Da Rabat a Parigi. Io, musulmano e felicemente gay
«Quando ho visto il mio primo Gay Pride, qui a Parigi, mi sono divertito molto, la musica, tutta quella gente. Però mi chiedevo, ma cosa vogliono di più? Sono liberi, possono tenersi per mano in pubblico».
Siamo a Place de la République, poco lontano da casa di Rachid. È un sabato pomeriggio di febbraio ma non fa freddo. Mentre passeggiamo lui si confonde un po’ tra la folla multietnica in delirio da saldo.
Ma Rachid non è uno dei tanti ragazzi calati dalle banlieue per comprare jeans scontati. Lui è nato e cresciuto in Marocco, a Rabat.
Negli anni 80 è un ragazzino come tanti, studia, gioca con gli amici, bisticcia col fratello più grande. È gay, e a tredici anni ha una storia d’amore con un suo professore trentenne. A quindici si innamora di un uomo francese di 40 anni e va a vivere con lui e con i suoi due figli. Poco più che ventenne decide di raccontare la sua storia: «Frequentavo gente più grande, francesi lì per lavoro. Stavano tutti sempre a dire che avrebbero scritto della loro esperienza in Marocco. Un giorno invece l’ho fatto io».
Il ragazzino diventa scrittore, grazie al prestigioso editore francese Gallimard che nel 1995 pubblica il suo primo libro, Il bambino incantato. I media si catapultano su di lui.
Rachid è il personaggio perfetto: giovane, arabo, e parla apertamente della sua vita gay. Manca il cognome, risolto con una O puntata per proteggere la famiglia in Marocco, che ha sempre saputo tutto facendo finta di nulla. Succede, non solo in Africa. Ancora adesso il padre non conosce il contenuto dei suoi racconti.
Altri libri sono seguiti, come Cioccolata Calda e Tante Vite, uscito in questi giorni in Italia. Mancano invece le traduzioni in arabo: in Marocco i suoi libri girano tra i giovani con discrezione, per non dire in clandestinità, nella versione francese.
Oggi Rachid ha 37 anni e quattro libri di successo alle spalle. Oltre ai tre citati infatti nel 2003 ha pubblicato Ce qui reste (l’unico ancora inedito da noi, uscirà nel 2008), ma è consapevole dell’impossibilità di parlare (solo) di letteratura.
La sua scelta non è mai stata un problema per lui: «Ho vissuto liberamente l’omosessualità, sin dall’adolescenza. Molti gay sono spaventati, faticano ad accettarsi, e non solo in Marocco. Anche qui in Francia e, credo, da voi in Italia. A parte Parigi, nel resto del paese c’è molta ipocrisia. A volte penso addirittura che i giovani marocchini siano più coraggiosi, soprattutto le ragazze».
La sua identità culturale è molto precisa: «mi sento musulmano, sono nato così. Però non pratico, non faccio il Ramadan».
Rachid O. non è uno scrittore militante, non ci sono prese di posizione politiche nei suoi racconti. C’è però l’attualità: l’Aids, la violenza, il rapporto con l’Occidente. E anche la quotidianità della sua gente, spesso molto diversa da come ce la immaginiamo.
Nel racconto Luc in ‘Tante vite’ dei giovani fumano canne e bevono tranquillamente alcol. Un’amica confessa a Rachid un po’ divertita che il suo ragazzo ha voglia di fare l’amore con lui.
Sembrano storie di borghesi metropolitani europei piuttosto che di giovani del Maghreb. «Beh, l’alcol in Marocco non è solo dei borghesi che lo bevono a cena: c’è tanta gente che ci si stordisce, che beve per dimenticare i problemi. E nello stesso modo usano l’hashish. Non è un segno di apertura, ma di disperazione».
Rachid torna ogni anno a casa e non può fare a meno di notare il cambiamento: «quando stavo a Rabat frequentavo una palestra. Il direttore era un tipo super sportivo, simpatico, un po’ fissato con il fisico.
Recentemente sono passato dal suo locale. Lui era ancora lì, si era fatto crescere la barba e stava leggendo il Corano.
Sono rimasto di stucco. Si è ricordato di me, era gentile come sempre. Gli ho chiesto come mai, cosa era successo. Lui mi ha detto: “ascolta Rachid, io ho cinquant’anni, sono stato hippy, poi rasta, ho provato di tutto, adesso provo questo. E poi io so leggere, quindi posso capire da solo. Nessuno mi condizionerà”».
L’integralismo, la dannazione che ha colpito il mondo negli ultimi anni, lo preoccupa molto: «Da ragazzini capitava che durante il Ramadan entrassimo in una moschea per bere un po’ d’acqua», ricorda, «gli adulti ci rimproveravano, perché in quei giorni è proibito anche bere, però tutto finiva lì. Oggi sarebbe impossibile, verrebbe considerato come un atto gravissimo.
Immaginate l’effetto che fa vederli mentre prendono il sole nudi, notare le strade addobbate tipo mille e una notte per loro quando nelle vie accanto tanti vivono di stenti.
La gente si arrabbia, non si sente rispettata. Le nuove generazioni sono più critiche verso l’Europa: ti dicono che vorrebbero partire, e subito dopo che è molto meglio restare in Marocco. Soldi permettendo».
E l’emancipazione dei gay? «Molti marocchini omofobi pensano che ora i gay vogliono solo mettersi in mostra, che era meglio prima, quando erano più nascosti.
Tenete conto che in Marocco l’omosessualità è ancora un reato, anche se nessuno va in prigione per questo e la polizia è tollerante.
Anche la stampa è più libera, si parla di omosessualità alla tv. E c’è un’associazione per la lotta contro l’Aids con la quale lavorano molti gay. Serve anche per portare avanti la lotta per i diritti».