Dopo Orlando: la preghiera nel tempo della crisi e della tragedia
Articolo di Bill McCormick, SJ* pubblicato sul sito The Jesuit Post (Stati Uniti) il 14 giugno 2016, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Gli accadimenti della nostra nazione suonano spesso la stessa triste solfa. È certamente così per quanto riguarda la sparatoria di Orlando. La violenza di massa. Le discussioni a non finire sull’Islam e sul terrorismo domestico. La nazione che per un breve momento fa gara di solidarietà. Le preghiere, l’angoscia, le richieste di cambiamento. Il probabile fallimento nell’individuare la radice del massacro. La quasi inevitabile ripetizione nel prossimo futuro.
Un’altra cosa che si ripete ogni volta, tuttavia, è una certa reazione alla reazione, in particolare la preghiera. A poche ore dall’attacco ho visto su Facebook dei meme con la scritta “Preghiamo per l’America” dove il “Preghiamo” era cancellato con una croce e al suo posto c’era scritto “Cambiamo le leggi”.
Non è un fenomeno del tutto nuovo. Le critiche alle preghiere di massa si sono fatte sentire in occasione della sparatoria di San Bernardino nel dicembre del 2015. Se ci fu una cosa che catturò l’attenzione della nazione in quel disastro, fu la preghiera e la sua efficacia.
Molti hanno detto che i messaggi che invocano “pensieri e preghiere” sono nel migliore dei casi inutili, se non addirittura distruttivi. Prima tendevo a liquidare la maggior parte di queste reazioni come furore anticristiano, ma non è facile ignorare il Dalai Lama quando sottolinea: “Non possiamo risolvere questo problema [del terrorismo] solo con la preghiera. Io sono buddhista e credo nella preghiera. Ma gli esseri umani hanno creato questo problema e ora chiedono a Dio di risolverlo. È illogico. Dio direbbe: risolvetelo da voi, perché siete voi ad averlo creato”. Il Dalai Lama afferma il valore della preghiera ma afferma che essa non basta. Le sue parole mi hanno condotto a riflettere sulla preghiera, la politica e la nostra risposta alla tragedia.
Devo ammettere che chi critica questi inviti alla preghiera non ha tutti i torti. Per prima cosa, molti personaggi pubblici che hanno mandato “pensieri e preghiere” forse sono più interessati a consolidare il loro profilo morale che ad esprimere compassione. Probabilmente non è una coincidenza che molti dei politici che hanno espresso pensieri e preghiere siano strenui oppositori del controllo sulle armi.
Non ci sono poi dubbi che l’espressione “pensieri e preghiere” rischia di diventare stereotipata, una frase detta senza pensarci, come quando uno dice “Anche a lei” quando il cameriere augura buon appetito. Come ha scritto Ruth Graham, “Chi in questa settimana ha criticato i richiami alla preghiera non è contro la preghiera, è contro le banalità”.
Seconda cosa: ciò che conta sono le azioni. La preghiera può e dovrebbe condurre ad agire, soprattutto quando ce n’è urgente bisogno. Dopo la sparatoria di San Bernardino il senatore Chris Murphy ha twittato: “I vostri ‘pensieri’ dovrebbero riguardare i mezzi per fermare questa carneficina. Le vostre ‘preghiere’ dovrebbero essere richieste di perdono in quanto, ancora una volta, non avete fatto nulla”. Sarebbe effettivamente il massimo dell’ipocrisia se i cristiani pronunciassero ad alta voce le loro preghiere nelle piazze ma cessassero di compiere buone azioni per gli altri. Credo che questo bisogno di agire sia ciò che intende il Dalai Lama.
Terzo, la preghiera non è solo richiesta e non è solo per il tempo della crisi. “Liberaci dal maligno” è la preghiera principe dopo tali atti di violenza ed è una richiesta in sommo grado. Ma noi cristiani preghiamo anche per confessare la nostra fede in Dio, rendere grazie per la Sua generosità, esprimere la nostra contrizione o semplicemente lodare il Suo nome. Tutto questo è espresso molto bene nel Padre Nostro. Se vogliamo imparare qualcosa da queste critiche, possiamo chiedere a noi stessi: Quando chiedo a Dio di liberarmi dal maligno, lo faccio nel contesto di una relazione con Lui? Santifico il Suo nome? Prego perché venga il Suo Regno o Gli chiedo solamente di soccorrere l’angolino che mi appartiene?
Proprio perché chi critica non ha tutti i torti, è importante essere chiari su dove sbaglia.
Primo punto, il più importante: la preghiera di richiesta nel tempo della crisi è importante. La preghiera di richiesta gode di una cattiva stampa immeritata e viene spesso messa in cattiva luce da coloro che pretendono di essere spiritualmente sofisticati. Quando preghiamo davvero, è con la fede di un bambino che chiediamo a Dio qualcosa in preghiera. A volte Gli chiediamo direttamente aiuto, una soluzione immediata per qualcosa in particolare, ma possiamo anche chiedere conforto o saggezza, la Sua guida o la libertà spirituale; infatti, anche quando siamo in grado di vedere cosa dobbiamo fare, abbiamo comunque bisogno della Sua grazia e della Sua guida per farlo.
Inoltre, rivolgersi a Dio quando l’anima viene messa alla prova è coerente con 2.500 anni di fede giudaico-cristiana. Non sempre viviamo la nostra fede in Cristo, ma Cristo è lì e istintivamente ci volgiamo a Lui nel momento della prova. Certo, questo può sembrare un segno di fede debole, ma è comunque fede e forse è attraverso questo tipo di fede che momenti simili possono sfociare nella conversione.
Ecco perché trovo insoddisfacente la dichiarazione del Dalai Lama: sembra troppo “Aiutati, che Dio t’aiuta”, la famosa massima del Vangelo secondo Benjamin Franklin. Sì, l’essere umano pecca; sì, l’essere umano deve perseverare nell’evitare il peccato e pagare le conseguenze dei suoi peccati. Ma non saremo in grado di fare nulla di tutto questo senza l’aiuto di Dio. In questo senso non potrei essere più in disaccordo con questo titolo del New York Daily News: “Questo, Dio non lo riparerà”.
Inoltre, in tutte queste dimensioni la preghiera è un atteggiamento fondamentalmente contemplativo e ricettivo, atteggiamento fortemente carente nella politica dominata dall’ideologia. La preghiera e l’azione non si escludono a vicenda, come se tutte le nostre sciocche preghiere fossero l’unica cosa che ci impedisce di risolvere tutti i nostri problemi attraverso la ragione.
Diciamo chiaramente un’altra cosa: abbiamo bisogno di pregare se vogliamo guardare il maligno in faccia. Riconoscere la presenza del male nel mondo non è facile. Troppo spesso pensiamo di poter risolvere il problema del male con lo sviluppo della tecnologia adeguata o della politica giusta. Ma il male non è un problema tecnico. Dobbiamo essere disposti a fissarlo a lungo, con sguardo duro (sia ad esso che a noi stessi), se vogliamo imparare qualcosa da esso. La mia peggiore paura nei riguardi delle critiche alla preghiera è proprio il fatto che esse sono in gran parte radicate nella negazione della presenza del male negli affari umani.
Tutte le ragioni per cui preghiamo (chiedere aiuto, condividere le nostre angosce e le nostre perdite, gridare il nostro amore, confessare la nostra fede, rendere grazie, esprimere il nostro pentimento, lodare) sono degli atti che ci rendono persone migliori, cittadini migliori. Preghiamo per poter rispondere a questa sfida.
* Bill McCormick, SJ è texano, gesuita e studia alla Fordham University di New York, dove divide il suo tempo tra il fingere di essere un politologo in mezzo ai teologi e un teologo in mezzo ai politologi. È entrato nella Società di Gesù nel 2013 dopo aver studiato scienze politiche a Chicago e in Texas.
Testo originale: Prayer During Tragedy