Il drammatico triangolo tra religione e violenza: il testimone
Testo del professore di teologia R. Ruard Ganzevoort* tratto da The Drama Triangle of Religion and Violence pubblicato nel saggio Religion and Violence: Christian and Muslim Theological and Pedagogical Reflections, a cura di Ednan Aslan e Marcia Hermansen Springer, editore Springer Fachmedien Wiesbaden (Germania), giugno 2017, pp. 25-27, secondo paragrafo, libera traduzione di Giacomo Tessaro
Nel drammatico triangolo tra religione e violenza la terza posizione è quella del “testimone” o dello “spettatore” e comprende molti ruoli diversi, accomunati dall’essere testimoni della violenza. Nel triangolo drammatico di Karpman la terza posizione è quella del salvatore, che cerca di intervenire a favore della vittima; in altri casi, tuttavia, il ruolo del testimone può essere quello di esprimere il proprio dissenso a quanto accade, approvare al contrario la violenza o semplicemente essere testimone dell’orrore. Per cercare di comprendere il ruolo della religione dalla posizione del testimone, possiamo cominciare da quanto accade quando si assiste a una violenza.
In questo campo esistono poche ricerche, ma di grandissima rilevanza. Alcuni studi hanno cercato di spiegare il significato dell’assistere alla violenza negli sport, nei videogiochi, nei film, nei programmi televisivi e nelle religioni. Secondo alcuni, la violenza è ed è sempre stata un elemento importante della cultura popolare, come dimostrano le lotte dei gladiatori, i tornei medievali, i giochi d’azione, i film horror e così via.
Evidentemente assistere alla violenza (vera o finta che sia) esercita un certo richiamo, più sui ragazzi e gli uomini che sulle ragazze e le donne. Gli effetti di tutto questo sono molto vari: alcune ricerche mostrano una convincente correlazione tra l’assistere alla violenza e un comportamento aggressivo o violento, ma altre ricerche mostrano come effetto l’apatia, un livello più alto di stress e possibili traumi. Queste differenze mostrano come, assistendo alla violenza, si può passare dal ruolo di testimone a quello di aggressore o di vittima.
Il nesso tra l’assistere alla violenza e la religione non è casuale. Per prima cosa, guardare atti violenti ha un’aura infausta che al tempo stesso affascina e atterrisce; mi sembra corretto definire la violenza come una dimensione del Sacro, nella suo doppio ruolo di dare la vita e distruggere. Il mysterium tremendum ac fascinans (come lo ha definito Rudolf Otto) lo troviamo anche nella violenza ed è qui che i tabù servono a mediare l’incontro con il Sacro.
Un secondo nesso diretto sta nelle immagini e nei racconti violenti che caratterizzano le tradizioni religiose: la violenza nel senso letterale del termine compare, per esempio, nei racconti biblici dell’esodo degli israeliti dall’Egitto, della crocifissione di Gesù e del giudizio finale; è poi presente in certe pratiche religiose come il sacrificio, i rituali di iniziazione (per esempio, la circoncisione) o nel terrore ispirato dalla religione. A livello simbolico, rituali come l’Eucarestia cristiana (modello del sacrificio) e il battesimo (simbolo dell’annegamento) esprimono una violenza metaforica. L’immaginario religioso è solitamente impregnato di violenza, come possiamo vedere nei numerosi racconti di santi e martiri; questo inevitabilmente rende accettabile assistere alla violenza.
L’autorizzazione religiosa alla violenza può trasformarsi in complicità esplicita. Il ruolo del testimone può essere funzionale al mantenimento delle strutture di violenza. In molti casi, gli aggressori possono esercitare violenza senza conseguenze perché agiscono in un sistema sociale che conferma la loro posizione di potere; di conseguenza, i loro atti di violenza non vengono nemmeno considerati tali. Le vittime vengono escluse dalla comunità e gli aggressori conservano la loro posizione.
Non è facile per una comunità riconoscere la sua possibile complicità o affrontare il problema se la religione della comunità stessa abbia favorito la violenza; essa rifiuta di capire che la violenza è parte delle sue tradizioni, della sua vita comunitaria e del suo retaggio religioso.
Secondo la psicologia sociale, l’identità di gruppo si costruisce sulla differenza tra chi è dentro e chi è fuori, perciò qualsiasi comunità religiosa si sforza di aumentare la conformità al suo interno e di diminuire le somiglianze con l’esterno. Le comunità più di successo hanno confini chiari e un certo senso di esclusivismo. La comunità richiede sempre un minimo di impegno esclusivo per essa perché possa essere significativa per i suoi membri.
Tale esclusivismo può essere etichettato come violento perché obbliga i suoi membri a conformarsi e offrire sacrifici, come offerte materiali, adattamento intellettuale e restringimento della libertà di parlare e agire. La comunità religiosa evoca il potere divino per ottenere tutto questo e resistere a queste pressioni equivale a resistere a Dio; al tempo stesso, l’incontro con chi sta fuori o con altri gruppi religiosi è occasione di conflitto, di pretese di verità, un conflitto di dèi, per così dire.
Osservato dal ruolo di testimone, il nesso tra violenza e religione è solitamente piuttosto opaco in quanto la complicità, l’esclusione sociale, l’avversione verso chi non fa parte del gruppo e la violenza culturale non vengono percepite come tali. I testimoni, in realtà, ritengono che il loro ruolo sia più neutrale, se non benefico; in ogni caso, è probabilmente proprio nel ruolo di testimone che religione e violenza trovano il loro nesso più stretto.
Tutto questo solleva nuovi e importanti interrogativi sul ruolo del testimone nelle attuali crisi del terrorismo e dei rifugiati. I testimoni (in particolare gli attori sociali e l’opinione pubblica in Paesi come l’Europa occidentale, la Russia e gli Stati Uniti) giocano un ruolo significativo nel decidere chi sono le vittime e chi sono gli aggressori.
In generale, sembrano poco disponibili ad attribuire il ruolo di vittima alla massa dei rifugiati e cercano di limitare il numero di persone che possono legittimamente essere identificate come tali. C’è poi la tendenza a identificare le vittime con gli aggressori: per esempio, quando i richiedenti asilo vengono considerati potenziali terroristi. Infine, la maggior parte degli attori sociali non riconoscono il loro ruolo storico nell’emergenza attuale.
Conclusione
La relazione tra religione e violenza è complessa e dinamica. Nell’attuale crisi europea (terrorismo e grande numero di richiedenti asilo) il triangolo karpmaniano di vittima, aggressore e testimone cambia costantemente, il che rende molto complicato arrivare a un’analisi condivisa della situazione e superare l’attuale polarizzazione sociale e politica.
* Ruard Ganzevoort é professore di Teologia pratica presso la Vrije Universiteit di Amsterdam (Olanda). Le sue principali aree di interesse sono la teologia e la psicologia pastorale, la psicologia della religione, gli approcci narrativi, i traumi e la cultura popolare. Ha pubblicato pubblicato 16 libri e più di 130 pubblicazioni scientifiche o professionali, è stato presidente dell’Accademia Internazionale di Teologia Pratica, dal 2007 al 2009, attualmente è presidente della Società internazionale per la ricerca empirica in teologia.
Testo originale: The Drama Triangle of Religion and Violence