Don Carrega: “l’omosessualità e altri delitti del Levitico”
Dialogo di Katya Parente con don Gianluca Carrega
Il 6 aprile 2022 prossimo si terrà il terzo incontro on line della serie “Riprendiamoci la Parola”. Relatore dell’intervento don Gianluca Carrega, che è docente di Sacra Scrittura presso la Facoltà Teologica di Torino e responsabile della pastorale delle persone omosessuali della diocesi torinese.
La sua relazione riguarda “L’omosessualità, il misto-lana e altri delitti del Levitico”, e già dall’ironia del titolo incuriosisce parecchio. Quindi lasciamo la parola a don Gianluca, che ci darà un piccolo assaggio di quello che ascolteremo.
In che contesto storico culturale si inseriscono le proibizioni del Levitico? Erano ancora vincolanti all’epoca di Gesù?
La prima cosa che dovremmo fare è avere una visione complessiva sulle norme bibliche, evitando di isolare, e quindi di assolutizzare, alcuni precetti a scapito di altri. Nonostante le buone dichiarazioni di intenti, quasi mai si cerca un approccio globale all’etica biblica, e questo è un problema enorme.
Il punto di partenza dovrebbe essere quale idea di Uomo emerge dalla Scrittura, e non l’ipotetica violazione di leggi naturali (un linguaggio assente dalla Legge, peraltro). Molti pensano alla Bibbia come ad una sorta di codice di diritto penale, o per restare all’ambito religioso, ad un codice di diritto canonico. Ma è interessante che i primi cinque libri della Bibbia alternino norme prescrittive con episodi narrativi che sembrano smentirle…
Nel libro del Deuteronomio (7:3) viene tassativamente vietato il matrimonio di un ebreo con donne straniere. La norma viene emanata da Mosè, leader indiscusso di Israele, il quale era sposato con Sefora… una madianita! Chiedersi, quindi, se queste norme fossero ritenute vincolanti secoli dopo la loro emanazione, prevede un punto di vista secondo cui, in principio, venivano osservate regolarmente, ma in realtà non è così.
Detto questo, il motivo ispiratore delle norme del cosiddetto “codice di santità” del Levitico (capp. 17-26) è “Voi sarete santi perché io, il Signore, sono santo” (Lv 19:2). Ma qui la santità non è tanto un concetto morale, quanto una categoria cultuale, che indica una realtà “consacrata”, e quindi separata da tutto ciò che è profano. A Israele viene chiesto di preservare la sua diversità dagli altri popoli, ed è naturale che ciò implichi l’astenersi da prassi ritenute inconciliabili con la volontà divina. Il punto non era lo spiegare perché si faceva così, ma mettere in pratica ciò che garantiva l’identità (identity markers).
Direi che il silenzio dei vangeli sull’omosessualità potrebbe essere interpretato come una conferma indiretta dell’assenza di questioni: si discute su ciò che è di attualità e provoca divisione! La liceità del divorzio è un punto dibattuto tra Gesù e le autorità religiose del suo tempo, i rapporti omosessuali no.
Abbiamo poi la preziosa testimonianza di Paolo, un ebreo del I secolo che si rivolge alla chiesa di Roma – una comunità in cui molti credenti provenivano dall’ambiente giudaico –, che conferma una visione negativa dell’omosessualità come un dato di fatto. Quando dice che i rapporti omosessuali sono la punizione per la follia idolatra dei pagani, condivide appieno il giudizio negativo di questi rapporti che si trova nella Scrittura.
Un altro giudeo grosso modo contemporaneo di Paolo – Filone di Alessandria – annovera i rapporti omosessuali tra i vizi tipici dei pagani, e li considera un tratto abituale nei festini dove ci si abbandona all’ingordigia e all’ubriachezza. Rientrano quindi negli eccessi da cui una persona virtuosa si deve astenere, e sono equiparabili all’adulterio.
Il Levitico è il libro per eccellenza dei divieti biblici, a cui qualcuno (i più retrivi) si appella ancora. Non sono obsoleti, e in qualche modo ipocriti, dal momento che ne accettano solo alcune parti?
Questo è il limite più palese di certe letture fondamentaliste della Scrittura. Con lo stesso criterio con cui si valuta vincolante la condanna dell’omosessualità, si dovrebbe perseguire l’adulterio, o il figlio che maledice i genitori. Sempre in nome del letteralismo, si dovrebbe prendere atto che la pena per gli adulteri è la morte (Levitico 20:10), ma è probabile che l’applicazione di queste norme desertificherebbe il pianeta…
Una cultura che è disposta a chiudere un occhio sulle scappatelle per venire incontro alla debolezza umana, e poi si dimostra del tutto intransigente verso i rapporti omosessuali, definendoli “contro natura”, non è molto coerente. Ma non credo che la ridicolizzazione delle norme bibliche, e l’associare il divieto di cibarsi di crostacei a quello di evitare l’incesto, sia la soluzione migliore. Una parte del mondo ebraico e cristiano si limita a giudicare superate queste norme, e non si pone più domande, mentre penso che sia necessario interrogarsi sui princìpi di fondo che ispirarono i divieti.
Come dicevo, non sembra esserci un’unica traiettoria che tiene insieme le diverse proibizioni del Levitico, ma c’è un’idea ricorrente che abbraccia numerosi ambiti: la preservazione di un ordine cosmico voluto da Dio. Per questo il seminare sementi diverse nello stesso campo, indossare un vestito in parte di lana e in parte di lino, portare una veste maschile invece che femminile e viceversa, sono azioni che violano un ordine stabilito da Dio. Mi pare un passaggio importante, perché in questa violazione dell’ordine cosmico ci sono azioni che possono essere ritenute peccaminose, e altre moralmente neutre.
Ma la vera colpa sono gli incroci, le mescolanze che mettono in discussione l’identità delle persone e delle cose. Credo che sia questo il punto da cui dovrebbe partire una riflessione teologica seria sull’omosessualità: in che modo può essere incasellata nell’ordine cosmico una relazione che non rientra nello schema binario del maschile/femminile?
Com’era vista l’omosessualità nel Mediterraneo, e più specificamente nella zona palestinese?
Per prudenza, e per onestà intellettuale, occorre riconoscere che la nostra conoscenza di quegli ambienti è molto deficitaria, e quindi possiamo solo fare ragionevoli congetture. L’impressione è che Israele avesse un atteggiamento di preclusione verso i rapporti omosessuali più rigido dei popoli confinanti. In linea di massima, i popoli mediorientali permettevano i rapporti tra adulti consenzienti, mentre erano meno tolleranti verso la pederastia di quanto lo fossero, per citare un popolo che conosciamo meglio, i greci. Nel mondo della prostituzione era una delle possibilità, e non creava particolare scalpore.
Nella cultura assira e babilonese vigeva una consumazione di rapporti omosessuali in ambito cultuale, e questa può essere stata una delle ragioni che ha spinto Israele a rigettare del tutto queste relazioni. Ma si tratta comunque di supposizioni, perché la Bibbia dice che vanno considerate un abominio, ma non spiega perché lo siano. Del resto, la spiegazione delle norme è molto rara in generale, non solo in questo ambito.
Il fatto poi che le norme che vietano i rapporti omosessuali siano presenti esclusivamente nelle sezioni più tardive della Legge (quelle che indichiamo come “opera sacerdotale”, risalente certamente all’epoca dopo l’esilio), lascia pensare che si tratti di norme che tutelano l’identità ebraica rispetto ai costumi pagani, una preoccupazione che diventa quasi ossessiva tra i rimpatriati dall’esilio, come si vede anche dalla proibizione del matrimonio con donne straniere.
Come mai la procreazione era così importante per gli ebrei? Semplice sopravvivenza del popolo, o c’era anche un significato religioso – parlo dell’avvento del Messia?
Entrambi gli aspetti sono rilevanti, ma a monte c’è un comando che forse è ancora più influente. In Genesi 1:28 la prima coppia umana riceve da Dio questo comando: “Siate fecondi e moltiplicatevi”. L’idea che mettendo al mondo dei figli si obbedisse alla volontà del Creatore era opinione diffusa, al punto che i casi di celibato nel mondo rabbinico sono rarissimi. Ma è interessante il caso di rabbi Simeon ben Azzai, vissuto all’inizio del II secolo. Per amore verso la Torah aveva deciso di non sposarsi, ma al tempo stesso dichiarava che colui che si astiene da rapporti sessuali fecondi è come uno che versa il sangue e che diminuisce l’immagine divina (cfr. trattato Yebamoth 8:7).
Si può eccepire sulla sua coerenza, ma è chiaro che considera il dovere di riprodursi un mandato vincolante, che può essere superato solo da una devozione eccezionale per lo studio della Legge. Non saprei valutare l’effettiva incisività dell’aspettativa messianica sul giudizio negativo circa la sterilità e i rapporti infecondi. Personalmente credo che la pressione sociale sulle donne, e il loro ruolo materno, fossero molto forti, indipendentemente dalle attese messianiche.
Pensiamo a Rachele, una delle due mogli di Giacobbe, che quando vede che la sorella Lia gli ha generato diversi figli, mentre lei è ancora sterile, si volge al marito angosciata: “Dammi dei figli, altrimenti io muoio!” (Genesi 30:1). In questo caso si tratta di un desiderio molto umano, che è legato al suo riconoscimento sociale, amplificato dal clima di competizione generato da un contesto poligamico.
Il caso di Onan (Genesi 38:9), che evitava di fecondare la cognata Tamar secondo il rito del levirato praticando il coito interrotto, è un altro ottimo esempio di ossessione procreativa, nonché di fraintendimento culturale. Nella tradizione successiva Onan ha dato il suo nome alla pratica masturbatoria, focalizzando così la questione sul piacere personale, mentre il punto in questione nella vicenda era un altro: la volontà di negare alla donna un figlio che le avrebbe dato un posto nel clan familiare. Nella società patriarcale del tempo una donna aveva un’identità come figlia di qualcuno, come moglie di qualcuno, o come madre di qualcuno. Vedova e senza discendenza, Tamar si vedeva preclusa qualsiasi possibilità di futuro.
Cultura, fede, religione: a volte facciamo fatica a vedere dove termina l’una e inizia l’altra. Una trama intricata, e forse un po’ difficile da sbrogliare. Ma credo che non lo dobbiamo nemmeno fare – in fondo fanno parte del nostro essere. Quello a cui dovremmo stare attenti è non confondere i fili, altrimenti si creerebbe un cortocircuito personale e comunitario, e confondere fede e religione, credere che un dato culturale sia una realtà rivelata, potrebbe portare a derive pericolose. Lo ha già fatto. Sta a noi non ripeterlo.