Donne di Parola. Storie di pastore, diacone e predicatrici nelle chiese protestanti italiane
Ma come scrive Lidia Maggi in uno dei saggi che compongono il bel volumetto qui preso in esame (Donne di Parola. Pastore, diacone e predicatrici nel protestantesimo italiano” edito dalla fiorentina Nerbini nel maggio 2020 e curato da Letizia Tomassone), oggi «le grandi narrazioni arrancano dietro i discorsi utili della ragione strumentale, capaci di muoversi con passo veloce, essendo prodotti con scadenza ravvicinata (usa e getta)» (pag. 118).
Quindi è necessaria una nuova narrazione capace di parlare a questo presente liquido (come direbbe Zygmunt Bauman), una Parola non più dogmatica e rinchiusa nei “recinti del sacro” maschili ma inclusiva e intersezionale che recuperi il senso del vangelo, in cui ciò che è marginale e disprezzato si faccia centro o dove meglio questo centro divenga periferia.
Portatrice di tale rinnovata visione profetica può essere concretamente la donna, che, memore della propria secolare emarginazione e confinamento nell’ombra, potrà parlare e rivolgersi a ogni forma di esclusione che sia sociale, di etnia, di religione, di genere o di orientamento sessuale.
La prospettiva teologica è perciò quella della teologia della differenza e della teologia di genere affinché realizzino quanto già espresso dal cristianesimo primitivo, e smarrito con la sua istituzionalizzazione, riportandolo in forme prettamente contemporanee.
Fondamentale in questa dinamica il significato dei corpi, come scrive Letizia Tomassone nel proprio saggio: «La presenza femminile sul pulpito, nella proclamazione della Parola ma anche dell’amministrazione dei sacramenti ha messo in gioco nuovamente i corpi, ha reso visibile la differenza dei corpi, a partire dal colore, dal genere, dall’appartenenza sociale, dall’integrità e salute e dall’età. È stato importante mostrare i corpi femminili nel corso dei culti, una presenza spesso dirompente in occasione di celebrazioni ecumeniche, per uscire dal ministero legato al corpo maschile e alla maschilità di Cristo» (pag.107).
Donne di Parola, attraverso una ricostruzione storica e vissuta con concrete testimonianze, presenta quindi il non facile percorso che ha portato nelle Chiese riformate la donna ad accedere ai ministeri e al pastorato. Voci di diverse donne che nel recente passato e nel presente hanno conformato e stanno conformando a loro immagine tali Chiese, con un’incursione di voci femminili dal mondo cattolico.
Dove i saggi di Serena Noceti e Paola Cavallari offrono uno sguardo competente esterno ed ecumenico di chi si muove tuttora in un ambito ecclesiastico che fa fatica a smantellare i propri privilegi maschili sessisti e il conseguente autoritarismo clericale. La stessa curatrice Letizia Tomassone spiega i contenuti del volume.
Puoi dirci da quali esigenze nasce questo saggio e come si inserisce, considerando il mese in cui è uscito, nell’attualità che noi tutti stiamo vivendo?
Ci stavamo lavorando da parecchio tempo. Avevamo l’esigenza di verificare a che punto siamo arrivate, se ci sono state delle conseguenze all’introduzione dei ministeri femminili nelle nostre Chiese e quali. L’analisi doveva partire dal vissuto personale – come cambia la fede di una donna e il suo modo di esprimerla quando ha il compito della predicazione? – e poi occuparsi anche delle Chiese e delle strutture.
Inoltre volevamo dare un contributo alle colleghe cattoliche che si battono per una discussione aperta sui ministeri femminili nella Chiesa cattolica e in particolare per il diaconato femminile. Sono donne e uomini che ci sono amici, con cui condividiamo un’idea di Chiesa, quella della partecipazione di tutti e tutte mosse dalla forza dello Spirito santo.
Non ci aspettavamo di uscire proprio in questo tempo di chiusura, avremmo voluto poter lanciare il libro attraverso qualche presentazione, discussione nelle librerie, anche perché nei primi mesi di quest’anno sono usciti diversi libri di teologia femminista che fanno avanzare la discussione, in primis quelli della teologa battista Elizabeth Green, ma anche quello di Teresa Forcades sulla gioia dei corpi.
La sfida è di provare a fare presentazioni online sui siti delle librerie, ma anche suscitare la curiosità delle donne, protestanti e anche cattoliche, che ragionano da tempo su questi temi.
La prima parte è più storica (con testimonianze) di un percorso di emancipazione delle donne nelle Chiese riformate. A che punto del percorso tale emancipazione si trova? È possibile parlare di reale inclusività, termine che nel testo spesso ricorre?
La prima parte per me è piuttosto emozionante, tanto più quando si arriva agli anni che ho vissuto anche io, da adolescente. Inoltre la narrazione mostra, per esempio nel bel testo di Giovanna Pons, un intreccio tra ministeri femminili e marginalità sociali, migranti e dinamiche di integrazione, che oggi definiamo “intersezionalità”. Si pensava che una donna non dovesse guidare una chiesa classica, e la si mandava nelle giovani chiese dei migranti in Germania o in Svizzera. Oggi le donne esercitano il loro ministero anche come pastore titolari di grandi chiese. Cosa significa questo cambiamento? E soprattutto, il segno del margine è rimasto nel DNA delle pastore? Io credo di sì e questo libro è un tentativo di verificare che è così.
La “Parola” è “Sophia” più che “Logos”? Il linguaggio conforma il pensiero sottostante, ridefinirlo al femminile permetterà una nuova “Weltanschauung”?
Il linguaggio è uno strumento che può rendere visibile la presenza sessuata. Non solo colpendo l’intelligenza ma anche il cuore, e provocando dei piccoli soprassalti che aiutino ad andare oltre. La Sophia, la Sapienza biblica, era maestra nel trasformare la visione del mondo, rovesciando i canoni e le regole, e i modelli di genere. Nel passaggio da Sophia a Logos, e con il contributo dei padri della Chiesa ellenista, il cristianesimo ha perso la corporeità della Parola e il suo carattere profetico e provocatorio. Usare un linguaggio inclusivo nella Chiesa, e non solo, può far riemergere quella caratteristica che aiuta a pensare in modo divergente e critico.
Cosa intendi con “principio ermeneutico” in relazione alla salvaguardia della memoria dell’emarginazione da parte delle donne?
Che quella storia dei margini diventi appunto una misura, che mi faccia sentire fuori posto quando sono troppo assestata, che mi faccia sentire le voci assenti e vedere i buchi del sistema, tutta la normalità che chiude fuori la vita esuberante delle persone. Ciò che la teologia queer afferma quando dice che Dio è con la trans non solo quando lei è alla funzione in chiesa, più o meno compunta, ma anche quando è nei locali di incontro sessuale: Dio si mescola alla nostra vita. Questo, nel libro, è espresso nel pezzo divertente di Daniela di Carlo che ripercorre libri, film e serie televisive in cui è descritta la presenza di donne nel ministero e nella predicazione.
Si parla di post-moderno. La critica postmoderna non aiuta a decostruire stereotipi e modelli “ontologici” per aprire a una visione meno dogmatica della stessa Parola.
Sì. La critica postmoderna accoglie le elaborazioni che vengono da occhi non occidentali, e spinge anche le femministe bianche occidentali a rivedere i propri valori cosiddetti universali. In questo libro abbiamo una sola testimonianza di una pastora asiatica che opera in Italia, che però è emblematica di un percorso e di una sensibilità. Questo libro riflette sull’ecclesiologia e i ministeri, e rimanda ad altri testi più scientifici dedicati all’esegesi femminista e postmoderna.
Credo che se il nostro libro aprirà ad altre letture sarà stato un utile tassello nel dibattito, e ringrazio il CTI per averci sostenute in questo impegno di elaborazione collettiva.
* Giuseppina D’Urso è volontaria de La Tenda di Gionata e del Gruppo Kairòs di Firenze, nonché collaboratrice di Pax Christi Italia