Don Alessandro Santoro. Un prete in cammino con le pietre di scarto
Articolo di Giuseppina D’Urso pubblicato sul mensile Mosaico di Pace del settembre 2019, pag.34
A colloquio con don Alessandro Santoro, fondatore della Comunità delle Piagge, nella Firenze di periferia. Dal disagio alla liberazione. Dall’allontanamento del diverso alla comunione.
Scrivo del dialogo con Alessandro Santoro, prete della Comunità delle Piagge, partendo da alcuni pensieri di una sua omelia di un giorno feriale in cui il Vangelo ricorda la figura di San Tommaso. Apostolo del dubbio, perno della fede senza di cui quest’ultima non diventa matura. Alessandro ama la figura di Tommaso per la sua inquietudine che dapprima non lo spinge a chiudersi nelle proprie piccole mura, e poi lo porta a pronunciare nel momento del riconoscimento di Cristo uno degli atti di fede più belli, “Mio Signore e mio Dio”.
Atto di adesione all’amore più fragile e difficile, che in quanto tale chiede di alzarsi e di uscire, per esporsi e mettersi in gioco, evitando di chiudersi nelle piccole certezze della mediocrità in cui si cerca di rimanere in un comodo equilibrio. Credo che in questi pensieri vi sia il senso dell’esistenza di un prete. Alessandro Santoro è cappellano della Comunità di base delle Piagge in Firenze, comunità che nasce nella metà degli anni Novanta in un quartiere, le Piagge appunto, creato dieci anni prima fortemente disagiato in quanto depositario di tanti indesiderati di altre zone della città. Dalla situazione di disagio sono sorte forme di criminalità cui la comunità ha fatto fronte divenendo presto un polo di attrazione e di crescita umana, spirituale, sociale, politica.
Don Alessandro, quale percorso esperienziale ti ha condotto alle Piagge?
Il percorso che conduce alla Comunità delle Piagge nasce da un’esigenza, sempre avuta dentro, di stare in modo destrutturato dalla parte più faticosa del mondo. Non credo che sarei potuto durare molto nella Chiesa e seguire il Vangelo e Gesù se non cercando di rimanere nel mondo nella maniera più destrutturata possibile. Nella dimensione di kénosis, spoliazione di sé che vuol dire stare, come direbbe Erri De Luca, “nel marciapiede della storia degli altri” dove si incontrano quelle realtà che creano la “convivialità delle differenze” [don Tonino Bello, ndr]. Rompendo il meccanismo che vede nel sacerdote un impiegato, per diventare corpo che si dona per la vita degli altri con tutte i suoi dubbi, le sue inquietudini, le sue incertezze, le sue paure per riscoprire la dimensione dello stare insieme. Come chiede il Vangelo, perché la mia fedeltà, la mia promessa di obbedienza nelle mani del vescovo è stata e continua a essere una promessa fatta al Vangelo, direttamente a Dio e alle tracce di Dio nella storia dell’umanità.
Quindi, con la tua promessa riesci a bypassare la struttura della Chiesa…
Non è che con la mia promessa io voglia bypassare, dico solo che senza di essa non avrei avuto il coraggio di divenire prete e di farmi impastare, di essere pane nella storia degli altri. Perché questo vuol dire divenire prete: essere compagno nella vita degli altri, un pezzetto di pane nella vita degli altri, perché non ha senso essere un funzionario di una verità che funziona per annessioni. L’obbedienza che ci viene chiesta al vescovo è troppo riduttiva, è poco inclusiva, per cui l’obbedienza che ho fatto è piuttosto un’obbedienza al Regno di Dio nell’umanità, vale a dire un’obbedienza profonda alle tracce di Dio nell’umanità, o anche alle tracce dell’umano. Se la Chiesa cattolica è, o vuole tentare di essere, obbedienza al Vangelo, io mi sento parte della Chiesa nella misura in cui è conseguente a questa fedeltà. E con tutti coloro che con me vogliono vivere questa fedeltà, io faccio Chiesa Hai mai pensato di uscire dalla Chiesa? Mi è capitato di pensarlo fino a quando non ho ritenuto di uscire dalla logica del “dentro e del fuori”, una logica che abbiamo tutti interiorizzato, tipica di chi ha in mano il potere, che ti fa pensare da che parte stare: se stai dentro o se stai fuori. Non desidero più sottostare a questa logica, e mi sento perfettamente dentro alla dinamica di amore che il Vangelo propone, con la mia fragilità e la mia limitatezza. In essa mi sento bene, e solo se un giorno qualcuno dall’interno della Chiesa mi dirà che non posso più rimanervi, allora potrò farmi da parte. Ma non sarò mai io a farlo, perché mi sento partecipe di questa storia, di questo mistero, in cui gli essere umani sono chiamati a uscire fuori da sé per rompere quel movimento che spinge a far tornare tutto su di sé. Infatti, il vero paradigma dell’amore è proprio quello di uscire fuori da sé stessi, e se tutti gli esseri umani lo facessero troverebbero il loro punto di incontro, in cui non si cercherebbe di riannettere l’altro dentro di sé, ma si proverebbe ad avere una vita insieme, “Sono venuto perché abbiano la vita e la abbiano in abbondanza”. Oppure, come dice la Genesi, perché “Dio soffiò nelle narici un soffio di vita e l’uomo divenne un essere vivente”. Noi siamo chiamati in questa storia a diventare dei viventi, e quindi a fare in modo che lo Spirito di Dio possa rianimare la nostra vita e permetterci di riconnetterci con lo Spirito degli altri.
Parli di destrutturazione. Cosa intendi?
Esistono due destrutturazioni. La prima è mentale, ed è una sorta di decolonizzazione, come avrebbe detto Ivan Illich, la seconda è pratica ed è la capacità di ritrovare la dimensione orizzontale, “io sono con te e come te dentro il mondo”. Quindi, di avvicinarsi alle persone che vivono dentro una realtà e di somigliargli il più possibile, riducendo tutto ciò che è funzionale a te. Per esempio mi dispiace che quando qualcuno mi incontra lo fa per la funzione che ricopro e non per quello che sono. Succede spesso? È necessario destrutturarsi per ridurre il più possibile il privilegio di essere un funzionario, o funzionale a qualcosa o a qualcuno. In effetti c’è questa aura di sacralità che il prete si porta dietro, che lo spinge a essere una figura posta su un piedistallo. Lo è perché è stata costruita così perché le è stata data una sacralità eccezionale che non dovrebbe esistere nemmeno rispetto alla teologia. Inoltre noi siamo secolari, non apparteniamo a ordini religiosi e non facciamo i voti. Ma ci portiamo dietro tutte le conseguenze del Concilio di Trento, quindi una sacralità che fa comodo per avere tutta una serie di privilegi. Clericalismo? Forma di abuso di potere? Fenomeno tipico di chi indossa una divisa, cui viene conferito un ruolo pubblico di potere. La nostra “stola” è di origine romana e ha la funzione di indicare un ruolo di potere. Meccanismo che crea gerarchizzazioni, dimensione che la Chiesa ha fatto propria, strutturandovisi. Gli estranei siamo noi che non aderiamo a questo modus essendi. È necessario riconciliarsi con quel nucleo fondamentale che poi si è rivestito di tutta una serie di condizioni, forse necessarie per stare al mondo. Come accade non solo per la Chiesa, ma per tutti gli istituiti: dalla famiglia a ogni istituzione pubblica, dove si trova il ruolo di delega.
A proposito di istituzioni, tu ami definirti un “anarchico libertario”…
Innanzitutto un anarchico non si definirebbe mai. Comunque, “io sono un anarchico libertario”; sono strutturalmente una persona anarchica, e quando sono diventato prete si è rafforzato il mio anticlericalismo. Solo così ritengo di corrispondere al messaggio evangelico: come diceva Bunuel “sono ateo grazie a Dio”. È importante riuscire a spogliarsi di tutto ciò che ci obbliga a essere funzionari del sacro. C’è piuttosto una sacralità che viene offerta nel momento del battesimo. In greco tale termine significa immersione o impregnarsi. Se il battesimo è questo, è l’antisuperficialità della vita, la scelta di vivere la dimensione del profondo, di guardare le cose dal di dentro. E nell’olio del crisma, con cui si riceve il battesimo dal celebrante (che poi sono tutti), si diventa sacerdote, re e profeta. Quindi, nel momento in cui si vive questa dimensione del profondo, dando di conseguenza il proprio contributo affinché la vita possa crescere, si diventerà sacerdote rendendo sacro tutto ciò che si vive e avendo come punto di riferimento quella storia di amore, di giustizia e di solidarietà che Gesù ha consegnato al mondo. Offrendo se stesso perché questo potesse avvenire e ognuno potesse moltiplicare questa dimensione del fuori di sé, donandosi per il mondo in un atto oblativo. Nella consapevolezza che si possa arrivare solo al Phileo e mai all’Agapao. Come sancito dall’ultimo capitolo del Vangelo di Giovanni. Ma proprio nel terreno fra Phileo e Agapao si trova il sacro in cui ogni essere bisogna si tolga i sandali, come dice Dio a Mosè, perché è il terreno sacro della vita. Tensione “verso”. Utopia, senza la quale la stessa vita perderebbe il sale del proprio essere, la spinta alla sua piena realizzazione. Il proprio fine. “Mistica politica”, sul terreno della “teologia della liberazione” sudamericana (sulla quale la Comunità delle Piagge fonda la propria realtà). Nella consapevolezza che ogni storia è intessuta di fallimenti, di fragilità, di persecuzione, pezzi di esistenza che impediscono di ergersi su un piedistallo. Mentre è necessario alimentare sempre dentro di sé la fiamma della Vita.