Dio dove sei? La mia vita in transizione
Testimonianza di Rosita raccolta da Erika Capobianco*
Sono stanca, davvero troppo stanca per uscire stasera. Soprattutto le gambe, mi fanno male, sono pesanti come il piombo. Mi stramaledico per ciò che ho fatto al mio corpo. Perché l’ho fatto? Era necessario? Voglio dormire, dormire e non pensare.
In famiglia eravamo in sette, cinque figli e i genitori. Abitavamo in uno di quei quartieri periferici senza storia dove le case (in verità baracche) erano addossate le une alle altre senza progetto e senza logica, se non quella del risparmio di materiale.
La miseria aleggiava su tutto insieme ad un tanfo al quale però eravamo abituati. Delinquenza, prostituzione e degrado la facevano da padroni ma la gente lì non conosceva altro quindi quella era la normalità. Eppure in ogni casa c’erano immaginette di santi, madonne e papi. Una devozione ingenua e quasi commovente. A chi rivolgersi se non all’Altissimo e ai suoi eredi quando si vive nella disperazione e nessun ente o istituzione ti ascolta?
Quando pioveva per settimane i vicoli diventavano fango, ma dinnanzi agli usci le lussureggianti piante tropicali prosperavano rigogliose nei catini arrugginiti. Unica nota di bellezza.
Io ero carino, un bel bambino con la pelle d’ambra e i capelli neri. Belli erano anche i miei due fratelli e le mie sorelline. Eravamo fiori nati in discarica. Una discarica umana. Della mia grazia un po’ effeminata se ne accorsero in molti, e alcuni ne approfittarono senza che io mi difendessi. E come avrei potuto?
A chi avrei potuto raccontare quelle cose?
Mia madre era sempre affannata a mettere insieme il pranzo con la cena. Mio padre sicuramente mi avrebbe picchiato (lo faceva già) accusandomi di essere io il colpevole coi miei modi da femminuccia. Finii col pensare fosse una pratica normale, tanto in quel posto dimenticato da Dio la normalità (come ho già detto), era diversa che altrove.
C’erano due monache che periodicamente venivano nel quartiere a portare un po’ d’aiuto più che altro sanitario. Avevano il volto buono ma un’aura che le faceva sembrare lontane e mai e poi mai sarei riuscito a confidarmi con loro.
Andavo a volte ad ascoltare il loro catechismo di nascosto da papà che lo considerava tempo perso, ma quelle parole belle e sconosciute erano per la mia piccola anima un balsamo dolce. Da grande voglio fare la suora, pensavo, e già mi vedevo con il lungo abito bianco insieme alle mie consorelle. Se allora avessi saputo cosa sarebbe stata invece la mia vita… Altro che suora. Ognuno ha il suo destino? Il destino ce lo dobbiamo costruire? Sono confusa. Dio non mi ha ascoltato.
Sono le undici. Ho dormito poco e male. Devo assolutamente alzarmi. Preparo un po’ di riso e fagioli per pranzo poi torno a letto. Devo riposare che stasera, cascasse il mondo, devo uscire.
Le tre di notte. Qui sulla litoranea c’è una umidità pazzesca. La odio questa umidità che mi sciupa la messa in piega che ho impiegato tanto tempo a fare con la spazzola. E poi è una tortura per la mia artrosi
Mi guardo riflessa nel finestrino di una macchina parcheggiata. Mi trovo brutta. Brutta e patetica. Sola in questa strada che ormai è deserta. Vorrei tornare a casa ma non posso, ho guadagnato pochissimo. C’è l’affitto da pagare e il padrone non sente storie. E poi ci sono le bollette, i farmaci e il frigo è quasi vuoto. Mi appoggio al lampione. Devo resistere il più possibile.
A diciotto anni andai a vivere in città ospite da alcuni amici. Facevo il cameriere in un albergo per pochi soldi e in nero. Quando potevo uscivo coi nuovi amici. La mia vita era migliorata rispetto a prima, ma mi portavo dentro una insoddisfazione e una inquietudine alle quali non sapevo dare un nome.
Un amico mi invitò ad una piccola festa che avrebbe organizzato a casa sua. Ero piuttosto timido e mi sentivo sempre fuori posto ovunque, comunque andai.
Tra i pochi ospiti c’era una donna bellissima, elegante e brillante. Il padrone di casa mi spiegò che aveva fatto un percorso di transizione e si era trasferita in Europa dove era diventata ricca. Lo spesso velo mi cadde dagli occhi e nell’anima e mi palesò chiaramente la ragione del mio malessere. Anch’io desideravo da sempre essere come lei e in fondo lo avevo sempre saputo. Superando la mia timidezza iniziai a parlare con la fascinosa signora tempestandola di domande.
«Lasciami godere la serata in allegria ti prego, se vuoi ci vediamo con calma nei prossimi giorni, resto qui per qualche tempo», mi disse un po’ seccata. Passai la serata ad osservarla e a chiedermi come fosse possibile…come? La notte seguente non chiusi occhio e mi presentai a lavoro che ero uno straccio.
Dopo qualche giorno la bella signora si fece viva e mi invitò a casa sua. Arrivai in anticipo e passeggiai nervoso in attesa dell’incontro. Quell’incontro che cambiò la mia vita.
Linda mi accolse con una bellissima vestaglia rosa bordata di marabù, ai piedi le ciabattine col tacco coordinate, notai subito che le stavano piccole. Aveva grandi mani e grandi piedi. L’appartamento era grande, arredato con mobili costosi e tanti ninnoli. A me sembrò la dimora di una diva, una di quelle che avevo visto in TV e soprattutto nelle telenovela. «Questa casa è di proprietà», disse, «l’ho acquistata qualche anno fa ma ci vengo poco, vivo a Barcellona io». Pensai alla squallida stanza in subaffitto in cui alloggiavo io e alla casupola in cui ero nato.
Chiacchierammo a lungo, soprattutto lei, io non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso e cercai di mostrarmi più gentile possibile. Mi disse che potevo andare a trovarla quando volevo, che le faceva piacere avere compagnia. «Puoi venire anche di notte, tanto io non dormo la notte, mi addormento all’alba, sono abituata così». Non me lo feci ripetere e, praticamente ogni giorno, dopo il lavoro correvo da lei che pian piano diventava la mia amica, la mia maestra, la mia speranza.
Ormai Linda conosceva la mia ispirazione, sapeva che sarei voluta diventare come lei. Mi scrutava, mi diceva che in fondo avevo il fisico e i lineamenti adatti per trasformarmi in una bella ragazza. Certo bisognava lavorarci a suon di cure ormonali e bisturi. Iniziò a farmi indossare i suoi abiti e io allo specchio vedevo già qualcosa che mi piaceva. Traballavo sui suoi tacchi ai quali non ero abituata ma soprattutto per l’emozione. Mi battezzò infine con un piccolo rito. Ora mi chiamavo Rosita. Non mi piaceva molto quel nome, ma non osai contraddirla.
La situazione ormai è insostenibile, non riesco più a guadagnare abbastanza per vivere, non sono più giovane e attraente e la concorrenza è agguerrita. La strada è diventata più pesante del solito e più umiliante. La mia salute peggiora. Il padrone di casa non vuol sentire ragioni, devo lasciare la casa al più presto. Dove andrò? Che ne sarà di me? Sono ormai uno scarto. Lo scarto dell’umanità alla quale non ho diritto di appartenere. Spero che almeno Dio non mi abbandoni.
Quando Linda tornò in Europa io partii con lei. Barcellona è vivace e la casa di Linda sembrava una bomboniere bianca e rosa. Iniziai le cure ormonali, la mia maestra mi prestò i soldi per i ritocchi estetici.
Dopo un anno ero finalmente una creatura bellissima, quasi più di lei. Allo specchio non mi riconoscevo, ero diventata una donna maggiorata. In verità io avrei voluto un seno più piccolo e non credevo necessario avere i fianchi ad anfora. Ma Linda mi persuase dicendomi che agli uomini piacevano le curve generose.
In effetti quando iniziai a lavorare sul marciapiede ero gettonatissima e iniziai a guadagnare davvero tanti soldi. Presi un appartamento tutto mio e la mia vita mi sembrava soddisfacente. Iniziai a mandare denaro a mia madre. Le avevo raccontato di aver trovato un buon lavoro ma non so se mi avesse creduta.
Ovviamente nel mio paese non pensavo di tornare più. Tornai invece per il suo funerale e mio padre, dopo avermi guardato con disprezzo, sputò a terra e mi disse di non farmi vedere mai più. In effetti non l’ho mai più visto e non ne sento la mancanza. A volte invece piango al ricordo della mia mamma.
Anni dopo approdai in Italia e mi innamorai follemente di un ragazzo. Ci vedevamo regolarmente, ma sempre a casa mia. Era chiaro che si vergognava di farsi vedere in pubblico con me. Ma non mi importava, io lo amavo lo stesso e tra le sue braccia mi sentivo appagata.
Antonio iniziò ad usare droghe ed io con lui. Praticamente lavoravo solo per pagare il vizio ad entrambi e lui si infuriava se qualche volta non portavo a casa abbastanza soldi o se non me la sentivo di uscire. Non era più il mio amore ma il mio aguzzino.
Riuscii a liberarmi di lui cambiando città ma non mi liberai della dipendenza. La nuova città nel nord Italia in cui ero approdata era fredda e ostile. Frequentavo solo clienti e compagne di sventura. Gli sguardi malevoli della gente erano stilettate, il disprezzo e l’emarginazione mi portarono lentamente all’isolamento. Non uscivo mai di giorno, piuttosto pagavo qualcuno per le faccende più banali tipo fare la spesa o pagare una bolletta.
I pusher mi portavano la droga a domicilio ed io uscivo solo la notte (nelle tenebre ero a mio agio) o ricevevo i clienti in casa. Senza rendermene conto scivolai nell’abisso. Mio padre aveva ragione: ero un essere maledetto.
È quasi Natale. Ho lasciato il mio piccolo appartamento. Ora vivo insieme ad alcune amiche in un posto di fortuna vicino la pineta. A volte mi sembra di essere tornata nella baraccopoli in cui sono nata. Questo posto è umido, malsano, io sono stata ricoverata in ospedale dove mi hanno diagnosticato numerosi problemi di salute. Soprattutto ho sempre male alle gambe, le caviglie sono così gonfie che non riesco ad infilarmi le scarpe. Colpa del silicone che dai fianchi e dai glutei è migrato verso il basso. Anche il mio viso, prima armonioso, si è deformato per la stessa ragione. Da Cenerentola a principessa, da principessa a rospo.
Fortunatamente le altre derelitte che vivono qui vicino nelle mie stesse condizioni mi danno una mano.
Alcune riescono ancora a racimolare qualcosa sul marciapiede e non mi hanno abbandonata totalmente alla miseria. Io mi sdebito come posso, magari con qualche faccenda domestica. Della mia famiglia non ho più notizie.
Mia sorella si era trasferita in Italia e io insistetti per incontrarla. Feci un lungo viaggio per raggiungerla nella città del sud dove si è sposata e lavora. Mi diede appuntamento in un bar di periferia. Ci abbracciamo in lacrime (non ci vedevamo da tanti anni) ma il suo imbarazzo era palese, non faceva che guardarsi attorno per verificare le reazioni degli astanti.
Non mi invitò a casa sua, io ne compresi la ragione e non gliene volli, abituata com’ero ad essere considerata “impresentabile”. Eppure mi ero tanto impegnata ad adottare un look sobrio da signora perbene. I capelli raccolti, un filo di trucco, scarpe basse e vestito beige sotto il ginocchio. Ma tutto questo non basta a cancellare il marchio.
Presi l’abitudine di andare alla messa pomeridiana nella chiesa più vicina. Li mi sentivo in pace. Non prendevo mai la comunione perché credevo di non esserne degna. Ma quella penombra, i canti dei pochi fedeli, le letture del prete mi davano sollievo. Come una doccia calda dopo una nottata al gelo.
Cristo sulla croce troneggiava, lui aveva sofferto più di me e mi poteva comprendere senza condannarmi. Tante volte mi misi in fila per la confessione ma poi tornavo a sedere. Avevo troppa vergogna.
Una sera uscendo dalla chiesa una signora anziana mi fermò: «Salve signora, la vedo spesso qui alla funzione serale, io mi chiamo Ada». «Piacere signora, si mi piace venire in chiesa», nel solito tentativo di addolcire la mia voce mi uscì dalla gola un suono stridulo.
«Fa freddo stasera, vuoi venire a prendere un tè caldo da me?», disse la anziana signora. Accettai anche se mi parve strano, non ero abituata a certe gentilezze. Camminando verso casa sua mi chiedevo cosa volesse quella donna da me e perché invitasse una perfetta estranea a casa sua. «Signora io non sono una vera donna» dissi appena entrata. Non so perché lo dissi. «Lo so cara, non importa, accomodati in salotto mentre preparo il tè».
Ada si muoveva piano ed aveva una certa grazia nel portamento, era alta e filiforme. Osservandola mi trovai a fare una riflessione: perché ho creduto che fosse necessario avere grandi tette e grandi fianchi per essere donna? La femminilità non è di certo quella.
Vidi nuovamente Ada in chiesa e frequentemente andavo a trovarla. Sembrava ne fosse contenta.
È passato quasi un anno. Dopo qualche mese di frequentazione Ada mi fece una proposta inaspettata: «Perché non ti trasferisci qui da me?», mi chiese. «La casa è grande, io ci vivo sola e mi potresti dare una mano, non sono più tanto giovane e la solitudine inizia a pesarmi».
Con lei mi trovo bene, la casa è confortevole e anche a me fa bene stare in sua compagnia. Andiamo insieme a fare la spesa, il pomeriggio a messa (se non fa troppo freddo). Io cucino per entrambe (lei detesta cucinare mentre a me piace), le preparo spesso piatti tipici del mio paese per i quali lei va matta.
A sera Ada mi legge brani di libri, anche il mio italiano è molto migliorato. E così la mia salute. Faccio spesso visita alle mie amiche e coi soldini che Ada mi da regolarmente (ha tanto insistito) cerco di non far mancare loro il necessario.
Ada mi ha portata da un notaio, ha deciso di lasciare la casa a me in eredità. In verità non so chi di noi due se ne andrà prima, visto che le mie condizioni di salute non sono delle migliori, ma questo gesto mi ha commosso e mi ha fatto nuovamente credere nell’umanità e anche nella benevolenza di Dio.
Si, credo sia stato Lui a far incrociare la mia strada dissestata con quella di Ada.
*Testimonianza raccolta grazie a don Andrea Conocchia nell’ambito del progetto “Nati due volte”, con cui i volontari di Gionata.org vogliono raccontare i cammini di fede che percorrono le persone transgender, nonostante le comunità cristiane spesso siano una fonte di esclusione, per creare un ponte di conoscenza tra questi due mondi. Ringraziamo per il supporto Speranza, la rete on line dei cristiani transgender. Per contattarla scrivere a tendadigionata@gmail.com