Dove ero rimasta? Ai bivi dell’amore
Riflessioni di Marta*, semplicemente una madre
Dove ero rimasta? Già. Mi ero bloccata. È difficile raccontare questa lunga e complessa storia. Eppure voglio provare a farlo. Penso possa essere importante raccontare la storia di mondi che si incontrano, scambiandosi per altro, lasciando essere creduti altro. E nel racconto ritrovare il dipanarsi di emozioni, sentimenti, che fanno crescere, fino ad incontrarsi davvero e riconoscersi per quello che si è, null’altro che varianti di una identica umanità. Pensavo di poterlo fare senza il suo permesso.
Il permesso di Paolo, l’amico che è stato molto importante per me, in anni importanti. Mi sono accorta che parlare delle mie vicende senza avere il permesso di chi ne è stato più coinvolto di altri mi riesce difficile. Non si può parlare di qualcuno senza il suo permesso. E non si può parlare di se stessi senza parlare anche degli altri. Almeno, io non so parlare di me senza parlare anche degli altri, di quelli che c’entrano con la mia vita.
Era davvero tanto tempo che non vedevo Paolo, che non ci si parlava come oggi. Le storie finiscono, cambiano, pare a volte che muoiano, ma come il seme che solamente se muore permette la nascita di una nuova vita, così anche le storie, solo se si chiudono possono permettersi di rinascere a nuova vita, a nuovi ruoli, compiti, racconti.
Ecco. Oggi la mia vecchia storia con Paolo si è chiusa. Le sue parole di oggi mi hanno fatto capire che è finito un modo di stare assieme. Anzi. In realtà è finito da molto tempo. Lo sapevo, e anche Paolo lo sapeva. Solo che non ce lo eravamo mai detti. Lo sapevamo entrambi. E oggi ce lo siamo finalmente chiarito. Questo non vuol dire che non si sia più amici. Anzi. Ma non più così come una volta. E per me almeno era importante sapere direttamente da lui, dalla sua voce, come stavano le cose, che cosa pensasse davvero. Non solo intuirlo dai suoi comportamenti o dai suoi silenzi. Non si può essere così tanto amici, come lo siamo stati noi per molto tempo, ed esserlo impunemente, senza che questa amicizia lasci il segno, senza che scavi profondamente nella nostra vita lasciando traccia.
Bene. Adesso ho il suo permesso di raccontare la mia storia, che in parte è anche la sua. E racconterò. Continuerò a raccontare la mia versione. Che può essere anche diversa dalla sua. Magari un giorno scriverà lui la sua versione? Racconterò la mia perché vorrei che fosse una testimonianza di quello che è stato, di come si è svolto, del cammino percorso, quel cammino che mi ha permesso di non spezzarmi, quasi preparandomi a quella sera in cui Marco, mio figlio, mi ha detto: “Sono gay”.
Per quanto lo si sappia, o lo si intuisca, la verità di un figlio omosessuale, al giorno d’oggi, nel nostro Paese, è pur sempre una realtà dolorosa per un genitore, perché si è consapevoli, quando va bene, che essere omosessuali oggi, in Italia, non è esattamente la cosa più augurabile del mondo al proprio figlio. Eppure, perché non dovrebbe essere una bella cosa? Un figlio felice è pur sempre un figlio felice. E non c’è nulla di meglio, per un genitore, che avere un figlio realizzato e felice. Ma un figlio omosessuale può essere, oggi in Italia, davvero pienamente e a tutti i livelli realizzato e felice?
Bene. Dove ero rimasta? Ah! a quel periodo splendido e terribile della mia vita. Da un lato il matrimonio a rotoli, e dall’altro un nuovo amico nel mio cammino, disponibile ad aiutarmi a raccogliere i pezzi della mia vita, per ricomporre il puzzle di un nuovo quadro, che potesse stare assieme, che potesse avere un senso. Quella volta Paolo aveva gioco facile a non parlare di sé: ero io l’urgenza tra noi.
A dire il vero qualche volta ci aveva provato, prendendola molto alla larga. Mi raccontava ogni tanto di qualche suo amico omosessuale. Forse così, per tastare il terreno. E io subito gli raccontavo di quelli che conoscevo io. Poveri. Di quelli che conoscevo per lavoro. Di quello che mi raccontavano. Della vita misera che facevano. Perché da me venivano solo i miseri.
Dimostravo indubbiamente molta compassione, io, per gli omosessuali diseredati. Ma non si può parlare di se stessi con chi esprime questo genere di compassione. Oggi lo so. Allora non lo sapevo. Forse anche per questo Paolo non aveva mai provato a parlarmi davvero di se stesso, della sua omosessualità. Nè io avrei mai sospettato che quella fosse la realtà anche dell’amico di cui mi ero innamorata.
A volte mi chiedo come sarebbe andata se lo avessi saputo, se lui fosse stato libero di dirmelo. Di sicuro penso che mi sarei risparmiata tanto dolore, quello che è venuto nel periodo successivo al divampare del mio fuoco. Ma è andata così. Forse la storia è sfuggita dalle mani anche a lui. Forse.
I casi della vita sono molto strani. Mi chiese, in quel periodo, un colloquio una signora. Ufficialmente la sofferenza era per un figlio gravemente ammalato. Ma quando entrò nell’ambulatorio mi disse subito e chiaramente che il suo dolore principale era perché aveva da poco scoperto che il marito, all’epoca sessantenne, si era rivelato da qualche mese omosessuale, e tutto il suo mondo di moglie e di madre si stava ribaltando, senza riuscire a trovare un senso.
Il dolore per il figlio morente era immenso, ma la scoperta dell’omosessualità del marito era stata per lei dirompente. Ho pensato spesso, negli anni successivi, a quella donna. E al marito. Quanto dolore inutile! Quanta sofferenza siamo capaci di infliggerci, in nome di convenzioni, di regole “morali”!
E quale è lo scopo della nostra vita, di quella vita che Dio ci ha chiamato a vivere? Gesù stesso disse: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv, 15, 11.) E quando possiamo dire “Gioiosa” la nostra vita, se non realizzando in pieno la nostra umanità, per come è, per come siamo stati creati?
Se un uomo si innamora di un altro uomo, e ne è corrisposto, in quale altro modo può realizzare pienamente l’amore se non amando ogni giorno l’uomo di cui è innamorato?
E invece no. Qualcuno ha deciso che ci si può innamorare solo tra sessi diversi. Che innamorarsi di una persona del nostro stesso sesso è male, è peccato. E quindi che fare? Sposarsi, regolarmente. Per essere socialmente accettabili. Tenendo in piedi la storia fin che si riesce. Fino a scoppiare. E quando qualcosa scoppia, qualcuno si ferisce. Spesso più di qualcuno.
In quell’epoca la mia vita scorreva su due binari: da un lato i tentativi di salvare il mio matrimonio, cercando di volta in volta azioni, scelte, discorsi, posizioni che potessero far “rinsavire” mio marito, e dall’altra correndo a perdifiato nel verde del fresco prato dell’amore che sentivo per Paolo. La sua dolcezza, le sue attenzioni, il tempo che mi dedicava, le parole che mi diceva, i discorsi lunghissimi che ci scambiavamo. Tutto era nutrimento per me. E piano piano iniziai a pensare che un’altra vita era possibile anche per me. Del resto a Paolo lo avevo detto che mi stavo innamorando di lui, e lui mi aveva risposto: “Che bello!”. Anche se scappava dagli abbracci, anche se ogni tanto mi ricordava che lui “non provava per me le stesse cose che provavo io per lui”. Senza specificare altro. Io mi convincevo che prima o poi ce l’avrei fatta. Prima o poi. Perché non potevo rinunciare ad un amore così.
Del resto la vita in casa stava scivolando sempre di più verso lo sfacelo, e di certo non per colpa di Paolo, anzi. Se ho retto due anni di tradimenti, di aggressività, di follie di mio marito, ho retto grazie al fatto che Paolo mi sosteneva. Ma la mia attenzione si rivolgeva sempre di più ai segnali che volevo leggere in un certo modo. Senza che venisse né confermata né smentita, la mia lettura, da parte di Paolo. Chissà cosa provava, dentro di sé, lui, in quel tempo? Penso che non me l’abbia mai detto davvero. Del resto il gioco era andato così tanto avanti, che tornare indietro era sempre più difficile. Avrei avuto, io, le energie per far fronte, in quel periodo, oltre che al matrimonio a pezzi, anche alla “verità” di Paolo? Forse no. E comunque così è andata.
Così accumulavo ricordi, segni incontrovertibili, prove, che sempre di più mi dimostravano che anche Paolo si stava innamorando di me. Ne ero sempre più sicura. Non poteva essere altrimenti. Che senso avevano, se no, le piantine di fiori rossi che mi aveva regalato? Poteva regalarmele gialle, rosa, bianche. No, erano rosse. E che altro significa il rosso, se non “Amore”? Quando ci si vuole ingannare, ci si inganna facilmente. Solo che però i conti non mi tornavano. Possibile che si stesse innamorando di me e non avesse anche il desiderio quanto me di abbracci?
A dire il vero mi abbracciava. Sempre. Ogni volta che ci lasciavamo, ogni volta che terminava l’incontro. Ogni volta. Avrei concluso mille incontri con lui, pur di vivere mille suoi abbracci finali. Stavo così bene fra le sue braccia, che non mi pareva vero. E poi aspettavo solo un altro incontro, di lavoro o di amicizia che fosse, pur di vivere quel momento. A cui non avrei rinunciato, per nulla al mondo. Mi accontentavo di poco.
Ne parlai con altre amiche. Quelle più fidate. Due. Una perché era la mia amica più intima, e l’altra perché viveva molto lontano ed era molto saggia. In momenti diversi, ma entrambe lo avevano conosciuto. Ad entrambe sorse il sospetto che qualcosa in lui non andava. Qualcosa che lo bloccava. Magari un trauma, o una esperienza negativa. Che senso aveva, se no, che tra noi non accadesse nulla? Ci conoscevano, conoscevano me e conoscevano lui. Ci avevano visti assieme. Che lui avesse “qualcosa che non andava” era l’unica spiegazione. Anche se non si capiva cosa. Avrei dovuto essere ancora più paziente, ed aspettare il momento in cui lui si fosse aperto. Per me non era un problema, perché di pazienza sono immensamente dotata. Non avrebbe durato tanto il mio matrimonio, se io non fossi stata paziente. Ma questa volta, con Paolo, la pazienza aveva un buon fine.
Così arrivò l’estate di dieci anni fa. Dopo aver tentato in mille modi di salvare il matrimonio, mi fu dolorosamente evidente che non era possibile, e in un paio di mesi volai verso la separazione in tribunale. Poi finalmente avrei potuto vivere quell’amore che avevo tanto desiderato, e che fin lì mi aveva dato la forza di resistere.
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* Conosco Gionata.org ormai da anni. È stato il luogo che più ho frequentato in internet per cercare di capire un’altra vicenda fondamentale nella mia vita. Qui ho conosciuto persone molto belle. E ho avuto modo di conoscere di persona anche i webmaster.
Giorni fa, parlando con Innocenzo, gli ho detto che mi piacerebbe scrivere di queste mie vicende su Gionata, ma che non so neppure da dove cominciare, tanto è un groviglio, che non è facile dipanare.
“Fallo a puntate”, mi ha risposto. E allora, se volete, questa può essere una puntata, un po’ diario, un po’ ricordo. Un racconto in itinere. Che un po’ va avanti, e un po’ torna indietro, per cercare di capire, e trovare il filo di una vicenda normale, perché normale è innamorarsi e amare, anche se l’orientamento non è quello normalmente considerato normale. Non ho idea di come andrà a finire, perché si sta ancora svolgendo. E io non ho ancora compreso tutto. Anzi, a volte mi pare di non aver capito niente.