Dopo il coming out di mio figlio posso dare un nome a ciò che vive
Testimonianza n.17 di Carlo Terriaca, un padre italiano con un figlio gay, tratta da Tell it out (Dillo ad alta voce), libro di testimonianze di genitori con figli LGBT+ di tutta Europa realizzato da ENP – European Network of Parents of LGBTI+ Persons (Rete Europea di Genitori di Persone LGBTI+) con il supporto editoriale della Tenda di Gionata ed il contributo del Consiglio d’Europa, pubblicato nel 2020, p.32, liberamente tradotta da Diana, revisione di Giovanna e Giacomo Tessaro
Circa dodici anni fa eravamo tutti e tre in cucina all’inizio di gennaio. Lui era seduto davanti a noi. Da alcuni giorni eravamo preoccupati, perché era nervoso e non capivamo la ragione. C’erano molte domande senza risposta. Improvvisamente fece un lungo respiro e disse: “Devo dirvi qualcosa, finalmente ho capito chi sono, posso dargli un nome, sono omosessuale”.
Le prime parole le pronunciò mia moglie. Disse: “Lo sapevo, la mia speranza è che tu possa incontrare una persona che ti ami e che tu ami, come io e tuo padre ci amiamo”.
“Lo sapevo” disse Paola. Tuttavia non ne avevamo mai parlato, né avevamo condiviso i sospetti o le preoccupazioni. Eppure lo sapeva, come spesso le madri lo sanno. Io fui scioccato da queste parole: “Ora posso dare un nome a tutto ciò”. All’epoca aveva 24 anni.
Con una mano sulla sua spalla mi chiedevo: “Dov’ero durante la sua adolescenza?”. Poi mi vennero in mente due cose: per nessuna ragione volevo perdere mio figlio, e dovevo proteggere il mio amore per lui. Ma dovevo lavorare su di me. Avevo bisogno di aiuto.
Il giorno seguente c’era uno splendido cielo blu, e il sole illuminava Roma. Di ritorno da scuola, mia moglie mi disse che aveva alzato lo sguardo più volte: il sole splendeva, ma lei era triste: pensava che nostro figlio non avrebbe mai avuto bambini suoi.
Passarono parecchi mesi, e tutti i giorni parlavamo, a volte solo poche parole, a volte una conversazione.
Eravamo colpevoli? Durante le mie notti insonni pensavo spesso alla sua infanzia, ricordando un rimprovero, un litigio, dei momenti particolari in cui il mio essere genitore mi pareva ora la maschera di un fantasma.
Dopo due anni lo dicemmo ai parenti e ai nostri, amici dopo aver visto tutti insieme un film. All’epoca un’amica di mio figlio, una ragazza, fece coming out e i suoi genitori reagirono molto male. Veniva sempre a casa nostra a piangere. Paola fu commossa, e poiché conosceva Agedo, decise di unirsi all’associazione per dare una mano. Mi sono unito anch’io, ma questa volta devo confessare che ho una mano amica. È stato grande spezzare la nostra solitudine, condividere gli abbracci coi genitori. All’epoca eravamo in pochi, ora siamo in tanti, sia a Roma che in altre città d’Italia.
Come ho scritto in una poesia dopo essermi iscritto ad Agedo, c’è una nuova luce dentro ciascuno di noi. Cerchiamo di condividere con il maggior numero di persone la nostra esperienza.
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