Dal new queer cinema a Mysterious Skin
Scheda di Luciano Ragusa con cui a presentato al Guado di Milano il film “Mysterious Skin” di Gregg Araki il 19 giugno 2022
Il filosofo Hegel, nel testo La scienza della logica (pubblicato tra il 1812-1816), sostiene, non senza ragione, che: “…Quando un fenomeno cresce da un punto di vista quantitativo non si ha solo un aumento in ordine alla quantità, ma si ha anche una variazione qualitativa radicale”.
È possibile, in qualche istanza, sostenere che il “New Queer Cinema” ha obbedito inconsapevolmente a tale legge? Come ogni evento culturale, dopo un primo periodo di innovazione, segue il consolidamento e la relativa espansione, al di là dei quali, nei casi più significativi, il successo: nella prima parte della scheda che ha per oggetto il cinema indipendente queer, ho evidenziato che le traiettorie del cinema “indie”, e lgbtq+, si sono sostenute vicendevolmente per anni.
A partire dalla seconda metà degli anni 80’, per circa un decennio, il volume delle produzioni in oggetto aumenta in modo considerevole. E lo stesso si può affermare per i festival gay lesbici dislocati in tutto il mondo, che accolgono, o si strutturano integralmente per farlo, prodotti generati fuori dal circuito mainstream.
Dunque, per rispondere alla domanda di Hegel, bisogna capire se tale incidenza ha influito sulla qualità dei film, ed eventualmente in che termini. Senza dubbio, in molte parti, il queer cinema si è adeguato al settore più di consumo del cinema indipendente, se non addirittura inglobato nel sistema hollywoodiano.
Tutto ciò a discapito di una effervescenza creativa che ha deciso di strizzare l’occhio al grande pubblico, e di sacrificare il carattere protestatorio della narrazione. I termini del problema sono sempre gli stessi, ovvero la rappresentazione lgbtq+ che, attraverso la pellicola, viene affidata allo spettatore: se l’obiettivo è l’assimilazione, regista e sceneggiatore, saranno portati a fornire un’immagine positiva dei protagonisti, borghese e normalizzante, con lo scopo di non suscitare nel fruitore medio rigurgiti particolari.
Tale impostazione non è sinonimo di lungometraggi scadenti, ma, di solito, condire gay, lesbiche e trans, a misura di palato eterosessuale, oppure rinunciare a stimoli grammaticali nuovi e al coraggio di imprimerli sulla pellicola, suscita, nei fruitori più adusi, un senso di tradimento emotivo, se non addirittura intellettuale.
La cosa interessante è che il progetto assimilazionista, ha suscitato in alcuni registi la tentazione di radicalizzare ulteriormente il proprio occhio: movimenti di frangia come “Queercore”, o “Queer punk”, di cui Bruce LaBruce e Todd Verow sono tra i massimi esponenti, rivendicano l’imperativo di stravolgere anarchicamente sia tentativi di commercializzazione, che versioni dell’esperienza queer radical-chic.
Ma come ormai appreso, esacerbare tecniche, stili, posizioni politiche e sociali, non è garanzia di successo estetico, né di messaggi dal potenziale esplosivo. Muovendosi tra questi estremi (che riguardano anche generi e sottogeneri cinematografici), si comprende come il New Queer Cinema contenga diversi livelli e sfumature di “queerness”, sui quali, e nelle quali, si giocano infinite rappresentazioni delle vite lgbtq+.
Oggi, il queer cinema, non può essere connotato con l’aggettivo new (nuovo): troppi anni sono trascorsi dalla nascita (l’articolo su “Village Voice” di B. Ruby Rich nel quale conia il termine è datato 1992), e cospicua freschezza, e impatto, ha inevitabilmente perso nel corso dei decenni; sebbene, a fianco del filone gay lesbico e transessuale convenzionale, continua a circolare una produzione provocatoria e stimolante.
L’area dove si possono trovare film innovativi e relativamente mainstream, è situata nel luogo di mediazione tra spirito indipendente, cioè l’approccio che caratterizza alcuni cineasti, e il tentativo di Hollywood di corteggiarli. L’esempio più importante è I segreti di Brokeback Mountain (2005, Ang Lee), prodotto dalla Focus Future, appendice della Universal specializzata nel settore “indie”, il quale, fornisce uno spaccato di come nelle “periferie” delle major si incontrano sottospazi di lavorazione.
Per concludere, come rispondiamo al filosofo di Stoccarda? Il frangente temporale dove il “NQC” ha espresso il meglio di sé è il decennio 1985-1995, al di là del quale, il numero delle pellicole aumenta ma diminuisce la qualità, fino a deformare totalmente i confini tra cinema mainstream e indipendente. Che dire… Hegel docet!
ALTRE PERSONALITÀ DEL “New Queer Cinema”
Sul finire degli anni 90’ viene distribuito un film destinato a incidere sull’immaginario queer: Boy Don’t Cry (1999), diretto da Kimberly Pierce, è l’esempio perfetto di cinema indipendente costruito grazie al finanziamento di istituti come il Sundance Institute’s Filmmakers, che aiutano registi emergenti e “indie” a completare progetti interessanti.
La storia, vera, ruota attorno alla figura di Brandon Teena, transgender del Nebraska FtM, stuprato e assassinato dopo la scoperta della sua identità di genere. Il ruolo del protagonista viene affidato a Hilary Swank, allora venticinquenne, grazie al quale vince Golden Globe e premio Oscar come Migliore attrice protagonista. Della regista Kimberly Pierce, sebbene non rubricabile come indipendente, va ricordata la pellicola Lo sguardo di Satana – Carrie, quarto adattamento del romanzo di King, che ha ricevuto buona accoglienza di critica e pubblico.
Personalità eclettica, erede del “NQC”, è quella di John Cameron Mitchell, classe 1966: nel 2001 gira Hedwig – La diva con qualcosa in più, opera rock dove la protagonista è una musicista trasngender della Germania dell’Est, interpretata dallo stesso cineasta; mentre Shortbus – Dove tutto è perfetto, datato 2006 e presentato a Cannes nello stesso anno, fornisce occasione di scandalo perché propone scene di sesso esplicito tra attori non professionisti.
Tra i massimi esponenti del cinema in oggetto c’è Tom Kalin, fondatore di Gran Fury, collettivo attivista contro l’AIDS, nonché autore e produttore fedele al cinema indipendente queer. Il suo debutto risale al 1992 con la pellicola Swoon, ispirato al fatto di cronaca di Leopold e Loeb, da cui Alfred Hitchcock trasse Nodo alla gola. Come regista devo ricordare Savage Grace (2007), nel quale dirige Julianne Moore in una storia incentrata sul rapporto ambiguo tra una madre e suo figlio.
Nato in Arizona, Duncan Tucker, si presenta nel 2005 con Transamerica, film indipendente che sfonda con successo l’orizzonte del cinema mainstream: a Felicity Huffmann, straordinaria attrice statunitense, viene affidato il ruolo di Sabrina, transessuale in attesa di intervento di riassegnazione che, un giorno, riceve una telefonata da un adolescente il quale sostiene di essere il figlio di Stanley, nome anagrafico di Sabrina prima della transizione. All’oscuro di avere un figlio, Sabrina, verrà convinta dalla psicoterapista ad approfondire la conoscenza di Toby, dal quale dipende il suo assenso all’intervento vero e proprio. Madre e figlio, in un viaggio “on the road” da New York a Los Angeles, troveranno il coraggio di riconciliarsi.
Altro simbolo della nuova cinematografia gay è Todd Haynes (Los Angeles, 1961), il quale esordisce nel 1991 con Poison, film girato con una manciata di dollari che affronta il tema dell’omosessualità in carcere. Nel 1998 si presenta a Cannes con Velvete Goldmine, viaggio all’interno del glam rock con tantissimi riferimenti alla cultura omosessuale, in particolar modo lo stile di vita di Oscar Wilde. Differenza di classe, omosessualità, razzismo, sono affrontate nella pellicola Lontano dal paradiso (2002), con Julianne Moore ancora protagonista che deve fare i conti con l’orientamento sessuale gay del marito, motivo di scandalo e separazione. Chiudo la disamina su Haynes con Carol (2015) film dal successo planetario tratto dal romanzo “The price of salt” di Patricia Highsmith, dove si narra della storia d’amore tra un’aspirante fotografa, Therese, e Carol, donna matura dal fascino intrigante alle prese con un difficile divorzio.
Di origine portoricana ma nata a Chicago è Rose Troche (1964), regista, sceneggiatrice, che si muove tra il grande e piccolo schermo: debutta al cinema con Go Fish (1994), autentico spaccato di vita lesbica nella città di Chicago, grazie al quale vince il Teddy Awards come Miglior lungometraggio al Festival del cinema di Berlino. Con lo stesso intento esce nel 1998 Bedrooms and Hallways, con la differenza che i protagonisti sono maschili. Ma forse, il successo più clamoroso, è la serie televisiva The L Word, prodotta da HBO e trasmessa da Showtime, della quale è regista e sceneggiatrice insieme alla compagna Cherien Dabis. Naturalmente, “la parola che inizia con la L”, in slang americano, contraddistingue l’universo omosessuale al femminile. Chiudo il percorso relativo al cinema indipendente queer ricordando che, per questioni di spazio, non hanno trovato posto approfondimenti su Bruce LaBruce, Christopher Munch, Jenny Livingstone…
MYSTERIOUS SKIN
Nippo-americano di terza generazione Gregg Araki è tra i massimi esponenti del NQC: dopo la laurea in produzione cinematografica, comincia a scrivere piccoli soggetti e sceneggiature per l’universo indipendente a basso costo, fino a quando, nel 1992, si fa conoscere con The Living End, road movie con protagonisti due adolescenti gay.
La sua fama cresce con Totally F***ed Up (Completamente Fuori di Testa), docu-film incentrato sulle vite di sei personaggi gay, nel quale, propone l’innovazione tecnica della videocamera usata da uno dei protagonisti, eternata poi da film come American Beauty (1999) e The Blair Witch Project (1999).
Doom Generation (1995), consacra Araki come autore di culto del NQC e oltre: protagonisti sono ancora tre adolescenti e i loro incubi visionari, dove nichilismo, sempre presente nei film dell’autore, violenza, mancanza di redenzione, offrono uno spaccato apocalittico dei diciottenni di fine millennio.
Sulla stessa lunghezza d’onda, visione macabra e brutale dell’esistenza, sessualità violenta mediata da allucinazioni extrasensoriali, è Ecstasy Generation (1997); mentre Splendor (1999), rivela un lato antitetico rispetto ai film precedenti, nel quale, l’efferatezza e l’inumanità, lasciano posto ad un vissuto mite e positivo.
Arriviamo così a Mysterious Skin (2004), protagonista della nostra proiezione: l’infanzia violata, a cui segue un’adolescenza ferina, sono al centro di un lungometraggio dalle fondamenta solide, costruite con un budget di livello e una maturità artistica all’apice della forma. Il soggetto è tratto dall’omonimo romanzo pubblicato nel 1995 da Scott Heim, la cui sceneggiatura è stata estrapolata e riscritta da Araki stesso.
In concorso a Venezia, la pellicola dimostra, una volta di più, la possibilità di un cinema di poesia anche quando l’orrore si insinua in giovani vite, segnandone la costruzione dell’identità. La sospensione forzata dei due protagonisti genera lo spazio dentro al quale il regista cesella il suo ideale estetico, punto da cui salpare per una nuova rinascita. Perfetti Joseph Gordon-Levitt e Brady Corbett, attori, che nel frattempo, hanno lavorato con i migliori registi viventi: tra questi Spike Lee, Christopher Nolan, Steven Spielberg, Robert Zemeckis, Michael Haneke, Lars von Triar, ecc.
SCHEDA DEL FILM:
Regia e sceneggiatura: Gregg Araki.
Soggetto: Scott Heim.
Montaggio: Gregg Araki.
Fotografia: Steve Gainer.
Musiche: Harold Budd, Robin Guthrie.
Scenografia: Devorah Herbert.
Costumi: Halix Hester.
Produttore: Gregg Araki, Jeffrey Levy-Hinte, Mary Jane Skalski.
Produttore esecutivo: Wouter Barendrecht, Michael J. Werner.
Casa di produzione: Antidote Films, Desperate Pictures.
Distribuzione in Italiano: Metacinema.
Interpreti: Joseph Gordon-Levitt (Neil McCormick), Brady Corbet (Brian Lackey), Michelle Trachtenberg (Wendy), Jeffrey Licon (Eric), Bill Sage (coach).
Genere: drammatico; anno: 2004; durata: 99 minuti.
TRAMA: Kansas. Brian e Neil, due ragazzini appassionati di baseball, vengono molestati sessualmente dal proprio allenatore. La vicenda, ruota attorno al differente modo dei protagonisti di elaborare il trauma nel periodo dell’adolescenza, fino a quando, la condivisione dell’accaduto, potrebbe offrire loro le risorse per superare il terrore vissuto nell’infanzia.