Diventare Jivaka. La mia mancata transizione spirituale in Tibet
Articolo di Pagan Kennedy pubblicato sul sito del trimestrale buddhista Tricycle: the Buddhist Review (Stati Uniti) nell’estate del 2007, liberamente tradotto da Silvia Lanzi, parte seconda
Un sabato mattina, il rinpoche mostrò la lettera a Dillon, spiegandogli, grazie al traduttore, che l’ordinazione era annullata perché era riluttante ad offendere Sangharakshita (ndr Perchè era un uomo trans). Le speranze di Dillon furono di nuovo frustrate. Ma non tutto era perduto. Dillon era stato fortunato ed aveva stretto amicizia con il noto professore tedesco Herbert V. Guenther, allora residente nella vicina Sanskrit University a Varanasi, ed esperto in tradizioni tibetane.
In un soffocante giorno di novembre del 1959, Dillon arrivò nell’ufficio di Guenther per pranzo. Quel pomeriggio, il professore gli raccontò la storia di un a monastero mitico chiamato Rizong. Era a Ladakh, un piccolo regno himalayano sul confine con il Tibet. Tra quelle montagne altissime, in un luogo quasi impossibile da raggiungere, i monaci di Rizong praticavano il buddhismo tibetano nella sua forma più pura, aderendo rigidamente a regole stabilite secoli prima.
Guenther non era mai stato in questo monastero; in quel periodo, sarebbe sembrata una meta impossibile. L’India, sull’orlo della guerra con la Cina, controllava Ladakh e teneva i confini ermeticamente sigillati da tutti gli stranieri sospetti. Sicuramente, un furfante inglese con un oscuro passato non avrebbe mai potuto entrare a Ladakh.
Guenther comunque parlò di Rizong come una leggenda, una visione del buddhismo monastico portata all’estremo. Dillon accettò la storia come gli veniva presentata: Rizong, come lo stesso Tibet, sembrava più un’idea che un luogo reale.
Continuava comunque a cercare qualcuno che lo ordinasse, un modo per appartenere ad una comunità tibetana. Qualche mese più tardi, Dillon riuscì a negoziare un incontro con Kushok Bakula, un principe della famiglia reale di Ladakh. Dillon gli disse dei suoi voti, e gli chiese come un uomo del “terzo sesso” avrebbe potuto diventare monaco. Come Dillon scrisse più tardi nella sua autobiografia, Kushok Bakula “mi guardò con una compassione che non dimenticherò mai”.
Il principe lo rassicurò che un giorno avrebbe potuto essere ordinato. Ma finché la controversia non fosse stata risolta, Dillon, nella tradizione tibetana, avrebbe potuto solo essere ammesso ai voti come novizio. (Anche se esisteva una proibizione riguardo ai monaci appartenenti al “terzo sesso”, tale proibizione non esisteva per i novizi.) Dillon avrebbe potuto entrare in un monastero di Ladakh, ma solo se ne avesse occupato il rango più basso, pari a quello di un bambino di dieci anni.
Kushok Bakula scelse il monastero in cui Dillon sarebbe stato mandato: per caso, fu Rizong. Nella primavera del 1960 Dillon vi arrivò senza un soldo, e senza nemmeno un paio di scarpe decenti. Sarebbe stato per tre mesi in quei luoghi cadenti, nel paesaggio lunare della vetta di una montagna himalayana, fino alla scadenza del suo permesso di viaggio.
Dillon insisteva che avrebbero dovuto trattarlo come avrebbero fatto con un altro novizio che fosse arrivato al monastero, senza concessioni per la sua pelle bianca o la sua età ormai matura. Avrebbe fatto esattamente le stesse cose degli altri ragazzi: cucinare e pulire tutto il giorno la cucina sporca. La gente che viveva lì si svegliava prima dell’alba e lavorava fino al crepuscolo, ma la loro giornata era costellata di scherzi, simpatiche punzecchiature e risate. Bighellonavano buttandosi vicendevolmente nel contenitore della legna da ardere: “Nessuno se ne aveva a male, o ledeva la dignità altrui”, scrisse più tardi Dillon della sua esperienza a Rizong.
Una volta stese le braccia per stare in equilibrio su quello che pensava fosse un muro: si rivelò essere il pezzo di di un fragile rivestimento di legno. Con uno scivolone in stile Charlie Chaplin, si piegò vertiginosamente, e il muro con lui. Per un momento l’affollata cucina diventò una scena comica, e Dillon e il muro si schiantarono a terra.
Ci fu una “grande allegria a mie spese. Ma le risate erano così spontanee e bonarie che non provai imbarazzo, anzi, mi unii a loro. In quel periodo facevo sempre qualcosa che divertiva i miei compagni”. Per la prima volta in vita sua, poteva ridere di se stesso. Qualcosa in lui si era allentato, la gioia si era aperta una via.
Il vecchio Michael Dillon si era sciolto, e un uomo nuovo, il novizio inglese, la pelle bianca ora grigia di fuliggine, aveva preso il suo posto. La più grande sorpresa di tutte era questa: affamato, oberato di lavoro e sporco, Dillon era finalmente incappato in una sorta di fragile felicità.
I tre mesi volarono. Dillon decise che Rizong era la sua vera casa, e non voleva altro che stare lì. Ma alla scadenza del suo permesso di soggiorno, avrebbe dovuto andarsene o affrontare la prigione. Se il cessate il fuoco tra India e Cina fosse durato tutta la primavera, Dillon sperava di tornare a Ladakh.
Immaginava un futuro nel quale sarebbe appartenuto a questo labirinto di piccole porte e corridoi, con le finestre bucate che ammiccavano a vedute di montagne blu, e a questi uomini e ragazzi che era arrivato ad amare. Ed era eccitato dalla promessa che l’abate di Rizong, Kyabje Rizong Rinpoche, gli aveva fatto: al suo ritorno Dillon avrebbe preso i voti come monaco e sarebbe diventato, a pieno titolo, un membro della comunità.
Per ora, comunque, tutto quello che poteva fare era aspettare a Sarnath. Lì riprese la sua vecchia vita: dormiva nella foresteria, meditava al mattino, e passava il resto della giornata alla macchina da scrivere prestatagli da un amico. Per sopravvivere, Dillon dipendeva dalle magre entrate derivanti dai suoi scritti.
Presto avrebbe fatto il suo debutto letterario in Inghilterra con il nome di Lobzang Jivaka, pubblicando una versione condensata ed adattata della traduzione di W. Y. Evans-Wentz della Vita di Milarepa, la storia del famoso santo tibetano. Era combattuto riguardo al libro: aveva un disperato bisogno di soldi, ma temeva che qualcuno, in Inghilterra, l’avrebbe potuto collegare a quel Michael Dillon che era recentemente scomparso.
“Non voglio che il mio nome occidentale sia riconosciuto. Sono erede di un titolo, e non desidero pubblicità. Solo sei persone sanno cosa sto facendo”, scrisse a Simon Young, il suo editore della John Murray Publishers, a cui rifiutò anche di rivelare il suo nome legale. A lavoro finito, abbozzò in poche settimane i primi capitoli di un altro libro, che raccontava le sue avventure a Rizong.
Intitolato Imji Getsul (Il novizio inglese), si trattava più che altro di una storia d’amore, un inno ad una casa che aveva trovato e perso. Mandò i tre capitoli al suo agente di Londra, e Routledge si buttò a pesce sulla storia scritta dal misterioso Lobzang Jivaka.
Dillon scrisse il resto di Imji Getsul negli ultimi mesi del 1960, mentre viveva a Sarnath; per nascondere la propria identità, dovette lavorare di fantasia quando descrisse la sua “gioventù” e la sua esperienza come “studente di Oxford”. A Dillon dispiaceva terribilmente mentire, ma sentiva di non avere altra scelta.
Quella primavera organizzò un viaggio nel Kashmir per visitare Kushok Bakula, il principe che l’aveva aiutato. Dillon sperava di ottenere un lasciapassare per tornare a Rizong, ma gli ufficiali indiani respinsero la sua richiesta. C’era una guerra in corso a Ladakh, e i viaggiatori occidentali non erano i benvenuti.
La primavera seguente, nelle librerie inglesi fecero la loro apparizione Vita di Milarepa e Imji Getsul, e Dillon si aspettava guai. Sicuramente, alcuni lettori si sarebbero chiesti chi si celasse dietro l’identità segreta di Lobzang Jivaka, e avrebbero indagato. Decise di non poter stare più a lungo con le mani in mano aspettando che la stampa lo stanasse, non voleva più mentire sul proprio passato nascondendo il suo segreto. Voleva chiarire tutto, non importa quanto gli sarebbe costato.
Il primo maggio 1962, il giorno del suo quarantasettesimo compleanno, a Sarnath Dillon si concentrò sulla macchina da scrivere. Aveva deciso di finire il manoscritto autobiografico che aveva iniziato anni prima. Il manoscritto raccontava la storia di Laura Dillon, il suo disgusto per gli abiti femminili, il desiderio crescente di essere un uomo, il testosterone che modellava il suo corpo e le infinite operazioni per poter avere un pene.
Sulla copertina batté a macchina “di Michael Dillon”, fece scorrere il tamburo e sotto aggiunse “Lobzang Jivaka”. Avrebbe voluto scrivere con entrambi i nomi. Ora nessuno avrebbe potuto fargli paura. Nessun giornale scandalistico avrebbe fatto lo scoop. Lui stesso si era tolto la maschera. Quando fosse uscito il libro, il suo autore sarebbe stato una persona che apparteneva ad una disprezzata minoranza. Ma avrebbe anche vissuto autenticamente, in modo più libero di quanto avesse mai osato prima. Imbustò le pagine e le mandò al suo agente di Londra.
Giorni dopo, Dillon andò in Kashmir e tentò ancora di raggiungere Ladakh, ma non ci riuscì mai: durante la sosta in un ostello, soccombette alla malattia. Sembrava che nessuno fosse in grado di dire quale tipo di morbo ne avesse causato la morte. Secondo Sangharakshita, circolava la voce che Dillon fosse stato avvelenato, ma di questo non c’è prova. I dettagli della sua morte rimangono una questione aperta.
Il corpo di Dillon venne cremato, e le sue ceneri disperse sull’Himalaya. Anche la sua autobiografia rischiò di essere bruciata: dopo la sua morte, il fratello chiese di entrare in possesso del manoscritto, che voleva gettare nel camino, ma l’agente letterario di Dillon respinse le richieste degli avvocati, arroccandosi ai suoi diritti di editore.
Fino ad ora, è rimasta in deposito presso di lui. Così Michael Dillon non ha mai avuto l’opportunità di rivelarsi, tranne, ovviamente, in quelle pagine traslucide piene di frasi scritte su una macchina da scrivere presa in prestito.
Nota della redazione: l’autobiografia di Michael Dillon/Lobzang Jivaka è stata pubblicata postuma nel 2017 con il titolo di Out of the Ordinary: A Life of Gender and Spiritual Transitions.
Testo originale: Becoming Jivaka