Dov’è il tuo Dio?
Riflessioni* di Jacques Musset** pubblicate sul sito Protestants dans la Ville (Francia) il 9 gennaio 2020, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
La presenza, accanto a me, di parenti e amici che pensano e vivono la loro esistenza in modo pacifico senza fare nessun riferimento a Dio non smette di interrogarmi da molto tempo: perché io continuo a credere in Dio?
Con alcuni di loro mi è capitato di condividere alcune convinzioni cristiane, ma poi si sono piano piano allontanati, troncando definitivamente il dialogo su tali temi. Cosa c’è di diverso tra me e loro? Abbiamo in comune una preoccupazione: quella di non condurre vite da sonnambuli, da automi, o da banderuole.
Condividiamo i medesimi valori umanisti, e ci sforziamo, bene o male, di metterli in pratica nella vita quotidiana: cerchiamo di accogliere il prossimo nella sua singolarità, di ascoltarlo, di accompagnarlo nei frangenti difficili della vita.
Accettiamo di prenderci delle responsabilità per il bene comune: per esempio, quando tre anni fa, nel nostro Comune, si parlava di ricevere una famiglia di migranti, ci siamo mobilitati, tutti insieme, per creare una buona accoglienza, e quell’esperienza di solidarietà ha rinsaldato i legami tra noi…
In poche parole, sono molto stupito nel constatare che i nostri modi di stare al mondo come esseri umani non sono poi così diversi. Il fatto di credere o meno in Dio non ci rende più o meno umani.
Ma allora, qualcuno obietterà, a cosa ti serve credere in Dio? Che cosa ti offre? A dire il vero, nulla che mi faccia essere più umano di altri. Non sono certamente dispensato dal cercare la mia strada, né protetto dalle inevitabili prove dell’esistenza, né so per illuminazione istantanea ciò che va fatto, non più di altri. Non ho soluzioni prefabbricate, posso sbagliare, esitare e dubitare.
Ecco però che qualcuno mi pressa: allora, dicci cosa di preciso ti fa credere in Dio. Prima di tutto devo dirvi che non credo più in un Dio onnipotente, creatore del cielo e della terra, che fa il bello e il cattivo tempo, che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, che ci consola delle nostre miserie mentre potrebbe benissimo alleggerircele già qui sulla terra, se glielo chiedessimo; non credo più in un Dio parafulmine, che ci protegge in cambio del culto che gli rendiamo, che ha affidato alle religioni il compito di interpretare la sua volontà e di farla rispettare.
Non credo più in un Dio la cui voce rimbomba attraverso il cielo aperto, che porta la storia in palmo di mano, che sacrifica il suo Figlio prediletto perché gli uomini peccatori possano riconciliarsi con lui, che si fa beffe delle leggi che reggono il mondo e gli esseri umani… Sono rappresentazioni di Dio che mi paiono indegne dell’uomo, in quanto lo deresponsabilizzano.
La rappresentazione di Dio credibile ai miei occhi la ricavo da una serie di domande che mi pongo da lungo tempo nell’invenzione quotidiana della mia vita. Come voi, tento costantemente di vivere una vita autentica, perché so bene che lì si trova il vero vivere, ma al tempo stesso non riesco a sfuggire alle sirene che mi invitano senza sosta al vivere facile, all’egocentrismo, alla rinuncia, e ambedue i modi vivere cercano di tirarmi dalla loro parte.
Mi stupisce però il fatto che, a dispetto delle sirene, nel corso degli anni la mia esistenza ha guadagnato in umanità: le mie scelte si sono rivelate feconde, le prove che ho dovuto affrontare mi hanno insegnato (a volte non senza dolore) ad accettare e ad appropriarmi della realtà, e in cambio sono maturato in maniera insperata; la pace che mi domina nel profondo non è alterata dalle agitazioni in superficie. E arrivo al mio dubbio permanente: com’è potuto accadere che, malgrado tutti gli ostacoli interni ed esterni, malgrado tutto, io sia potuto arrivare ad avere qualità umane che sessant’anni fa ignoravo?
Riconosco di essermi sforzato di obbedire a un’esigenza intima di apertura, di miglioramento, di probità, di lucidità, di ritorno alla sorgente. Ma da dove viene tale ispirazione, così pressante?
Voglio fare mia la risposta di Marcel Légaut, che chiamava tale ispirazione “movimento interiore”, e vi leggeva le tracce “di una azione che non appartiene al soggetto, ma che non può essere portata a buon fine senza il soggetto”; ne concludeva che si può “definire tale azione che opera in noi, l’azione di Dio, senza assolutamente dare di Dio (anzi, rifiutandosi di farlo) una rappresentazione ben definita, come quelle di cui in passato gli uomini hanno fatto uso in maniera così spontanea e puerile”.
Beninteso, tale presa di posizione non è certamente una prova, bensì l’interpretazione credente di un’esperienza di “trascendenza” comune a tutti gli esseri umani, la capacità umana di vivere a un livello di grande profondità, di autenticità, di apertura all’altro, di dono di se stesso. Immagino che tale capacità, amici miei atei, voi la spiegate con le risorse proprie dell’uomo, risorse nascoste e molto spesso sconosciute, alle quali è difficile credere, tanto sono poco sfruttate.
Ma il mistero rimane, come ci ricorda Pascal: “L’uomo oltrepassa infinitamente l’uomo”. Come rendere conto di una simile, stupefacente esperienza?
Sono lontano dall’esperienza che aveva Gesù del suo Dio? Non credo. Certo Gesù si esprimeva all’interno della cultura del suo tempo, si immaginava Dio come un Padre che sta nei cieli, che dà generosamente il pane a chi lo chiede, e che è sempre sul punto di far venire definitivamente il suo regno nel mondo, sbaragliando in quattro e quattr’otto le potenze di morte. È una rappresentazione che oggi non può essere la mia; ma se le nostre rappresentazioni divergono, le nostre esperienze di Dio possono convergere?
Gesù viveva in intimità con il suo Dio, in presenza del quale amava raccogliersi in solitudine, e in quei momenti tornava alle sue radici, alla sua forza interiore, approfondiva il suo impegno e la fedeltà alla sua missione.
Del resto, il criterio di fedeltà di Gesù al suo Dio era il suo impegno, in parole e in azioni, nella pratica della liberazione a beneficio degli emarginati, degli esclusi e delle vittime di ogni sorta di disumanizzazione. Così facendo, Gesù si poneva decisamente nella linea dei profeti, che lungo i secoli hanno ripetuto: il vero culto reso a Dio è “[che] scorra piuttosto il diritto come acqua e la giustizia come un torrente perenne!” (Amos 5:24).
Gesù ha portato all’estremo questa logica, mettendo sullo stesso piano i due grandi comandamenti: amare Dio e il prossimo (Marco 12:28-34), il che fa esclamare all’autore della prima lettera di san Giovanni: “chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto” (4:20). Questo è per me, discepolo di Gesù, il cuore del cristianesimo. Senza che riesca a rappresentarmelo, costituisce un richiamo costante a mantenere dentro di me quell’apertura che impedisce alla mia vita di chiudersi in se stessa, di rimpicciolirsi, di confinarsi, di diventare asettica, di addormentarsi.
È un richiamo che cerco di ascoltare attraverso le mille sollecitazioni degli avvenimenti quotidiani. A volte sono sordo, ma torna sempre l’esigenza di ascoltare e, bene o male, mi sforzo di tradurre il richiamo in azioni. È il grande esercizio vitale della mia esistenza, è la via della vita: io la vivo come tale.
In fondo, ciò che mi differenzia dai miei amici è il nome che diamo a ciò che nell’intimo ci ispira. La cosa più importante rimane l’esperienza di umanizzazione alla quale tendiamo tutti, sulla via della quale ci accompagniamo l’un l’altro.
Nel rispetto del senso che ciascuno assegna al suo cammino, dobbiamo continuare insieme nella sola avventura che valga, quella di crescere in umanità e di partecipare all’umanizzazione del nostro mondo.
* I passi biblici sono tratti dalla versione Nuova Riveduta.
** Jacques Musset è stato volta a volta cappellano nei licei, animatore di gruppi biblici, formatore nell’accompagnamento dei malati negli ospedali, e ha scritto diversi libri riguardanti l’avventura spirituale e cristiana.