Il drammatico triangolo tra religione e violenza: il persecutore
Testo del professore di teologia R. Ruard Ganzevoort* tratto da The Drama Triangle of Religion and Violence pubblicato nel saggio Religion and Violence: Christian and Muslim Theological and Pedagogical Reflections, a cura di Ednan Aslan e Marcia Hermansen Springer, editore Springer Fachmedien Wiesbaden (Germania), giugno 2017, pp. 22-23, terzo paragrafo, libera traduzione di Giacomo Tessaro
Se vogliamo esplorare il ruolo della religione all’interno del triangolo drammatico (tra religione e violenza), possiamo elaborare una serie di teorie psicologiche per ciascuna delle posizioni; ovviamente, tali teorie offriranno solo spiegazioni parziali e la varietà dei casi concreti è infinita.
Ci sono varie interpretazioni sul ruolo dell’aggressore. Le ricerche dei biologi evidenziano la correlazione della violenza con i processi neurofisiologici e gli ormoni dello stress; le teorie psicanalitiche spiegano la violenza con l’esperienza della frustrazione; la teoria dell’apprendimento sociale spiega la genesi e il rafforzamento del comportamento violento con il sostegno degli spettatori; la teoria della scelta razionale parla di come il comportamento violento serva allo scopo sociale di influenzare gli altri, esprimere le proprie rimostranze, stabilire una giustizia soggettiva e difendere l’identità sociale; la teoria dei sistemi evidenzia i livelli collettivi e strutturali di violenza profondamente radicati nei nostri sistemi sociali. Tutte queste teorie sono state applicate sia alla violenza che alla religione, ma raramente alla loro intersezione. Ovviamente l’applicazione sarà molto diversa se vista da destra o da sinistra.
Esistono specifiche ricerche, in varie discipline, sul nesso religione-violenza negli aggressori. Per prima cosa, molte prove indicano la forte correlazione tra religione e pregiudizio. Anche se il pregiudizio in sé non è la stessa cosa del comportamento violento, può essere considerato molto affine. Alcuni dei dati mostrano che la religiosità è collegata a un comportamento pro-sociale, ma la maggior parte di essi mostra che la religione si collega all’etnocentrismo, all’autoritarismo, al dogmatismo, al pregiudizio religioso e razziale. È una relazione che sembra essere curvilinea: i livelli più alti di pregiudizio di riscontrano tra chi è moderatamente religioso.
La seconda area di ricerca sono gli studi sociopsicologici e sociologici sulla violenza religiosa. Queste discipline affermano che la violenza religiosa può essere compresa in modo corretto solamente prendendo sul serio la dimensione religiosa. Anche se, in generale, il nesso tra religione e violenza è debole e non sempre riconosciuto, e contrasta con la tendenza dei credenti a prendere le distanze dai militanti e ad affermare che la religione autentica esclude la violenza, studi specifici dimostrano come la dimensione religiosa sia inestricabilmente legata al fenomeno della violenza.
Charles Selengut ha identificato alcuni elementi fondamentali per comprendere la violenza religiosa. Il primo è che le basi per la giustificazione della violenza si trovano nei testi delle tradizioni religiose: tali testi costituiscono delle griglie di riferimento per chi vuole condurre una guerra santa, più forti delle barriere sociali e legali che dovrebbero inibire la violenza.
Il secondo è il processo psicologico che coinvolge l’inconscio freudiano, il desiderio mimetico girardiano e la teoria della dissonanza cognitiva. Il terzo elemento è l’autocomprensione apocalittica di certi gruppi e sette, con le loro comunità utopiche e la loro propensione alla violenza. Il quarto è lo “scontro di civiltà” di Huntington, dove le identità di gruppo vengono simbolizzate come religioni. Il quinto, con cui torniamo all’ambito psicologico, è il concetto di sofferenza e martirio, che facilmente può indurre le vittime ad accettare e sopportare la violenza invece di opporre resistenza.
Per Mark Juergensmeyer il concetto unificante per interpretare la violenza religiosa è quello di performance: la violenza come performance assomiglia al rituale religioso e si basa sulla tendenza dell’immaginazione religiosa ad assolutizzarsi. La violenza religiosa si esplica in una battaglia simbolica in cui sono in gioco il potere e la verità e si radica nella prospettiva metafisica della guerra cosmica tra il bene e il male, con i suoi martiri e i suoi demoni e la sua visione manichea del mondo, che per gli psicologi è un processo patologico noto come “scissione”.
Per essere più chiari, non possiamo concludere che, in generale, ci sia un effetto diretto della religione sulla violenza. Gli aggressori possono utilizzare la religione come giustificazione per le loro azioni oppure assegnarle un ruolo molto più fondamentale; nel caso dei populismi di destra e della violenza antireligiosa, invece, l’ideologia prende il posto della dimensione religiosa.
* Ruard Ganzevoort é professore di Teologia pratica presso la Vrije Universiteit di Amsterdam (Olanda). Le sue principali aree di interesse sono la teologia e la psicologia pastorale, la psicologia della religione, gli approcci narrativi, i traumi e la cultura popolare. Ha pubblicato pubblicato 16 libri e più di 130 pubblicazioni scientifiche o professionali, è stato presidente dell’Accademia Internazionale di Teologia Pratica, dal 2007 al 2009, attualmente è presidente della Società internazionale per la ricerca empirica in teologia.
Testo originale: The Drama Triangle of Religion and Violence