Delitti di genere. Essere uomo, essere donna
Riflessioni di Carlos Osma tratte dal blog homoprotestantes (Spagna), 23 luglio 2012, liberamente tradotto da Luz Maria B.
Secondo l’antropologa Dolores Juliano la categoria “puttana” è la frontiera di genere per le donne, e potremmo continuare dicendo che “finocchio” è quella degli uomini. Essere uomo o essere donna non è possibile esserlo in un modo qualunque, ma siamo obbligati ad esserlo in alcuni modi determinati.
È vero che in culture come la nostra c’è una maggiore permissività, ma anche così, non tutto viene permesso, per cui lo stigma lanciato contro coloro che volontariamente o involontariamente non svolgono il ruolo assegnato ai loro genitali continua ad essere lo stesso: “puttana” e “finocchio”.
Puttana non è la donna che vende il suo corpo per soddisfare il desiderio degli uomini, poiché queste sì che fanno parte del genere donna accettato socialmente, benché restino situate alla base della piramide e relegate, non all’emarginazione sociale, ma alle zone buie che la società ha creato per esse in tutte le città che si rispettino.
La puttana di genere è quella che si comporta come un “uomo”, forse perché ha potere e lo esercita senza esitare, perché non ha paura e non ha bisogno di un superman salvatore che le dia ciò di cui ha bisogno e soddisfi tutte le sue necessità, o chissà, forse perché utilizza il suo corpo liberamente e si nega a coprirlo, mostrarlo, modellarlo o manipolarlo secondo le norme stabilite.
Puttana è soprattutto la donna che non si sottomette, che ha un’opinione e la condivide, che non china la testa e dice di sì a tutto quello che le si ordina. Puttana è la donna libera, che ha la forza necessaria per essere se stessa là dove la società non le lascia spazio per esserlo.
Di puttane ce ne sono molte, alcune con la capacità di ampliare le frontiere di genere, e altre che vanno per “cammini di uomini” che sanno che pochissime torneranno a percorrere; ma che importa, sono soltanto loro quelle che decidono la strada che vogliono percorrere.
Finocchio è l’uomo che rinuncia a essere il Dio onnipotente, quello che non si colloca in cima alla piramide del potere. Finocchio è il perdente, quello che va contro la sua natura di essere il primo, quello che si lascia dominare, quello che mostra la sua debolezza in pubblico, quello che disordinatamente si comporta come una donna.
Finocchio ha poco a che fare con l’orientamento sessuale. Tristemente, sia per gli omosessuali che per gli eterosessuali non c’è niente di peggio che sembrare un finocchio. È facile vedere come in società come la nostra, dove gli uomini gay sono già un modo di essere uomini, questi non si perdonino tra di loro il delitto di genere.
L’uomo gay considerato poco mascolino, quello effemminato, quello che vuole mettersi il rimmel o fa muovere le mani in libertà, costui continua a non essere un uomo, costui rimane fuori della categoria e lo si taccia di finocchio. Anche l’uomo eterosessuale si vede minacciato da questa categoria e cerca di scappare da essa a ogni costo, cessando di essere se stesso per essere quello che ci si aspetta da lui, un “non finocchio”, un “uomo vero”.
Una volta ho sentito qualcuno che diceva: “sono un uomo, ma sto smettendo”, con questo voleva dire che non voleva sentirsi legato, sotto pressione, minacciato da quello che si suppone che avrebbe dovuto fare o essere, però poco a poco stava scoprendo chi era realmente e come voleva essere.
Quando penso che tutti per una o per un’altra ragione abbiamo commesso una volta nella nostra vita un delitto di genere, che abbiamo dovuto abbandonare il luogo in cui si suppone avremmo dovuto vivere e muoverci per essere nati con un determinato sesso, mi risuonano le parole che Dio diresse ad Abramo: “Lascia la tua terra, i tuoi parenti e la casa di tuo padre, per andare nella terra che io ti mostrerò1”, o quelle che Gesù disse ai suoi discepoli affinché lo seguissero lasciando le loro case, il loro lavoro, le loro famiglie e la vita che li aspettava2.
E mi risuonano perché in qualche modo l’esperienza di quelle persone è simile alla nostra. L’abbandono di un luogo, anche se simbolico come il genere, non è facile, e non perché stiamo facendo qualcosa contro quello che siamo, ma perché andare verso un luogo sconosciuto produce sempre un certo timore, e ancor di più quando non contiamo sull’approvazione degli altri.
Ma la promessa di seguire quel cammino verso l’ignoto è arrivare a una vita piena, felice, dove possiamo essere chi realmente vogliamo essere e sviluppare tutte le nostre potenzialità. E il fatto è che credo che per Dio deve essere abbastanza triste che le categorie di genere ci impediscano di essere realmente felici.
Cosicché essere puttana o finocchio, più che un delitto religioso è un obbligo che viene dalla fede, a cui si dovrebbe chiamare dai vari pulpiti che ha oggi il cristianesimo nella nostra società.
Il cammino dell’esilio del genere non ha motivo di farsi in solitaria, ci sono sempre state donne e uomini che con il loro esempio hanno fatto vedere che ci sono altre possibilità, che non c’è bisogno di adattarsi a ciò che la gente si aspetta.
Puttane e finocchi ci sono sempre stati in tutti i luoghi, e probabilmente ce ne saranno sempre. Abramo non camminò a lungo prima di incontrare altre persone. Nemmeno i discepoli si trovarono soli.
Ma il pericolo dell’esilio continua a essere lo stesso: credere che ci sia un unico modo di essere diverso e non capire che non cerchiamo un modo determinato di essere, sentire o agire, ma che cerchiamo la libertà di poter essere, sentire o agire a modo nostro.
L’esilio è il luogo della differenza, dell’inaspettato, del miracolo. Perché ogni persona quando vive, agisce e si comporta come è, liberamente, fa vedere il miracolo dell’amore incondizionato di Dio per ognuno degli esseri umani, comunque questi siano.
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1 Gen. 12, 1
2 Mc 1, 16-20
Testo originale: Delitos de género