Diventare Jivaka. Le due transizioni di Michael Dillon
Articolo di Pagan Kennedy pubblicato sul sito del trimestrale buddhista Tricycle: the Buddhist Review (Stati Uniti) nell’estate del 2007, liberamente tradotto da Silvia Lanzi, parte prima
Nell’estate del 1958, Michael Dillon inciampò su un sentiero di montagna a Kalimpong, in India, ansimando nell’aria rarefatta. Era un gentiluomo inglese in rovina, con una barba trasandata e, nella tasca della sua giacca sgualcita, una pipa. Si guardava spesso alle spalle, come se qualcuno lo inseguisse.
Dillon era diretto a un monastero gestito da un inglese. Pensava sarebbe stato il tipo di posto dove avrebbe potuto diventare invisibile. Nascosti in cima ad una montagna sulle pendici himalayane, si può perdere la propria identità e iniziare una nuova vita.
Finalmente Dillon arrivò ad una curva e intravide un dormitorio arroccato sul fianco di una collina. Un uomo bianco con una veste gialla se ne stava in piedi nel portico dell’edificio; basso, con la testa rasata, e grandi occhiali con la montatura di corno, sembrava un gufo.
L’uomo lo salutò, e invitò Dillon ad entrare. Parlando con l’accento di un operaio londinese, si presentò come Sangharakshita. Nato Dennis Lingwood, abbandonò il suo nome quando fu ordinato monaco theravada. (Sangharakshita trovò una comunità inglese chiamata Friends of the Western Buddhist Order [Amici dell’Ordine buddhista occidentale], che ora ha centri in più di una dozzina di Paesi in tutto il mondo.)
Per spiegare la sua situazione, Dillon si mise una mano in tasca, tirò fuori un ritaglio di giornale e lo porse a quello strano piccoletto vestito di giallo. Il monaco sbirciò attraverso i suoi spessi occhiali. Era una rubrica di pettegolezzi riguardante una donna, Laura Dillon, che aveva cambiato sesso. Si era trasformata, chirurgicamente e legalmente, in un uomo, ed ora viveva come un dottore di nome Michael Dillon. Come maschio, Dillon avrebbe ereditato una proprietà immobiliare e un titolo: un giorno sarebbe diventato il nono baronetto di Lismullen.
Sangharakshita gli restituì il giornale, e i due si scambiarono una lunga e significativa occhiata. Quella era una bomba. Cinque anni prima, il cambio di sesso di Christine Jorgensen era diventata la notizia più discussa in America; quando Jorgensen apparì in televisione con riccioli biondi e un abito su misura, il pubblico capì che la metamorfosi da uomo a donna era possibile.
Ma poche persone, compresi i più rinomati dottori, sapevano che il corpo umano poteva fare anche il percorso contrario. Dillon era stato la prima persona in assoluto a sottoporsi ad una transizione medica da donna a uomo. Sarebbe stata una storia scandalistica di livello mondiale se i giornalisti fossero riusciti a trovarlo.
Poche settimane prima avevano avvistato Dillon a Baltimora, dove lavorava come dottore di bordo. Era stato assediato da un branco di “fiuta-notizie” con i loro block notes e i loro flash, lo avevano stordito di domande e minacciato di strappargli di dosso i vestiti per avere la prova del cambiamento di sesso. Così Dillon era fuggito in India, il luogo più sperduto che aveva trovato.
Al monastero, nei giorni seguenti, Dillon rivelò molto altro al suo ospite, confidandogli alcuni dei suoi segreti più intimi. Secondo una recente e-mail di Sangharakshita, ora ottantenne, Dillon gli disse di avere “un pene artificiale, fatto con pelle presa da diverse parti del corpo. Ne era molto orgoglioso, e si offrì di mostrarmelo, ma io declinai… Mi disse anche di prendere ormoni in pastiglie per favorire la crescita della barba e bloccare le mestruazioni”.
Nei suoi scritti degli anni ’50 e ’60, Dillon sostiene che Sangharakshita gli promise di non divulgare a nessuno queste sue confidenze: “Avevo fiducia in lui, perché era un inglese e un monaco, come me”.
Sangharakshita, da parte sua, ribadisce di non aver mai fatto una promessa del genere: dopo tutto, non era un sacerdote cattolico, obbligato ad ascoltare le confessioni sotto il sigillo della segretezza; non aveva alcun obbligo professionale di proteggere Dillon. Fin dall’inizio, i due uomini si fraintesero completamente.
Nella sua prima notte al monastero, Dillon tirò fuori la sua pipa e stette in veranda. Invece di accenderla, la scagliò nel buio, dove cadde nell’abisso della valle. Nei giorni seguenti, si liberò anche del suo nome, il “Michael” che si era scelto per sé, e il “Dillon” che lo legava a generazioni di antenati. Chiese a Sangharakshita di dargli un nuovo nome, non tanto per ragioni spirituali, quanto per ragioni pratiche. Aveva bisogno di perdere la propria identità inglese. Così Dillon diventò “Jivaka”, nome ispirato dal medico che aveva curato il Buddha.
Settimane, o mesi, più tardi, per completare la sua procedura di “sparizione”, Dillon si tagliò la barba. Aveva rimosso anche l’ultimo indizio che, nel ritaglio di giornale, l’aveva segnato come quello che aveva “cambiato sesso”. Nel farlo, si era strappato di dosso tutti gli “oggetti di scena” che aveva adottato negli anni precedenti per aiutarsi a creare la sua identità maschile: la pipa, la barba, il “Michael”.
Jivaka sarebbe stato tutto un altro tipo di persona. Dillon era un uomo in esilio, disperava di trovare qualcuno o qualcosa su cui costruire la sua nuova vita. Per ora aveva Sangharakshita, che lo coinvolgeva nei suoi rituali mattutini, gli mostrava come meditare e gli faceva fare le faccende domestiche.
Sangharakshita, proprio in quel momento, stava scrivendo un libro, un memoriale che spiegava come, da bambino povero di Londra, fosse finito a guidare un monastero in India. Dillon diventò il suo segretario. Anche se aveva due lauree, in teologia e in medicina, conseguite rispettivamente a Oxford e al Trinity, Dillon fece questo umile lavoro senza lamentarsi. Era impaziente di compiacere il suo nuovo insegnante, e iniziò a riferirsi a Sangharakshita come al suo guru.
Durante questi lunghi e lenti pomeriggi a Kalimpong, mentre scriveva pedissequamente bozze per il monaco, Dillon ebbe un’idea: decise di scrivere la propria autobiografia. Attraverso il suo manoscritto lottava per dare un senso a tutto ciò che gli era successo, confessando tutti i suoi più intimi segreti, che aveva protetto andandosene in India.
Giorno dopo giorno, la pila di delicate pagine di carta velina aumentò; in esse, Dillon era in grado di reinventarsi e di immaginare di nuovo la vita da cui era fuggito; mise un’attenzione speciale nella descrizione della sua infanzia di ragazza aristocratica cresciuta in una città di mare.
Quando Dillon smetteva di scrivere, rimaneva una specie di bambino. Sangharakshita si aspettava che obbedisse agli ordini, mangiasse tutto quello che gli si metteva davanti, e dormisse dove gli lasciava il giaciglio. Presto, tra i due uomini nacque una relazione intima e strana. Dillon iniziò a chiamare il suo guru “Babbo”, un vezzeggiativo che, apparentemente, Sangharakshita tollerava: “Non mi piaceva particolarmente, specialmente perché aveva dieci anni più di me”.
Dopo qualche mese, Sangharakshita annunciò che avrebbe trascorso l’inverno in viaggio per l’India. Mentre era via, Dillon sarebbe stato con un gruppo di monaci theravada nella struttura della Maha Bodhi Society a Sarnath, più di trecento miglia ad ovest, nella pianura indo-gangetica.
A Sarnath, il luogo del primo sermone del Buddha, Dillon fiorì. Divorò libri sul buddhismo e scrisse articoli per piccoli giornali firmandosi Jivaka. Il buddhismo ora per lui significava più di un semplice luogo in cui nascondersi: era diventato un rifugio dalla sua sofferenza mentale.
Più di tutto, dopo aver passato la maggior parte della sua vita da adulto senza amici, fuggendo da un posto all’altro, sognava di appartenere ad una comunità di monaci buddhisti. Quell’inverno, secondo la sua autobiografia ancora inedita, fece voto come novizio secondo la tradizione theravada.
Arrivata la primavera, Dillon tornò a Kalimpong per riprendere la sua vita come protetto di Sangharakshita. Non vedeva l’ora di stabilirsi nella sua vecchia stanza al monastero, soprattutto ora che indossava la veste di novizio. Se fosse stato fedele ai suoi voti per un anno o più avrebbe potuto essere ammesso agli ordini successivi, diventando monaco a tutti gli effetti. Si aspettava che Sangharakshita lo vedesse come qualcuno che, un giorno, sarebbe diventato suo pari.
Il maestro non lo fece. Per come la vedeva Sangharakshita, Dillon era una donna, e quindi completamente inadatta a prendere i voti in una comunità maschile. Ancora oggi, Sangharakshita crede che il cambiamento di sesso non cambi nulla dell’identità individuale: “Jivaka non era in grado di fare figli [come un uomo]. Per me, è questo il fattore determina il genere a cui uno appartiene”.
Dillon, da parte sua, si sentiva trattato così male dal suo maestro che, dopo pochi mesi, decise di lasciare il monastero e di cercare fortuna altrove. Così, nell’autunno del 1959, impacchettò i suoi pochi averi e tornò nell’ostello di Sarnath, per studiare e meditare, e vedere come avrebbe potuto aderire alle regole e diventare un monaco a tutti gli effetti.
Nel codice monastico buddhista, il Vinaya, scoprì una regola che lo allarmò: nessun appartenente al “terzo sesso” avrebbe potuto essere ordinato. A Dillon non era chiaro quello che il Vinaya, vecchio di venticinque secoli, intendesse originariamente con il termine “terzo sesso”, ma era abbastanza sicuro che si applicasse a lui.
Comunque, trovò il coraggio e avvicinò i superiori theravada di Sarnath, confessando loro il suo segreto. I superiori discussero tra loro, e gli diedero una risposta: Dillon avrebbe potuto rimanere novizio, ma non avrebbe potuto diventare monaco a tutti gli effetti. Ne rimase devastato. Per il resto della sua vita, avrebbe denunciato la traduzione theravada come rigida e gerarchica.
L’anno precedente, quando era scappato dai giornali scandalistici, Dillon aveva scelto l’India come nascondiglio, in parte, perché aveva sperato di incontrarvi dei rifugiati tibetani. Come molti altri inglesi del tempo, aveva letto racconti di lama volanti che praticavano il controllo mentale e avevano un “terzo occhio” aperto con un attizzatoio rovente.
Adesso, ovviamente, Dillon capiva che queste storie erano più un mito che una realtà; continuava comunque ad avere soggezione dei buddhisti tibetani. Quando i monaci theravada lo respinsero, decise di scoprire se i tibetani potessero essere più empatici verso i transessuali.
In quell’anno 1959 il Tibet era sulla bocca di tutti. La Cina aveva invaso il Paese installandovi il proprio governo. Molti dei più talentuosi maestri del Tibet, che ora rischiavano di essere incarcerati o uccisi, viaggiarono verso l’Himalaya e si sparsero per l’India. A Sarnath, Dillon viveva circondato da profughi tibetani.
Erano soprattutto i Gelugpa, o monaci della setta dei “berretti gialli”, a toccarlo nel profondo. Erano i filosofi e i topi di biblioteca del Tibet, e ora si erano riversati in città per guadagnarsi da vivere, arrivando storditi dal dolore e dalla fame. Pensava lo avrebbero capito, visto che era in esilio come loro.
Con l’aiuto di un traduttore, Dillon chiese spiegazioni a Denma Locho Rinpoche, un eminente monaco tibetano, sul suo dilemma del “terzo sesso”. Come sperava, il rinpoche fu d’accordo nell’ordinarlo, e fissò una data per la cerimonia.
Per essere sicuro che tutto fosse pronto in modo corretto, Dillon scrisse una lettera a Sangharakshita, chiedendogli di venire a Sarnath per fare da traduttore inglese-hindi e presiedere la cerimonia. In qualche modo, durante i mesi passati da quando aveva lasciato Kalimpong, Dillon aveva cercato di convincersi che Sangharakshita, il suo “Babbo”, sarebbe stato orgoglioso di lui.
La risposta non fu affatto quella che Dillon si aspettava. Sangharakshita scrisse una lettera, in triplice copia, al rinpoche e agli altri monaci di Sarnath. La lettera rivelava il nome occidentale di Jivaka e rivelò i dettagli dell’operazione di cambio del sesso. Secondo Dillon, la lettera comprendeva false accuse.
Comunque, ancora oggi, Sangharakshita crede di non aver avuto altra scelta che quella di scriverla. Dillon voleva infrangere la regola monastica, e Sangharakshita rifiutò di avervi a che fare.
Testo originale: Becoming Jivaka