David Kato. Un gay in lotta contro la violenza dell’omofobia
Articolo tratto da The Economist (Inghilterra) del 10 Febbraio 2011, liberamente tradotto da Sara M.
David Kato Kisule, un attivista gay ugandese, è morto il 26 gennaio (2011), all’età di 46 anni. Per i 935 alunni della scuola elementare San Herman Nkoni, sulla strada Masaka-Mbarara, l’uomo esile, dall’aria intellettuale, dalla voce sommessa e con gli occhiali dalle lenti spesse era un dirigente scolastico piuttosto bravo.
Ma per i giornali scandalistici ugandesi, come Red Pepper e Rolling Stone, era un mostro: un “trivella-culi”, sempre alla ricerca di “compagni cazzuti” per “scopate a sangue”.
Per i sostenitori del disegno di legge contro l’omosessualità del 2009, che obbligherebbe chiunque sia stato testimone di attivita’ omosessuali a denunciare le stesse entro 24 ore e che propone la pena di morte per i recidivi, era un deviato e un corruttore di ragazzi innocenti.
Nei sermoni dei pastori cristiani evangelici che giravano per le città ugandesi, era un cane, un maiale posseduto dal demonio. Perfino il prete anglicano che ha celebrato il suo funerale si è interrotto per urlare che era peggio di una bestia, perché gli animali almeno conoscono la differenza tra maschio e femmina.
David Kato faceva parte di un gruppo così piccolo, odiato e perseguitato – addirittura, illegale – che la maggior parte degli ugandesi non ne ha mai incontrato consapevolmente un membro.
I gay come lui si definiscono kuchus, che significa “uguale”, come in “uguale sesso”. Ma non era uguale in alcun modo che agli ugandesi ordinari importasse riconoscere. I suoi vicini di Nansana e Mukono, i distretti vicino a Kampala, dove ha vissuto in vari periodi, ammettono che sapeva essere generoso e gentile. Aveva pagato lui l’installazione dei cavi elettrici locali, saldava le fatture ospedaliere di altre persone, accoglieva in casa vagabondi senzatetto.
Ma tutte queste cose, hanno dichiarato ai giornali scandalistici, le faceva perché era “pieno da far schifo” di soldi stranieri, che per la maggior parte gli venivano donati perché propagasse il male occidentale in Uganda e un sacco di soldi gli venivano in pagamento di favori sessuali. Era pericoloso stargli troppo vicino, a causa del suo amore per il didietro.
La sua donna delle pulizie (che osservava i giovani uomini che andavano e venivano e sapeva quali si fermavano per la notte) notò che era stanco il giorno in cui venne ucciso e lo attribuì all’AIDS. Un dottore sostenne la stessa falsa storia: Kato era sieropositivo e diffondeva il virus, nonostante le campagne governative per tenere l’AIDS sotto controllo.
Un ex-omosessuale di nome Paul Kagaba dichiarò di essere stato irreparabilmente sedotto al male nell’abitazione di Kato, un casa bianca con portico lungo Villa Road, dopo un paio di Guinness e una cena da asporto. Nella sua dichiarazione, sottintese di essere stato solo uno di molti.
Nella mente di Kato c’erano sono due modi per affrontare l’essere gay in Uganda. Il primo era nascondersi e cercare nel buio. Fu questo il modo in cui incontrò per la prima volta l’ambiente gay di Kampala alla fine degli anni ’90, dopo aver sentito parlare di una festa notturna in certi giardini fuori città e aver deciso che doveva autoinvitarcisi.
Le persone che ospitavano la festa, diffidando della sua ansia di partecipare, gli diedero un indirizzo sbagliato; non volevano che trovasse quel raduno segreto e illegale tra gli alberi.
Quando rilasciò interviste ai media occidentali fu spesso in vicoli bui o in locali deserti, il volto in ombra vicino alla telecamera, o in qualche rossa strada sterrata fuori città, dove continuava a camminare nervosamente.
Discorsi battaglieri
Il secondo modo di essere gay, invece, era di esporsi ed essere orgoglioso. Era questo ciò che preferiva, nonostante i rischi. Nel 1998, appena tornato da alcuni anni di insegnamento in Sud Africa – dove aveva visto crollare l’apartheid, e con esso le vecchie leggi contro la sodomia, e aveva finalmente deciso di ammettere la propria omosessualità – tenne una conferenza stampa in televisione con cui cominciò ad esercitare pressioni per i diritti dei gay nel suo paese.
La polizia lo picchiò subito dopo, il primo di una serie di pestaggi (era solito mostrare le cicatrici sulla testa, dove gli erano state rotte addosso delle bottiglie), e lo arrestò, il primo di tre arresti.
Per nulla scoraggiato, nel 2004 divenne il co-fondatore di Sexual Minorities Uganda e lanciò campagne contro il disegno di legge anti-omosessualità e i pregiudizi generali.
Era il funzionario conciliatore del gruppo, in parte perché sapeva muoversi nei labirinti della legge, ma soprattutto perché era uno che parlava con voce sonora, perché era impaziente, esigente, arrabbiato (anche troppo, quando beveva birra) e non gli importava che la sua faccia adesso fosse il simbolo dell’ “Uganda Gay” per i giornali scandalistici.
Quando, nell’ottobre scorso, Rolling Stone uscì con un articolo in prima pagina sugli “omo” che “reclutavano proseliti” nelle scuole, promettendo di smascherare 100 di loro e chiedendo che venissero impiccati,
Kato fu uno dei tre che citò in giudizio la rivista. Fu l’unico a presentarsi davanti alla corte per esporre la sua tesi che omosessuali si nasce, non si diventa, e quindi non si poteva essere “reclutati”.
Lui si era reso condo di essere diverso fin da quando era un bambino che viveva a Nakawala, il villaggio dei suoi antenati; anche il suo fratello gemello, John, lo aveva notato e si limitò a ridere quando, anni, dopo Kato fece coming out con lui.
L’anno nuovo sembrava propizio. Il 3 gennaio un giudice condannò Rolling Stone; Kato ricevette un risarcimento di 1,5 milioni di scellini ugandesi, circa 640 dollari.
Non era molto, ma era il principio che importava. Nel frattempo, era stato sospeso il dibattito sul disegno di legge anti-omosessualità, in parte a causa della pressione mondiale che Kato aveva contribuito a suscitare.
Dei giovani continuavano a gironzolare intorno a casa sua. Uno di loro era un ladro ben conosciuto nella zona: un gruppo di teppisti di quella città, responsabili di 15 pestaggi con sbarre di ferro in due mesi.
Secondo la polizia, quando Kato venne ucciso a martellate, il pomeriggio del 26 gennaio (2011), fu semplicemente un’altra vittima di quella serie. Le associazioni omosessuali accusarono i giornali scandalistici per aver incitato alla violenza. I vicini, dando un’occhiata, notarono con sorpresa che il suo sangue sul muro sembrava proprio dello stesso colore del loro.
Testo originale: David Kato