Don Andrea Conocchia e la sua chiesa aperta alle persone transgender
Articolo di Luca Lancise pubblicato su Millenium, supplemento mensile de Il Fatto Quotidiano, n.40, anno 4, novembre 2020, pp.50-53
«Padresito lo trovi sempre, lui non lascia da solo nessuno», dice Naomi ripetendo, nel suo accento argentino, il nome col quale lei e un’altra ventina di transessuali sudamericane chiamano don Andrea Conocchia, parroco di Torvajanica, cittadina balneare a mezz’ora da Roma. E il padrecito, che si scrive con la C ma si pronuncia con la S, risponde: al telefono, ai messaggi vocali, a quelli scritti in chat, ma soprattutto alle mani che vengono a bussare alla sagrestia della Beata Vergine Immacolata, la parrocchia che domina la piazza centrale del lungomare, e non importa se le unghie sono lunghissime e laccate di rosso vivo a colorare esistenze tutt’altro che immacolate.
Quelle di Alejandra, Claudia, Marcela e le altre che da dieci o vent’anni, qualcuna da più di trenta ormai, si prostituiscono nelle pinete del litorale sud di Roma, lungo la Litoranea senza marciapiedi o nei piccoli appartamenti delle palazzine basse, alcune abbandonate e molte condonate, che puntellano la striscia d’asfalto tra l’Agro romano e le spiagge rese livide dall’autunno.
È il paesaggio in mezzo al quale don Andrea, 49 anni che non si vedono sotto i capelli neri e gli occhi vispi, è sbarcato un anno fa e dove si muove, agile e veloce con la sua Panda carica di pacchi alimentari e vestiti, come ha imparato a fare quando era ancora un “parroco senza parrocchia” nel territorio limitrofo del Lido dei Pini: «Non avendo la sede, dicevo messa per strada, nei campeggi e sul ciglio delle aiuole pubbliche, andavo io dalla gente, e la gente si fermava…», racconta. Poi la “promozione”: la bella chiesa che guarda il mare, a dispetto dell’ecomostro che le sta di fronte, un ex hotel abusivo diventato un rudere di cemento in attesa di demolizione.
Il tempo di ambientarsi, e lo scorso marzo don Andrea è finito sui giornali: impegnato a distribuire aiuti alla comunità cittadina durante il lockdown, che ha bloccato anche i clienti delle trans lasciandole senza un soldo, un giorno se n’è vista arrivare una in parrocchia, spinta dalla disperazione ad affacciarsi dove di solito non si fa vedere. E don Andrea ha aperto la porta, perché «donare il pacco alimentare è una celebrazione della Messa, è come se fosse la carità̀: date il pane, dice Gesù, e loro vivono solo con la prostituzione, è il loro lavoro, ma sono venute per un bisogno primario, il cibo».
E quando nei giorni seguenti anche le altre trans si sono fatte coraggio, ha pensato a qualcosa in più: ha deciso di scrivere all’elemosiniere del Papa, il cardinale Krajewski, indirizzando a Bergoglio una richiesta d’aiuto delle trans di Torvajanica, figlie anche loro dell’America Latina, e di quella più̀ dolente. E il Papa ha risposto, inviando buste col timbro della Santa Sede, col nome della trans destinataria e con “l’unito sussidio di 200 euro a nome del Santo Padre, che accompagna il dono con l’invocazione dei desiderati aiuti e conforti divini, e la preghiera di provvedere a qualche necessità”.
Poi don Andrea ha pensato di fare registrare un messaggio vocale di ringraziamento, spedito all’Elemosiniere per farlo ascoltare direttamente a Francesco nella sua lingua, e la fiducia è diventata incondizionata: padrecito Andrea, in questi sei mesi, s’è trasformato in un punto di riferimento, l’unico da queste parti, per la piccola comunità di transessuali che gli porta anche le ricette me- diche da leggere. E pazienza se qualcuno storce il naso, specialmente tra i “colleghi”.
«Abbiamo tentato, con un paio di preti», dice Claudia, un’infanzia vissuta quando in Argentina i militari torturavano gli omosessuali, «ma non rispondevano mai, o bisognava prendere un appuntamento che non è arrivato più». E invece padrecito Andrea risponde. «Ci vuole una Chiesa che rischia», dice lui, il resto, spiega, sta già̀ tutto nel Vangelo: «Il Signore mica stava solo con quelli che il sabato andavano al Tempio, stava coi lebbrosi, gli storpi, i perduti: devo stare solo con quelli che vengono alla messa tutti i giorni o la domenica?».
A proposito: ora che s’è sparsa la voce, non solo tra le trans, don Andrea sta raccogliendo anche i dubbi, gli sfoghi, le paure sparse nella comunità̀ dei fedeli, giovani e adulti: una mamma è arrivata piangendo, perché́ suo figlio è omosessuale e un prete a cui s’è rivolta le ha detto che “Dio ci ha fatti maschi e femmine, punto”. E invece Don Andrea: “Signora cara, dobbiamo tutti imparare che tra il maschio e la femmina ci sono le sfumature, anch’io lo sto imparando”. O un’adolescente che è andata a dirgli così, “Don, è successa una cosa che non doveva succedere: mi sono innamorata… di una ragazza”. E lui: “E perché́ non doveva succedere?”.
È una questione di confini sfumati, fisici e dottrinali, per don Andrea, e una zona come questa, tra macchie di verde e macchie di cemento, sulla soglia tra il centro e il margine, ne è lo specchio: «L’essere al confine significa fare i conti con le sfumature, con l’ambiguità̀ dentro la quale forse anche noi uomini di Chiesa facciamo fatica a stare: immagino che nei nostri animi ci siano delle parti in ombra, delle parti oscure che in un modo o nell’altro a volte possono venir fuori, ne prendiamo coscienza o consapevolezza negli anni», dice don Andrea, e ora sembra parlare quasi tra sé: «Anche non volendo, ci sono delle sensazioni che tu avverti, intuisci, percepisci e che magari reprimi, nascondi a te stesso ma anche per esempio alla sposa, al collega, al compagno o alla compagna: è questa la cosa che, ascoltando queste amiche, si può̀ scoprire».
Il pensiero va a qualche telefonata ricevuta: “Si rende conto che sta favorendo la prostituzione? Ma questi trans ora che fanno, si convertono? Cambiano vita? Fanno la comunione?”. «Mi pare drammatico: insomma, non riusciamo a fare un gesto di pura gratuità, di grazia, cioè gratis?», si chiede don Andrea. «Io non ti do il pane affinché́ tu diventi cattolico, ma perché́ siamo fratelli». A un certo punto, racconta il parroco, «Ho chiesto: “Come vi devo chiamare? Ragazze, donne, uomini?”. “No, persone transessuali”, mi hanno detto».
Spunta una delle ultime lettere affidate a don Andrea: “Caro Francesco, in realtà̀ sono nata bambino. Chissà̀ se hai mai ricevuto una lettera da ‘una come fare altro», dice Naomi, che per riscattare il debito per la sua fetta di marciapiede italiano ha pagato 5 mila euro e ora cammina e basta, senza fermarsi in un posto altrimenti deve pagare ancora.
E i clienti? «Se ci sono le trans è perché qualcuno ci va e di solito sono battezzati, cresimati, cattolici, la comunità̀ non so se si accorga o meno di queste presenze, nessuno parla, come se non vedesse, non conoscesse, non sapesse», riflette don Andrea. «Tra di loro si conoscono, si aiutano, ma per gli altri esistono solo come prostitute e ad alcune questo fa rabbia. Hanno in comune il grande dolore che hanno vissuto e ancora vivono, rispetto alla loro condizione», racconta. E aggiunge: «Con alcune ora preghiamo insieme, io le ho viste piangere perché́ si vergognavano della vita che avevano fatto e non volevano scriverla a Papa Francesco, non si ritenevano degne di essere aiutate da lui».
Ma poi, a Torivajanica è arrivato padrecito: «Bisogna che si possa diventare esperti di umanità̀, sì, ma incontrando l’umanità reale, quella vera che Dio ci manda sulla strada, non quella ideale: perché́ è importante partire dalla persona», si congeda, prima di tornare a dire messa.