Dal tardofranchismo alla democrazia. Le storie LGBT nei film di Eloy De la Iglesia
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Scheda di Luciano Ragusa con cui è stato presentato al Guado il film “Carezze” di Ventura Pons il 9 febbraio 2020
Il termine “tardofranchismo” inerisce a tutti quegli eventi che, nell’arco di una quindicina d’anni (1969-1982), hanno consentito alla Spagna il passaggio dal regime del Generalissimo Franco alla democrazia. La prevedibile morte del dittatore, nato nel 1892, stimolò negli apparati repressivi dello stato un rigore ancor più esasperante, compreso il controllo capillare di ciò che produceva l’industria cinematografica nazionale.
Sono innumerevoli le pellicole che hanno ricevuto robusti tagli tra il 1969 e il 1977, data in cui, oltre alla dittatura, casca la censura artistica. All’interno di queste condizioni storiche (il regime di Franco si dipana dal 1939 al 1975), diventa difficile scorgere, prima dell’apertura democratica, lungometraggi in cui è palese la rappresentazione di personaggi LGBT.
Ma, fortunatamente, alcuni film, tra controlli elusi, e stralciature più o meno elaborate, hanno registrato una distribuzione. Tra dicembre 1961 e gennaio 1962 viene proiettato nelle sale Diferente, di Luis Maria Delgado, la cui trama ruota attorno alla figura di Alfredo (interpretato da Alfredo Alaria, coreografo, sceneggiatore e regista teatrale argentino), primo figlio di una ricca famiglia borghese che rifiuta d’impiegarsi nell’azienda avita per seguire sogni teatrali. Diferente è davvero un caso straordinario, perché i codici omosessuali inseriti al suo interno sono evidenti, e nemmeno il regista, in successive interviste, riesce a spiegarsi il motivo di tanta tolleranza (forse qualche autorità deputata al controllo era un omosessuale velato?).
Un discorso a parte merita invece Eloy De la Iglesia, cineasta basco classe 1944, tra i primi a sfidare apertamente la morale franchista. Omosessuale dichiarato, nonché comunista, ha il coraggio di raccontare realtà marginali che il regime nasconde, rischiando rappresaglie non solo censorie. Andiamo con ordine: trasferitosi a Madrid per studiare alla Facoltà di Lettere e Filosofia, capisce che è il cinema ad interessarlo maggiormente, a seguito del quale, espatria nella capitale francese per frequentare l’Istituto di Studi delle Arti e della Cinematografia. Raggiunto l’obiettivo torna in Spagna, dove assume alcuni incarichi di scrittura, e regia, sia televisiva che teatrale, con temi legati soprattutto al mondo dell’infanzia.
Dopo i primi film, nel 1972, esce L’appartamento del 13° piano, opera in cui sono presenti tutti gli stilemi che renderanno De la Iglesia un autore di culto. La storia narra del giovane Marcos, il quale, per errore, uccide un tassista guardone. La fidanzata cerca di convincerlo a costituirsi, ma, in preda ad un raptus, il protagonista la strangola durante una lite.
Per coprire gli omicidi sarà costretto ad uccidere il fratello, la sua fidanzata, e l’anziano padre: l’unica persona con cui riesce a tessere un’amicizia vera è Nestor, un ricco omosessuale che abita al 13° piano di un condominio posto di fronte alla sua abitazione. Censura prima, e critica poi, al cospetto di questo e altri lavori successivi, sono concordi nel reputarli “squinternati”, frutto di una mescolanza tra generi cruenti in voga tra gli anni 70’ e 80’, e l’ossessione di far vivere narrazioni improbabili a personaggi esautorati.
Certamente, il cineasta basco, è tra gli artisti che meglio configurano il sottogenere “quinqi”, caratterizzato da trame violente incastonate in ambienti culturalmente marginali, ma, con lenti storiografiche ormai distanti da quei decenni, risulta evidente il DNA protestatorio del regista. I toni espliciti con cui mette in scena l’impeto e la furia umana, soprattutto nelle molteplici forme della sessualità, diventano metafora della forza devastante con cui ogni regime fa rispettare l’ordine e la disciplina. E quando questo crolla, oltre a far di conto con i risultati che ha prodotto, bisogna puntare i fari contro nuove sacche di emarginazione che i cambiamenti epocali producono. Per quanto concerne il nostro percorso, Eloy De la Iglesia, non solo è colui che sdogana l’omosessualità nel cinema iberico, ma introduce una sfumatura militante in linea con la nascita dei movimenti LGBT in tutto l’occidente.
Nel 1976 esce Los placeres ocultos, nel quale un uomo, impiegato di banca, prova a sfondare il tabù della famiglia tradizionale cercando di convincere un giovane eterosessuale, di cui si è innamorato, e la sua fidanzatina, a vivere con lui.
Del 1978 è El diputado, complessa narrazione al cui centro sono situate politica e omosessualità: Roberto, deputato eletto nelle fila del partito socialista, è sposato con Carmen, storica compagna di lotte antifranchiste. In realtà, il matrimonio, è per Roberto l’espediente per reprimere una sessualità omoerotica, che esplode irrimediabilmente dopo aver conosciuto Nes, ragazzo di vita incontrato durante una visita carceraria.
Nes, purtroppo, oltre a introdurre il deputato negli ambienti della prostituzione giovanile, è anche un delatore di estrema destra, per cui, avvisati i superiori, parte una controffensiva per distruggere la carriera di Roberto. Subdolamente, inducono il deputato ad innamorarsi di Juanito, ragazzo bellissimo il cui compito è informare i propri mandanti di tutta l’attività politica di Carmen e del marito.
In vista dell’elezioni come Segretario Generale scatta la trappola: uccidono Juanito e lasciano il corpo nell’appartamento dov’era solito incontrarsi con Roberto, il quale, a quel punto, è costretto a dichiarare al mondo la propria omosessualità.
Nella pellicola, emerge la necessità di una critica politica bi-direzionale, non solo orientata verso una destra per cui l’omofobia è strutturale, ma anche in direzione di una sinistra incapace di scavalcare un’idea conservatrice della sessualità, che costringe le minoranze ad arginare, senza strutture, la violenza a cui sono sottoposte.
Come sopra sottolineato, il regista basco non ha mai fatto mistero del proprio orientamento sessuale, anzi, a partire dagli anni 80’, la sua storia con José Luis Manzano, diventa di pubblico dominio. Conosciuto in uno dei tanti sopralluoghi alla ricerca di attori provenienti dalla strada, José Luis diventa l’interprete feticcio di De la Iglesia, dopodiché, compagno nella vita. Il passato di Manzano è costellato di abusi e alcool, un miscuglio di difficoltà reali che lo rendono perfetto per i melodrammi del regista, che, da parte sua, sente trasformare l’interesse artistico per il ragazzo in affetto e amore.
I due cominciano a fare uso di droga, situazione che rende complessa non solo l’attività cinematografica della coppia, ma anche la quotidianità della loro relazione. Tra alti e bassi, separazioni e ritorni, José Luis Manzano muore di overdose nel 1992, mentre Eloy De la Iglesia riuscirà a disintossicarsi solo nel 1996, nove anni dopo il suo ultimo film.
Per rivederlo di nuovo alla regia di un lungometraggio bisogna aspettare il 2003, anno in cui viene distribuito Los novios búlgaros (tratto da un romanzo di Eduardo Mendicutti tradotto in italiano), in cui Daniel, quarantenne avvocato madrileno, si innamora di un giovane immigrato bulgaro di nome Kyril, interessato alla movida cittadina perché fonte di guadagno per sé e per la fidanzata. In nome di questo desiderio non corrisposto Daniel metterà a rischio il proprio equilibrio, sia sociale che mentale. Eloy De la Iglesia muore il 23 marzo 2006.
Sostanzialmente coetaneo del “filmmaker” basco è Ventura Pons (Barcellona, 1945), apprezzato regista al cui attivo ci sono più di venti pellicole, ultima delle quali, 2019, un “musical gay” recitato in inglese intitolato Be Happy!, che non ha riscosso tra i londinesi molto successo.
Omosessuale dichiarato, la sua carriera dietro la macchina da presa comincia con Ocaña (1977, selezionato l’anno dopo per concorrere a Cannes nella sezione “Un certo sguardo”), bellissimo affresco sulla vita del pittore andaluso tra gli anni 60’ e 70’, dove, sottoforma di confessione, il protagonista non cela il travestitismo, l’omosessualità, la repressione franchista, e tutto ciò che si mescolava nella movida di Barcellona.
Seguendo un ipotetico percorso LGBT, nel 1998 (ci occuperemo di Carezze, 1997, alla pagina seguente) viene distribuito Amic/Amat, storia di un docente universitario gay che, a causa dell’imminente fine vita, si domanda quale significato abbia assunto la sua esistenza.
Datato 2001 è Food of love – Il voltapagine, tratto dal romanzo di David Leavitt, in cui un pianista gay di belle speranze incontra, durante il percorso di studi, il suo idolo musicale, del quale, per un certo periodo, diverrà voltapagine ai suoi concerti. Nel 2007 viene dato alle sale Barcelona (una mapa), intreccio ideale di personaggi tutti legati dalla solitudine e dalla difficoltà di comunicare; Strangers (2008), bellissimo film che narra la difficoltà di accettare le persone diverse, indipendentemente dall’orientamento sessuale.
Infine segnalo Ignasi M. (2013), documentario incentrato sulla figura del noto museologo catalano Ignasi Millet Bonaventura, il quale, nonostante una vita difficile, segnata dal suicidio paterno, dalla sieropositività e altre sventure, riesce ad avere un’ottica disincantata e propositiva della vita, senza rinunciare a divertirsi.
Malgrado la sua presenza costante ai festival italiani, soprattutto quello LGBT di Torino, le sue pellicole sono scarsamente distribuite nell’idioma nazionale. Dei suoi tanti lungometraggi, solo due contengono una versione sottotitolata, Food of love – Il voltapagine, e Carezze, protagonista del nostro cineforum.
CAREZZE
Il lungometraggio è tratto da uno spettacolo teatrale di Sergi Belbel, drammaturgo catalano dal 2005 direttore del Teatro Nazionale di Catalogna. Uscito a teatro nel 1992, Carezze diventa una rappresentazione di successo, con il destino di trasformarsi in pellicola cinematografica.
Il film, presentato a Berlino nel 1998, per via della sua struttura a intreccio, è l’occasione per Ventura Pons di esplorare contemporaneamente molti temi soggetto della sua poetica: l’amore, che è appunto il desiderio di tenerezza, di carezze, la necessità di toccare l’atro; l’amicizia, non intesa come surrogato della famiglia tradizionale in cui si ripetono dinamiche deleterie, ma come spazio da inventare in cui è comunicabile la difficoltà del reale.
Temi universali dunque, a cui possiamo aggiungere, sebbene non presente nello specifico, il tema della morte, al centro di Amic/Amat e Strangers. In diverse interviste, Pons, cerca di smarcarsi dall’etichetta di autore LGBT, perché a suo dire, la descrizione di drammi globali, esula dall’orientamento sessuale.
SCHEDA DEL FILM
Regia: Ventura Pons.
Soggetto: Sergi Belbel, Ventura Pons.
Sceneggiatura: Sergi Belbel, Ventura Pons, Arthur Schnitzler.
Fotografia: Jesus Escosa.
Montaggio: Pere Abadal.
Musica: Carles Cases.
Produttore: Els Films de la Rambla S.A, Televisión Española.
Distribuzione italiana: Dolmen (2007), Cecchi Gori Entertainment (2011).
Cast: David Selvas, Laura Conejero, Julieta Serrano, Montserrat Salvador, Rosa Maria Sardà, Sergi López, Mercè Pons, Naim Thomas, Jordi Dauder, Augustin Gonzáles.
Genere: drammatico; anno: 1997; durata: 90 minuti.
TRAMA
Quante relazioni possono dirsi realmente intime? Quante emozioni, gesti, riescono a trasformarsi nella quotidianità in carezze? La città di Barcellona è lo scenario in cui i protagonisti di undici storie proveranno a rispondere a queste domande. Le connessioni esplorate includono diverse relazioni famigliari, romantiche, diversità tra i sessi, generazioni differenti: il tutto condito con l’ironia necessaria per sdrammatizzare la messa in scena dell’incomunicabilità.