferimento caratterizza anche il gruppo Emmanuele di Padova che, oltretutto, è anche rappresentato ufficialmente da un suo membro nel consiglio pastorale della chiesa della Madonna della Salute.
Più recente è invece la relazione instauratasi fra la parrocchia della Madonna della Tosse di Firenze e il gruppo Kairòs.
In questo caso è stato lo stesso parroco, don Giacomo Stinghi, a cercare un contatto con il gruppo. «Devo dire che, facendolo, ho reso un gran servizio innanzitutto a me stesso. L’incontro con queste persone», racconta don Giacomo, «mi ha colpito per la serietà e la maturità della loro fede, e in tal modo ho potuto decostruire stereotipi e idee preconcette di cui, purtroppo, risentiamo un po’ tutti. Ricordo ancora quando, una sera, mi hanno invitato a fare una lectio divina: mi sono trovato di fronte a gente seria, studiosa, capace di pregare e meditare la parola di Dio molto meglio del parrocchiano medio».
Da quel momento, don Giacomo ha deciso di aprire le porte della sua chiesa al gruppo, non solo per le veglie contro l’omofobia (l’ultima si è tenuta appunto in chiesa e ha visto una grande partecipazione da parte di tutta la comunità parrocchiale), ma anche per altri incontri organizzati in comune dal gruppo e dalla parrocchia.
«Tramite queste occasioni di conoscenza reciproca io voglio soprattutto che siano i fedeli eterosessuali a maturare. È solo tramite il contatto e la conoscenza diretti che si possono superare i pregiudizi».
Ma l’accoglienza e il rapporto con le parrocchie non si limita ai casi citati. Altri se ne potrebbero menzionare: vengono regolarmente accolti in una parrocchia, ad esempio, anche il gruppo milanese La Fonte, quello bolognese In Cammino e il gruppo La Creta di Bergamo, mentre a Palermo il gruppo Ali d’Aquila di riunisce presso la comunità di San Francesco Saverio all’Albergheria.
Realtà d’avanguardia
Un capitolo a parte merita la questione del rapporto che i vari gruppi riescono a instaurare con le diocesi di appartenenza.
Di fatto, l’unica diocesi italiana ad avere avviato una pastorale di accoglienza per gli omosessuali è quella di Cremona (v. Adista n. 123/09). «Si tratta di un percorso iniziato a fine 2007», racconta Sergio Caravaggio del gruppo Alle Querce di Mamre, una decina di persone che il vescovo Lafranconi ha coinvolto nella pastorale.
«Il tutto è cominciato a seguito di una richiesta che avevamo rivolto in forma scritta al vescovo. Il tentativo in cui siamo impegnati è quello di riconciliarci con noi stessi, con la nostra identità di omosessuali credenti che, purtroppo, spesso comporta un vivere in “camere separate”, nascondendo la nostra omosessualità quando siamo in contesti cattolici, e rimuovendo il nostro essere credenti quando siamo in contesti omosessuali».
Il gruppo è seguito per conto della diocesi da don Antonio Facchinetti, che incontra i fedeli una volta al mese presso la Casa dell’Accoglienza della diocesi, dove ha sede anche la Caritas.
«Le nostre riunioni cominciano in genere con un momento di preghiera», spiega don Antonio «e successivamente vengono approfonditi e dibattuti temi per lo più di carattere antropologico. Al momento, ad esempio, stiamo riflettendo sulla sessualità umana, considerata all’interno di un discorso che tenga conto della globalità della persona.
Almeno, una volta l’anno, agli incontri partecipa anche il vescovo, in genere a settembre, all’inizio di un nuovo ciclo di appuntamenti, ma può trattarsi anche dell’ormai tradizionale veglia contro l’omofobia».
Un percorso simile a quello di Cremona potrebbe partire in futuro anche a Parma, dove il vescovo, mons. Enrico Solmi, ha da tempo stabilito un contatto con il locale gruppo di credenti omosessuali (v. Adista n. 64/10), e a Crema, dove mons. Oscar Cantoni aveva già cominciato a muovere i primi passi nella stessa direzione prima che il sacerdote incaricato dalla diocesi di seguire la pastorale morisse inaspettatamente la scorsa primavera, evento che ha comprensibilmente determinato una battuta d’arresto nel dialogo con un gruppo ancora in via di costituzione.
Un discorso a parte merita infine la diocesi di Torino, per molto tempo una delle più aperte e sensibili su questi temi.
Qui, a partire dal Torino Pride del 2006, si era costituito un gruppo di lavoro su fede e omosessualità che, nell’arco di qualche anno, aveva portato alla pubblicazione del volume di don Valter Danna intitolato Fede e omosessualità. Assistenza pastorale e accompagnamento spirituale (Effatà, 2009).
Il segnale di apertura non poteva essere più chiaro, essendo Danna il direttore dell’Ufficio Diocesano per la Famiglia. Non solo: a firmare la prefazione del volume era stato l’allora arcivescovo del capoluogo piemontese, il card. Severino Poletto, che in essa affermava a chiare lettere la necessità di affrontare il «nodo dell’omosessualità nella pastorale delle nostre parrocchie e comunità» (v. Adista n. 123/09).
Il processo in atto ha tuttavia subito una brusca interruzione in seguito all’uscita di scena di Poletto, al quale, nell’ottobre 2010, è succeduto alla guida dell’arcidiocesi mons. Cesare Nosiglia.
Formalmente il dialogo con gli omosessuali credenti rimane in piedi, ma il cambio di clima è risultato più che evidente un paio di mesi fa quando, in seguito alla richiesta di un parere sulla proposta di legge regionale antidiscriminazione inoltrata dall’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale alla diocesi, quest’ultima aveva formulato una risposta nella quale, fra l’altro, si leggeva: «Chi con metodo scientifico coltiva la tesi che l’omosessualità sia curabile non può venir discriminato, censurato o ostacolato (anche nell’accesso ad eventuali finanziamenti) da una legge regionale di divieto di ogni forma di discriminazione» (v. Adista n. 78/11).
In pratica, l’arcidiocesi difendeva il punto di vista secondo cui l’omosessualità sarebbe una malattia da curare, non proprio la base più solida su cui edificare un’eventuale pastorale di accoglienza per gli omosessuali credenti.
Rivendicare o condividere?
Si è accennato prima al fallimento del convegno del 1992 e all’idea, che comincia allora a farsi strada, dei gruppi come spazio di condivisione più che come agente di rivendicazione.
«Dopo quel convegno» secondo Gianni Geraci, «molti di noi cominciano a pensare che, più che lavorare come gruppo di pressione, dobbiamo lavorare per star bene noi con noi stessi e per poterci di conseguenza relazionare più serenamente alle nostre comunità di appartenenza». Ci si comincia cioè a porre una domanda ancora oggi attuale e dibattuta: a cosa servono i gruppi?
Antonio De Chiara è uno dei membri di Ponti Sospesi, il gruppo di omosessuali credenti di Napoli. «Grosso modo, ritengo esistano due tipologie di gruppi: quelli fortemente proiettati all’esterno, che vivono il loro essere un gruppo di omosessuali cristiani come una forma di attivismo, e quelli più chiusi, che funzionano fondamentalmente come spazio di condivisione e di preghiera.
Noi cerchiamo di praticare quella che potremmo definire una “terza via”: intendiamo il gruppo fondamentalmente come uno spazio di ascolto, di dialogo e di condivisione del vissuto, ma allo stesso tempo siamo aperti a recepire gli stimoli che provengono dall’esterno, purché aiutino il nostro percorso di crescita come persone».
È quindi tramite il filtro dello “star bene noi”, per usare le parole di Geraci, che il gruppo sceglie i progetti in cui impegnarsi, come ad esempio “Ermes”, un’iniziativa legata all’Università di Napoli che mira a creare nel capoluogo campano una rete territoriale contro l’omofobia. Ponti Sospesi è stato appunto individuato come uno dei soggetti presenti sul territorio.
Nuova Proposta di Roma, fra i più antichi e numericamente consistenti gruppi in Italia, è animato da un approccio abbastanza simile a quello di Ponti Sospesi. Secondo Andrea Rubera «il dialogo con la Chiesa è senz’altro un’attività fondamentale, ma più con l’obiettivo di fare informazione sull’accoglienza delle persone omosessuali che di attendere una legittimazione.
Il lavoro di gruppi come il nostro non va verso il fondare “il movimento dei gay cristiani”, questo non ci interessa proprio.
Va in realtà verso l’aumentare la consapevolezza nelle comunità cristiane, perché c’è ancora molto da fare per far capire al popolo di Dio in cammino cosa significa accogliere una persona omosessuale e quale sia il disagio che un adolescente omosessuale prova nello scoprire che, per il suo orientamento affettivo, quella che era la sua comunità di riferimento non può più esserlo, perché non ci si sente liberi di rivelare una componente fondamentale della propria esistenza».
È anche a causa di questo modo di intendere l’attività del gruppo che Nuova Proposta ha dato da poco il via ad un percorso di counselling e di condivisione esperienziale dedicato alle persone omosessuali e transessuali credenti.
«In un periodo», si legge sulla brochure dell’iniziativa, «in cui agli omosessuali e transessuali cristiani troppo spesso, purtroppo, ancora si propongono dolorosi messaggi di “guarigione e riparazione”, Nuova Proposta offre la possibilità di camminare verso la piena accettazione di sé».
Ed è sempre per lo stesso motivo che il gruppo ha avviato anche una collaborazione con alcuni gruppi scout romani, organizzando insieme a loro un ciclo di incontri sull’accoglienza della diversità.
«Un risultato positivo di questi incontri», racconta Rubera «è stato che alcuni ragazzi omosessuali hanno sentito che la tematica omosessuale aveva diritto di cittadinanza e hanno cominciato a parlare di sé, e lo hanno fatto anche afferendo a tematiche molto quotidiane come “le pene d’amore non corrisposte”.
Quindi, il semplice parlare di omosessualità ha immediatamente rasserenato l’ambiente e ha consentito a chi lo voleva di poter essere più sereno continuando il suo cammino scout», cui ha fatto seguito una giornata di approfondimento (Roma, 12 novembre 2011) con le comunità capi cui ha partecipato il Comitato nazionale dell’Agesci, le Branche e alcuni fra i quadri regionali.
I due approcci, ad ogni modo, nella maggior parte dei casi non si presentano come alternativi. Chiedere alle gerarchie, come anche a questa o a quella comunità locale, spazi di riconoscimento non implica affatto, nell’esperienza di molti gruppi, un trascurare le esigenze di accompagnamento del singolo fedele omosessuale e di sensibilizzazione nei confronti delle comunità di appartenenza.
La capacità di modulare l’attività del gruppo fra proiezione esterna e percorso comunitario di condivisione interna appare in questo senso un fattore decisivo, di cui la maggior parte di queste realtà associative mostra di essere ben consapevole.