Dopo l’ultimo testimone dell’olocausto non basterà dire «Mai più!»
Riflessioni di David Bidussa* tratte da La Repubblica del 16 gennaio 2009
Quando rimarremo soli a raccontare l’orrore della Shoah, non basterà dire «Mai più!» né rifugiarsi tra le convenzioni della retorica. Serviranno gli strumenti della storia e la capacità di superare i riti consolatori. (…)
Nel Giorno della memoria non ci interroghiamo dunque sui sopravvissuti o sui testimoni diretti, ma su noi stessi, venuti dopo, e che da quell’evento siamo segnati, qualunque sia il nostro rapporto individuale e familiare con esso.
Sia che siamo figli delle vittime, dei carnefici o di quella ampia fascia di zona grigia, di mondo degli spettatori, che si trova in mezzo.
Insieme a noi, ci sono i testimoni culturali, ovvero gli autori della produzione storiografica, figurativa, letteraria, cinematografica, che accompagnano l’estrinsecazione delle testimonianze dei sopravvissuti. In sostanza non c’è da attendere un domani, più o meno lontano, per chiedersi che cosa faremo dopo che l’ultimo testimone sarà scomparso. Quel passaggio si è già consumato.
Si è inaugurata l’età della postmemoria, una stagione che obbliga a confrontarsi con le domande che questa condizione pone rispetto alla conservazione di un certo passato e sugli strumenti che noi abbiamo per indagarlo, comprenderlo e rappresentarlo.
La nostra attualità è attraversata da diversi scenari che rischiano di trasformare quest’attenzione in una nuova eclissi. Il primo riguarda i tempi della memoria.
Il ricordo del genocidio ebraico ha avuto tempi lunghi prima di rendersi autonomo e «visibile» nella coscienza pubblica. Ha avuto un suo risveglio a partire dagli anni ’80, sull’onda anche della spettacolarizzazione dovuta a Holocaust (il serial televisivo che nel 1978, negli Stati Uniti come in Europa, ha inaugurato una nuova stagione nella percezione del genocidio ebraico).
Da allora quel tema è stato al centro della discussione pubblica, anche «riscoprendo» le domande di chi a lungo e con pazienza aveva indagato intorno all’evento nell’indifferenza generale.
L’esempio più evidente è proprio nell’opera unanimemente oggi riconosciuta come la più esaustiva, ovvero la monografia di Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, composta in solitudine, ignorata negli anni ’50, pubblicata nel 1961 nell’indifferenza generale e infine «scoperta» nel 1985.
Tornerò più in dettaglio su Hilberg, ma è importante sottolineare come la ricerca storica talora viva di vita propria e non solo di spettacolarizzazione o di rapporto con le domande che la discussione pubblica suscita.
Quelle domande riguardano lo spessore, la fisionomia, l’estensione e la tipologia della «zona grigia», una questione che resta in eredità a chi viene dopo e che, soprattutto, non ha il fascino né della celebrazione dell’eroe, né della consolazione della vittima. La storiografia quando ha un valore civile non consola, bensì pone domande, e probabilmente è anche per questo che nonostante tutti dichiarino di amare la storia, di provare per essa un interesse quasi morboso, poi tengono la storiografia a distanza.
Ci sono opere che bruciano ancora per le domande che pongono e perché rispetto a esse l’insorgenza morale non serve. E in ogni caso non è solo una questionemorale. È una problematica che coinvolge il sentimento politico e, più generalmente, la mentalità diffusa, specie nel caso italiano.
Infatti, intorno al concetto di zona grigia, soprattutto nel modo in cui si è radicata quest’immagine nel senso comune in Italia, è venuta costruendosi una filosofia politica. L’espressione «zona grigia», creata da Primo Levi e originariamente riferita a coloro che nell’esperienza del Lager rappresentano l’area dei privilegiati nella complessa sociologia e gerarchia degli schiavi, nella storiografia sulla Resistenza e sulla guerra civile ha avuto uno slittamento di significato ed è perciò venuta a designare quella parte di popolazione che passivamente non si è schierata con nessuna delle due parti in campo.
Una condizione inizialmente vissuta con disagio e poi, lentamente, rivendicata con orgoglio (…) Il secondo scenario riguarda la centralità delle vittime. Nel corso degli ultimi due decenni la dimensione della vittima ha assunto una nuova fisionomia.
Se a lungo la questione degli sterminî è stata pensata in relazione al termine di trauma – e dunque il problema e l’attenzione rispondevano all’esigenza di individuare strategie volte al recupero o al reinserimento –, la dimensione della vittima tende ora a essere presentata come una condizione non mutabile.
La vittima nella comunità entra in ragione della violenza che ha subito e dunque per questo trova spazio e rispetto. Ma lentamente quella condizione si estende e genera un nuovo diritto: nello spazio pubblico comincia
ad affermarsi la convinzione che solo presentandosi come vittime si avrà diritto alla giustizia.
È un meccanismo che lentamente dimentica il presupposto da cui era partito, legato all’eccezionalità, alla condizione estrema del sopravvissuto, ed estende così all’infinito la realtà traumatica. Trasforma una condizione fisica, oggettiva, in una psicologica.
L’effetto è la ripresa del meccanismo vittimario, che non è solo appannaggio dei sopravvissuti, ma anche e sempre più di coloro che hanno una visione paranoica della realtà, ossessionati dall’idea di forze potenti che agiscono contro la propria gente.
Un’affermazione del processo di produzione delle vittime che elimina la dimensione storica e fattuale del suo realizzarsi in termini di atti, conflitti, figure, circostanze (e dunque non indaga su chi siano i persecutori, non descrive le azioni dei carnefici, bensì destoricizza perché riconduce a sé tutta la vicenda) e spiega, ad esempio, perché paradossalmente la richiesta di riflessione sulle vittime, che pure esigerebbe una maggior produzione di analisi storica, chiami in causa altre piste di indagine – la psicologia, la psicoanalisi, la teologia – ma significativamente eviti la storia sociale e si guardi bene dall’affrontare la storia dei comportamenti.
Paradossalmente, solo portando al centro le figure dei carnefici o della macchina dello sterminio, quella domanda di storia ha avuto la possibilità di sostenersi.
Nello specifico è stato da una parte La banalità del male di Hannah Arendt ad aprire questa possibilità, proprio perché al centro del libro non erano poste le vittime ma la macchina distruttiva, e successivamente si è aggiunto il saggio di Christopher Browning, “Uomini comuni”, che ha consentito una nuova stagione di indagine culturale, storica e sociale sugli sterminî.
In tutti e due i casi il cuore dell’indagine riguarda la sfera dei carnefici e degli esecutori, la macchina burocratica come luogo produttivo della storia.
Un evento che evoca il principio della cooperazione industriale. La fabbrica moderna è capace di produrre in serie milioni di esemplari dello stesso prodotto perché migliaia di individui nello stesso istante compiono un gesto, un atto sequenziale.
Questo processo è possibile perché pone a suo fondamento la cooperazione tra individui.
Il genocidio ebraico, come ricorda lo storico Pierre Vidal-Naquet, è un evento possibile, e realizzabile, perché basato sullo stesso principio organizzativo: un sistema che consente la non responsabilità individuale nello sterminio.