«È nostro figlio»: per uno sguardo non clericale sull’omosessualità
Articolo di Giorgio Bernardelli pubblicato sul sito cattolico vinonuovo.it il 4 ottobre 2015
«Alcuni nostri amici stavano organizzando il loro raduno natalizio di famiglia quando il loro figlio gay ha detto che voleva portare anche il suo partner. Queste persone credevano pienamente nell’insegnamento della Chiesa ed erano consapevoli che i loro nipoti li avrebbero visti accogliere il figlio e il suo partner in famiglia. La loro risposta si può riassumere in tre parole: “È nostro figlio”». Ve la ricordate questa frase? E vi ricordate anche dove venne pronunciata? Eccovi un piccolo pro-memoria: accadeva giusto un anno fa, in Vaticano, nell’aula del Sinodo (non fuori) dove come ricorderete si stava già discutendo di famiglia. Per essere precisi la pronunciò la prima coppia che – in qualità di uditrice – prese la parola: i coniugi australiani Ron e Mavis Pirola, sposi con 55 anni di matrimonio alle spalle. E fu pronunciata nell’ambito di un intervento che diceva anche tante altre cose importanti sul tema dell’attrazione sessuale nella vita di coppia (e che – lasciatecelo ricordare – noi di VinoNuovo fummo tra i primi a rilanciare).
Queste parole mi sono venute in mente ieri mentre leggevo il clamoroso racconto di mons. Krzysztof Charamsa sulla sua omosessualità, con tanto di conferenza stampa alla vigilia dell’inizio del nuovo Sinodo. Ci ripensavo e vi vedevo tutta la differenza tra due diversi approcci su un tema che certamente come Chiesa facciamo ancora (tutti) una gran fatica ad affrontare sul serio. Da una parte la disarmante semplicità di una coppia che – a partire dal proprio vissuto di genitori – si dà una risposta che apre un cammino tutto da costruire. Dall’altra il gesto plateale di un teologo fino a ieri in uno dei dicasteri più in vista della Curia Romana, che per porre il problema apre i cassetti di un mondo che non scopriamo certo oggi come un po’ troppo asfittico. E che – prendendo come metro di giudizio la propria situazione (e probabilmente altre simili) – con l’intenzione di fare chiarezza mischia due questioni che sono tra loro diverse: l’atteggiamento della Chiesa verso le relazioni omosessuali e il celibato del clero.
Penso si intuisca chiaramente quale sia la mia opinione sui due modi di impostare la questione. So di essere decisamente drastico, ma a me pare di vedere nel coming out di mons. Charamsa la quintessenza del clericalismo. Un atteggiamento che non cambia per il solo fatto di andare in scena in versione LGBT: la ricerca di un pulpito bello grosso e ai primi vespri della festa per fare chiarezza su una vicenda personale, il Vaticano (pubblico e privato) come solo metro di misura per giudicare l’atteggiamento cattolico medio nei confronti di questo tema, la convinzione che se «un prete importante» si espone finalmente di questo tema nella Chiesa si parlerà.
Ecco: io credo che questo modo di fare alla fine non aiuti proprio nessuno a fare chiarezza. Basta leggere le reazioni del giorno dopo per trovare sostanzialmente tre posizioni: gli entusiasti («finalmente qualcuno che ha il coraggio di dire come stanno le cose»), i complottisti («ecco che cosa si sono inventati per impallinare il Sinodo») e i flagellanti («ci mancava solo questa…»). Tralasciando ovviamente la quarta che comunque gira in rete – quella degli omofobi tout court – anche se alla fine penso che oggi sia la categoria che gongola di più, per il bersaglio ghiotto che si ritrova inaspettatamente tra le mani.
Mi chiedo allora: nell’accettazione (vera e reciproca) delle diversità, la Chiesa – e dentro di essa la comunità omosessuale – hanno più possibilità di fare passi avanti con l’uscita del monsignore o con il pranzo di Natale citato nella loro testimonianza un anno fa al Sinodo dai coniugi Pirola? Ho già nelle orecchie l’obiezione: “ma quelli mica stanno in Vaticano…”. Ecco, appunto. Io credo che il problema stia qui piuttosto che altrove. Che sia ora di portare davvero le famiglie in Vaticano e non solo con la candela in mano in piazza San Pietro. Di dare più spazio alla vita e alle relazioni concrete (compresa un’affettività vissuta giorno per giorno in un rapporto di coppia) che alle lezioni di antropologia nell’elaborazione del magistero.
Provo a dirlo in un altro modo, spero sufficientemente chiaro: ho l’impressione che su questo tema dell’omosessualità dovrebbero essere le famiglie molto più dei preti a parlare. Non per il gusto di mettere a tacere chi ha il colletto bianco, ma perché nella propria esperienza c’è qualcosa che dovrebbe renderle più aperte a farsi delle domande sulla sfera sessuale nella vita delle persone.
Certo, lo so anch’io che le famiglie oggi vivono mille difficoltà. Ma chi se non loro – a partire dalle proprie storie concrete come quel pranzo di Natale – può raccontare che è possibile scoprire dei valori anche dentro una relazione omosessuale senza al contempo mettere in discussione l’unicità della propria vocazione, quella di un uomo e una donna che hanno scelto nel matrimonio di aprirsi alla vita?
Certo non è un percorso facile.
È più semplice la strada del prete che in Vaticano se ne esce allo scoperto con il più classico «ma sotto sotto qui fanno tutti così…». Non so se sia vero oppure no, ma sarebbe comunque ora di spiegargli che il mondo non finisce in Vaticano e nelle sagrestie. E che non può essere quello il punto di vista per affrontare una questione che è ben più vasta rispetto alla presunta non osservanza del celibato (omosessuale o meno) da parte del clero.
È più semplice la strada delle famiglie che lo identificano immediatamente come l’unica mela marcia, continuando a guardare a ciò che ha a che fare con l’omosessualità come una forma di aggressione. Continuare a dividere nettamente il campo tra “noi” e “loro”. Salvo poi guardare con commiserazione (o tenere ben nascosto) l’amico, il parente o la situazione che ci porta ad affrontare questo tema non per l’ultima polemica che dilaga sul web, ma per qualcosa che ha a che fare con la vita di qualcuno che conosciamo bene.
Ed è più semplice anche la strada di chi nel movimento LGBT oggi pensa che l’uscita di Charamsa sia un successo. Smaschera alcune ipocrisie, certo. Ma aiuta davvero a capirsi reciprocamente? O alla fine non diventerà un alibi in più per continuare a non confrontarsi sul serio sul significato della sessualità nel progetto di Dio sull’uomo e sul mondo?
«È nostro figlio». Io credo che parta da qui l’unica strada che la Chiesa ha davanti per uscire dalle ambiguità nel rapporto con l’omosessualità. Con «nostro figlio» è ora di cominciare a cercare insieme una strada. Ci sono già esperienze importanti in questo senso (in Italia ad esempio www.gionata.org). Facciamole dialogare con il vissuto delle nostre famiglie. Proviamo con umiltà a porci delle domande insieme, prima di snocciolare risposte. È nostro figlio, non il monsignore di turno che ce lo chiede. Perché non dovremmo rispondergli?