“Lo Stato contro Fritz Bauer” di Lars Kraume (2015)
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Testo di Luciano Ragusa presentato al cineforum del Guado il 7 Aprile 2019
Il cinema LGBT tedesco. Dopo l’esperienza della repubblica di Weimar (1919 – 1933), bisogna aspettare più di trent’anni per rivedere sui “grandi schermi” tedeschi la rappresentazione di un soggetto LGBT. Come evidenziato nel foglio informativo relativo alla proiezione di Scene di caccia in Bassa Baviera, la ”settima arte” teutonica, dal dopoguerra fino al Manifesto del nuovo cinema tedesco (1962), con tacita connivenza della politica, è più preoccupata di dare un’immagine pulita ed equilibrata di sé, piuttosto che agevolare l’analisi di personaggi scomodi o esplorare nuovi linguaggi espressivi.
Ad ogni modo, l’attesa si conclude nel 1965, anno in cui il regista Volker Schlondorff, propone agli spettatori I turbamenti del giovane Torless, adattamento cinematografico dell’opera prima di Robert Musil pubblicata nel 1906. La pellicola, grazie ad una fotografia volutamente sporca, e alla colonna sonora di Hans Werner Henze, vince a Cannes il premio Fipresci, assegnato dalla federazione internazionale della stampa cinematografica. La trama, ricalca abbastanza fedelmente le vicende del romanzo, ovvero la vita di quattro adolescenti in un collegio prussiano d’inizio novecento ma, il cineasta, è più interessato ai meccanismi di annientamento psicologico di un individuo che alla vita sessuale dei protagonisti (che comunque, nel film, non viene nascosta).
Nel corso della sua carriera Schlondorff si è confrontato con i temi LGBT almeno in un’altra circostanza: nel 1976 con Il colpo di grazia, tratto da un opera di Marguerite Yourcenar pubblicata nel 1939. Qui i protagonisti sono Erich e Conrad, due controrivoluzionari tedeschi avversi al bolscevismo i quali, sebbene i maniera soffusa, sia nel romanzo che nella pellicola, hanno un legame erotico stabile.
Dopo la parentesi di Peter Fleischmann, con il già citato Scene di caccia in Bassa Baviera (1969), sono i registi Rainer Werner Fassbinder e Rosa von Praunheim a rappresentare quasi per intero l’universo gay e lesbico degli anni settanta.
Molto diversi tra loro: Fassbinder, morto nel 1982, è interessato alla creazione del melodramma tedesco; Rosa von Praunheim ancora oggi militante omosessuale in senso classico, rappresentano, ciascuno a proprio modo, uno squarcio ineludibile di realtà LGBT dal quale non è possibile affrancarsi. Nonostante la distanza fra le rispettive visioni, sia di approccio socio-politico alla questione omosessuale, che di sensibilità artistica dietro ad una macchina da presa, nessuno può negare l’impatto potente che questi due registi hanno suscitato.
Per quanto concerne Fassbinder, lungometraggi come Le lacrime amare di Petra von Kant (1972), Il diritto del più forte (1974), Un anno con tredici lune (1978), Querelle (1982), appartengono al DNA cinematografico mondiale, non solo tedesco e di genere GLBT. Ora, ciò che mi interessa sottolineare in questa sede, preservando l’opinione che ognuno di noi ha sviluppato delle sue pellicole, è che il suo cinema diventa, ad ogni visione, un osservatorio impietoso, un palcoscenico privilegiato in cui si inscenano gli incidenti delle relazioni.
Può piacere o meno, ma sono pochissimi i cineasti che nella storia del cinema sono stati capaci come Fassbinder, di descrivere le difficoltà dei rapporti umani, specie se questi sono contrassegnati da legami di forza e di potere che evolvono senza scampo in una spirale di autodistruzione caratterizzata da una totale mancanza di tenerezza.
Rosa von Praunheim (pseudonimo di Holger Mischwitzky), invece, è tra i fondatori del movimento gay nella Repubblica Federale Tedesca: il suo nome d’arte fa riferimento ai triangoli rosa che gli internati omosessuali erano costretti a portare nei campi di concentramento e a un quartiere di Francoforte in cui ha vissuto.
Il suo film più noto, Non è l’omosessuale ad essere perverso ma la situazione in cui vive (1970), ha consentito a molti gay e lesbiche velati di trovare il coraggio di organizzarsi in associazioni, costruendo l’ossatura del movimento “omo” tedesco.
Dal 1970 ad oggi, si è costantemente speso per il riconoscimento dei diritti delle persone LGBT, girando film (tra cui va segnalato Un virus non conosce morale, uscito nel 1986 e dedicato alla diffusione dell’AIDS), documentari e cortometraggi. Ha suscitato notevole scalpore quando, nel dicembre 1991, nel corso di una trasmissione televisiva, indicò come omosessuali alcuni uomini politici, attori, conduttori, scatenando una polemica senza precedenti. Oggi insegna regia presso la Scuola Superiore per Film e Televisione di Potsdam-Babelsberg, ed è sposato con l’attore Oliver Sechting.
Per completare il quadro relativo al decennio 1970/80 segnalo La tenerezza dei lupi (1973) di Ulli Lammel: la storia vera di un serial killer tedesco che, nel periodo della Seconda Guerra Mondiale, stuprava giovani ragazzi, e, dopo averli uccisi, condivideva le loro membra con amici nazisti; Die Konsequenz (1977) di Wolfgang Petersen, in cui una relazione amorosa tra un sedicenne e un carcerato è sottoposta ad ogni forma di violenza da parte delle istituzioni.
Gli anni ottanta e novanta vedono una forte contrazione rispetto al decennio precedente, infatti, le pellicole il cui soggetto è annoverabile nel genere LGBT non sono più di una quindicina.
Tra i film più conosciuti, oltre a quelli di Fassbinder e von Praunheim, ci sono sicuramente Ai Cessi in Tassì di Franck Ripploh (1981), vicenda che orbita attorno all’eterno dilemma tra partner occasionali a profusione e una relazione duratura e fedele di cui lo stesso regista, nel 1987, ripropone con scarso successo un remake dal titolo Taxi mach Kairo; Paso Doble di Lothar Lambert (1983), pellicola in cui la componente maschile di una coppia “etero” in vacanza in Spagna, scopre la propria omosessualità; Westler di Wieland Speck (1985), storia d’amore tra Felix, residente a Berlino Ovest e Thomas che, vivendo a Berlino Est, decide di scavalcare il muro per dare così un ordine definitivo alla propria vicenda amorosa.
Da segnalare infine anche Le Rose di King di Werner Schroeter (1986), una sorta di adolescenziale “Lady Chatterly” gay, e Coming Out di Heiner Carow (1989), in cui Philipp, personaggio che accetta la propria omosessualità dopo un matrimonio con prole, paga per intero le conseguenze di questa scelta.
My Father is coming di Monika Treut (1991) è invece una commedia newyorkese in cui un padre e una figlia tedeschi scoprono quanto la “Grande Mela” possa essere una città in cui i sensi dominano sul resto; Brothers of Sleep di Joseph Vilsmaier (1995), tratto da un successo letterario internazionale pubblicato nel 1992 dallo scrittore austriaco Robert Schneider che descrive l’amore “criminale” di Peter nei confronti di Elias, il cui esito sarà fatale; sempre nel 1995 esce Peccato che sia maschio di Rolf Silber, commedia degli equivoci in cui un commissario di polizia si sveglia, dopo una sbronza, nel letto di un meccanico che traffica in auto rubate; mentre è del 1997 Die Konkurrentin di Dagmar Hirtz, che racconta una storia d’amore nata in ambito lavorativo tra due colleghe, inizialmente affiancate dal loro capo per essere rivali; infine Lola and Billy the Kid (1999, Kutlug Ataman), film dalla trama complessa in cui i protagonisti sono la sottocultura gay turca, e la violenza a cui è costantemente soggetta, anche nella Germania unita.
Dal 2000 in poi, così come capita anche in Italia, i film di genere LGBT crescono a dismisura (ne ho contati più di cento fino al dicembre 2018), per cui, inquadrarli tutti in una piccola scheda come questa è impossibile. Ne suggerisco qualcuno senza la pretesa che siano i migliori: innanzitutto tre nomi, Tor Iben, Angelina Maccarone, Stefan Werterwelle, tre registi che più volte si sono impegnati a rappresentare storie gay, lesbo, trans, partecipando in tutto il mondo ai festival dedicati: Cibrail (Tor Iben, 2010), Alles wird gut (Angelina Maccarone, 2015 ), Lose your head (Stefan Werterwelle, 2013), sono pellicole di discreto successo di critica e di pubblico.
Del 2001 è The Journay to Kafiristan (Fosco e Donatella Rubini, 2001), bellissimo lungometraggio sulla storia d’amore tra la scrittrice svizzera Annemarie Schwarzenbach e l’etnologa Ella Maillart; molto interessante è Initiation (Peter Kern, 2009), con Helmut Berger che interpreta un anziano omosessuale che cerca di proteggere uno skinhead sedicenne, che tanto ricorda il suo compagno negli anni della guerra; da vedere, poi, è Ai confini del paradiso (Fatih Akim, 2007, premio per la migliore sceneggiatura a Cannes), storia sentimentale tra una clandestina turca e una studentessa tedesca; da aggiungere sono Obbligo di famiglia (Hanno Olderdissen, 2015), in cui i protagonisti sono una coppia arabo-ebraica che deve imparare a gestire le rispettive famiglie e Westerland (Tim Staffel, 2012), dove un impiegato di nome Cem, salva la vita al difficile Jesus, con cui inizierà una storia sentimentale.
Del 2017 è Ein Wag (Chris Miera), pellicola che analizza la fine di una lunga storia di coppia con figlio; Center of my world (Jacob Erwa, 2016), ambientato in una scuola superiore in cui due ragazzi imparano ad amarsi; Frauensee (Zoltan Paul, 2012), in cui due coppie lesbiche sperimentano la rottura delle rispettive relazioni, e Das zimmermadchen Lynn (Ingo Haeb, 2014), storia di una cameriera d’albergo solita spiare le coppie che alloggiano nelle stanze, fino a quando una “dominatrice”, non cattura la sua attenzione e il suo affetto.
Lo Stato contro Fritz Bauer
Tratto da una storia vera, le cui modalità sono emerse, per sua volontà, solo dieci anni dopo la morte, nel 1978, del procuratore Bauer. La pellicola ha vinto, nel 2015, tantissimi premi cinematografici in ambito tedesco, il più importante dei quali, al Festival del cinema di Locarno.
Il film, diretto da Lars Kraume, ha un’impostazione tecnica piuttosto classica, probabilmente scelta per privilegiare il piano storico della narrazione, senza però risultare lento agli occhi dello spettatore. Nello stesso anno in cui esce Lo stato contro Fritz Bauer, viene proposto nelle sale Il labirinto del silenzio (diretto da Giulio Ricciarelli, attore e regista italiano molto apprezzato in Germania), lungometraggio incentrato anch’esso sulla figura del procuratore generale Bauer, nel quale però, non si ricostruisce l’affaire Adolf Eichmann, bensì la vicenda del “processo di Francoforte” tenutosi tra 1963 e il 1965, dove sul banco degli imputati erano finiti 22 criminali nazisti, tutti legati al campo di concentramento di Auschwitz.
Probabilmente, alla maggior parte degli italiani, la figura di Bauer non dice molto, mentre invece è di notevole interesse: fu il più giovane laureato in legge della Germania e, da socialdemocratico, aderì alla repubblica di Weimar fino all’avvento del nazismo, periodo nel quale, lavorò come giudice in un tribunale locale.
Catturato e imprigionato dai nazionalsocialisti, abiurò le proprie idee per poter andare in esilio in Danimarca, gesto che probabilmente gli salvò la vita, in quanto, oltre ad essere del partito sbagliato, era anche omosessuale ed ebreo.
Sopravvissuto alla guerra e tornato in Germania, diventa procuratore capo a Francoforte grazie all’appoggio del presidente dell’Assia, e qui inizia a vivere le storie che vengono poi raccontate nei due film che il cinema tedesco gli ha dedicato.
Trama
Fritz Bauer, procuratore generale che si occupa di assicurare alla giustizia criminali nazisti, scopre che Adolf Eichmann, responsabile della deportazione di milioni di ebrei, potrebbe nascondersi in Argentina. I suo tentativi di scoprire l’identità dell’ufficiale delle SS si scontrano però con una nazione, la Germania dove la rappresentanza nazionalsocialista ancora presente nell’establishment, blocca, depista e altera i dossier di Bauer arrivando al punto di minacciarlo se non rinuncia al suo progetto di fare giustizia.
Ebreo anch’esso, nonché omosessuale noto alle forze dell’ordine, il procuratore generale è costretto a tradire la propria nazione e a rivolgersi al Mossad, il servizio segreto israeliano, commettendo alto tradimento. Ma quello che lo guida non è il desiderio di vendetta, ma un alto senso di giustizia e una sincera preoccupazione per il futuro del proprio paese, che protegge i responsabili di stragi, e ancora inchioda al “Paragrafo 175” le persone omosessuali.
Scheda
Regia: Lars Kraume.
Sceneggiatura: Lars Kraume, Oliver Gues.
Fotografia: Jens Harant.
Montaggio: Barbara Gies.
Musiche: Christoph Kaiser, Julian Maas.
Scenografia: Cora Pratz, Jutta Freyer.
Produttore: Thomas Kufus.
Casa di Produzione: Zero One Film, Terz Film, Westdeutscher Rundfunk, Hessicher Rundfunk.
Produttore esecutivo: Melanine Burke.
Interpreti principali: Burghart Klaussner nel ruolo di Fritz Bauer; Ronald Zehrfeld nel ruolo di Karl Angermann; Lilith Stangenberg nei panni di Victoria; Jorg Shuttauf interpreta Paul Gebhardt; Sebastian Blomberg nelle vesti di Ulrich Kreidler.
Genere: drammatico; anno: 2015.
Durata: 100 minuti.