Desiderio e amore coniugale omosessuale. Il desiderio come sacramento della nostalgia di Dio
Riflessioni di Luigi Testa*, seconda parte
Si può in qualche modo dire, dunque, che le persone omosessuali hanno un’esperienza più sincera, meno carica di sovrastrutture, più “nuda”, di quella cifra costitutiva dell’umano che è la mancanza nella forma del desiderio – e di un desiderio che, in quanto strutturale, non può mai smettere di desiderare.
In una prospettiva cristiana, si tratta di una grazia vera e propria, perché permette di accedere direttamente al mistero del rapporto tra Dio e l’uomo.
Se la legge del «non tutto» di derivazione freudiana è immediatamente coerente con la visione cristiana della realtà, non di meno lo è la lettura del desiderio che è proposta da Lacan, e soprattutto l’idea che ad abitarci sia un desiderio che è strutturalmente insaziabile, altrimenti smetterebbe di essere se stesso. Basterebbe ricordare il noto adagio di Agostino: «Il nostro cuore è inquieto fin quando non riposa in te».
Per impiegare il lessico di Lacan – che non è molto distante, ad esempio, dal lessico ignaziano –, Dio ha piantato nel nostro cuore un Desiderio – con la maiuscola – così grande di Lui, che ogni nostro desiderio – con la minuscola – è solo un balbettio del primo e, una volta compiuto, è destinato a lasciarci ancora assetati.
È fondamentale, da questo punto di vista, quello che Dio dice a Santa Caterina da Siena: «Tu sei infinita nel desiderio, come io sono infinito nell’essere». In altri termini: nessuno potrà mai rispondere in maniera piena, definitiva, alla nostra “domanda di riconoscimento” – e dunque guarire il nostro desiderio – perché il cuore desidera un «Io non posso perderti» infinito, che dunque può essere solo quello di Dio.
La prima reazione che si può avere quando si scopre – generalmente prima negli altri, e poi in noi stessi, mentre sarebbe meglio se avvenisse il contrario – che siamo fatti di questo desiderio inguaribile, insaziabile, infinito, è quella di spaventarsi, come ci si spaventa sempre dinanzi a quello che gli psicanalisti chiamano l’eccesso della vita. Una pulsione irrazionale, acefala, scomposta, ingestibile, ci spaventa, ci terrorizza, vorremmo troncarla, e forse lo tentiamo con i più spietati mezzi e giudizi, su noi stessi e sugli altri.
Eppure, questo desiderio infinito è la cosa in noi che più vividamente ci parla di Dio e ci dice che siamo fatti per Lui. L’atteggiamento del cristiano dovrebbe essere dunque quello di una serena e lucida presa d’atto, anzitutto dando un nome a questo eccesso che ci spaventa, riconoscendo in esso il sacramento della nostalgia che abbiamo di Dio, e – soprattutto – convivendo con l’idea che questo desiderio non sarà mai guarito, perché «l’insaziabile può saziarsi solo con l’Inesauribile», come aveva capito Paul Claudel.
È proprio la coscienza dell’inguaribilità del desiderio che sola può liberare convincentemente da fantasmi di disperazione o di false soluzioni.
Per fortuna ci siamo liberati dalla pericolosissima idea dell’amore secondo lo schema delle “due metà della sfera”, e si è acquistata una generale consapevolezza del fatto che in ogni relazione ad incontrarsi sono sempre due individualità che resteranno sempre fatalmente separate. L’amore sta proprio qui: nell’accogliere l’altro non assorbendolo, ma lasciandolo sussistente nella sua individualità.
Forse bisogna però ancora liberarsi da un altro fantasma, allo stesso modo pericoloso, che è quello di credere che esista una relazione di amore umano in cui il desiderio possa essere guarito del tutto – in cui non resti viva una certa quota di desiderio di altro.
A smentirlo è, da un lato, la riflessione psicanalitica cui si accennava sopra, e, dall’altro, la visione cristiana della realtà.
La prima, perché se ci fosse una relazione di amore umano senza una certa quota di desiderio non sazio, questo contraddirebbe l’assunto di base per cui il desiderio è carattere strutturale dell’umano – e dunque non eliminabile.
La seconda, perché se ci fosse un amore umano che colmasse del tutto il desiderio, questo significherebbe o che il nostro desiderio non è infinito o che la persona che amiamo non è finita, ma è come Dio: entrambi scenari che si possono ragionevolmente escludere.
Prendere atto dell’inguaribilità del nostro desiderio, dunque, ci assicura anzitutto che ci può essere un amore vero, pieno, autentico, anche se avvertiamo da qualche parte un eccesso di vita – anche se resta una parte di desiderio che non riusciamo a gestire, a domare – piantato, come la “spina nella carne” da cui neanche Paolo riusciva a liberarsi (2Cor 12,7): in alcuni momenti si farà sentire di più, in altri di meno, ma sta lì a ricordarti che sei fatto per Qualcuno di più grande.
D’altra parte, questa consapevolezza frena dalla ricerca di “soluzioni” al “problema”. Potrebbe essere interessante, su questa pista, riflettere sulle diverse forme di relazioni alternative all’amore coniugale, monogamo e fedele che trovano sempre maggiore diffusione nel mondo contemporaneo.
La verifica sincera che si dovrebbe fare è se, per questa via, non si cada nella esiziale illusione che la moltiplicazione dell’oggetto del desiderio, la sua sostituzione, o il suo allargamento, possa risolvere l’inguaribilità del desiderio, che è questione di qualità, non di quantità. E se non sia invece – anche in un amore umano vero e grande – il caso di custodire viva ed aperta una certa quota di desiderio, senza tentare di colmarla, come sacramento della nostra nostalgia di Dio.
Ciascuno, naturalmente, troverà i suoi modi e i suoi tempi per questo. Il primato della coscienza resta essenziale anche in questo campo. Non è escluso che, in alcuni tratti del cammino insieme, due persone che si amano autenticamente riconoscano che, in quel momento, al bene di entrambi corrisponda una forma di relazione diversa da quella dell’amore coniugale, monogamo e fedele.
Forse si può leggere una scelta del genere anche nel contesto di quella “legge della gradualità”, di cui parla diffusamente Papa Francesco (soprattutto: Amoris Laetitia, 295), tenendo come meta un amore coniugale, monogamo e fedele, che è possibile pensare corrisponda meglio alla struttura del desiderio individuata da Lacan: in una relazione “allargata” – nei diversi modi in cui può esserlo – può essere più difficile avvertire come autentiche le parole «Tu per me sei insostituibile».
Su questo versante, una coscienza cristiana dovrebbe forse prestare attenzione a due cose in particolare.
La prima, è che in ogni scelta sia sempre e comunque coinvolto il Signore Gesù, facendo un sincero discernimento su quale sia il bene per la coppia che è Lui a suggerire.
La seconda, è che si presti particolare attenzione a giustificare le proprie scelte – come a volte avviene – con pericolose acrobazie teologiche, creando inverosimili paralleli tra le relazioni umani e quelle esistenti in Dio, che – pur nel “salto” dell’Incarnazione, resta per molte cose (e sicuramente nel suo modo d’amare) l’Infinitamente Altro, se non altro per i suoi attributi di perfezione.
A Paolo che chiedeva di essere liberato da quella spina – e che forse mai ne fu liberato –, il Signore rispose: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 9,12). Forse il Signore risponderà lo stesso quando faticheremo a gestire quella quota di desiderio che resta sempre indomabile: «Ti basta la mia grazia», perché in quella nostra fatica accettata per amore si manifesti pienamente che non saremo sazi se non in Lui.
*Luigi Testa è autore di testi a carattere giuridico e scrive su alcuni quotidiani nazionali. “Via crucis di un ragazzo gay” (Castelvecchi, 2024) è il suo primo libro di natura spirituale, altre sue riflessioni sono pubblicate anche su Gionata.org