E’ tempo di ritrovare lo spirito del Vaticano II
Riflessioni di Gaston Piétri, prete di Ajaccio, tratte dal settimanale cattolico La Croix (Francia), 25 agosto 2012, liberamente tradotto da www.finesettimana.org
Vi sono degli accenti, perfettamente fedeli alla tradizione cristiana più antica, che nell’opera del Vaticano II sono apparsi come innovatori. Sono quegli stessi accenti che oggi non solo si attenuano, ma addirittura scompaiono troppo frequentemente dalle parole e dalle pratiche di certe nostre comunità.
Per esprimere la condizione comune dei credenti in Cristo, la Costituzione Lumen Gentium mette al primo piano l’uguaglianza: “sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti cooperano all’edificazione del corpo di Cristo” (n° 31).
Al di fuori di questa uguaglianza ci sarebbero altrimenti dei cristiani di serie A e dei cristiani di serie B? Il Concilio non manca, nello stesso testo, di notare la differenza delle funzioni, e tra queste funzioni quella del pastore. Perché parlare così poco dell’uguaglianza e aver così poca audacia per viverla in maniera più visibile? Senza dubbio per timore di “far scomparire” i pastori nella comunità. Per insufficiente comprensione della vera natura delle differenze.
E in definitiva per una deplorevole svalutazione di quel nome comune di “cristiano” che i discepoli hanno ricevuto un giorno ad Antiochia (Atti 11,26). Ma che cosa ci sarebbe per noi, al di sopra dell’onore di essere cristiani, cioè di Cristo? È stato detto, ma bisogna ripeterlo: non ci sono “supercristiani”. Talvolta si sente dire “i cristiani e i pastori”. Enunciare in questo modo la distinzione non ha alcun senso nella logica del cristianesimo.
Nel decreto sul ministero e sulla vita dei presbiteri, il Vaticano II ricorda quanto il ministero dei preti sia insostituibile “nel e per il popolo di Dio”, e precisa subito: “sono discepoli del Signore come gli altri fedeli (…). In mezzo a tutti i battezzati, i presbiteri sono fratelli dei loro fratelli, membra dello stesso e unico corpo di Cristo, la cui edificazione è affidata a tutti” (n° 9). La relazione di fraternità è la più fondamentale e, se non fosse visibile nella vita quotidiana, l’aspetto di “paternità spirituale” che il ministero pastorale comporta si snaturerebbe perdendo il suo senso evangelico: “avete un unico Padre, e siete tutti fratelli”.
Durante “l’anno sacerdotale”, abbiamo fatto molta fatica, nell’abbondanza delle pubblicazioni, a scoprire delle tracce nette e insistenti di questo importante richiamo conciliare. Di che cosa abbiamo paura? Abbiamo bisogno di vocazioni al ministero presbiterale. Crediamo forse che la valorizzazione urgente di questa vocazione possa essere feconda e soprattutto ben compresa, se non tiene seriamente in considerazione il “rientro” del ministero del prete all’interno del popolo di Dio come ve lo include la dinamica di Lumen Gentium?
Nel decreto sull’ecumenismo, il Concilio raccomanda una presentazione della fede cristiana che metta nel giusto posto, cioè al centro, ciò che è direttamente “in rapporto con i fondamenti della nostra fede” (n° 11). A questo titolo parla di “una gerarchia delle verità”. Le devozioni hanno la loro ragion d’essere. Illustrano talvolta in maniera opportuna un aspetto o un altro del Mistero cristiano.
Ma in altri momenti l’eccessiva e persistente attenzione su certi aspetti finisce per occultare ciò che è al cuore della Rivelazione del Dio di Gesù Cristo e di conseguenza ciò che è comune tra confessioni cristiane. L’identità cattolica manifestata da queste devozioni nate nel corso dei secoli, deve essere subordinata alla specificità cristiana in ciò che essa ha di essenziale. È quella che bisogna far vedere innanzitutto.
La Costituzione Gaudium et Spes esamina l’originalità della Chiesa, che non può essere ridotta al alcun modello politico. Ma lo fa situando questa particolarità nella società in cui la Chiesa è solidale con tutti i protagonisti della vita comune.
Il Concilio non esita a presentare la Chiesa e la società in situazione di reciprocità. Ciò che la Chiesa dona al mondo non è slegato da ciò che la Chiesa riceve dal mondo (n° da 41 a 44). È da Cristo stesso che noi riceviamo incessantemente il Vangelo della salvezza per proporlo al mondo. È “dalla storia e dal genere umano” che la Chiesa riceve nuove
indicazioni per la sua presenza effettiva tra gli uomini di questo tempo. Non possiamo prendere a pretesto degli errori individuali e collettivi dei nostri contemporanei per porre la Chiesa al di sopra di una società che non avrebbe nulla da dirci.
L’idea democratica, ad esempio, non si applica alla Chiesa allo stesso modo che nella società politica. Essa può e deve tuttavia ispirare i modi di relazione all’interno della comunità cristiana. Non basta ripetere fino alla nausea che “la Chiesa non è una democrazia”.
Sarebbe meglio mostrare ciò che può offrire di vivificante un sano spirito democratico nell’attuazione di quel “momento comune” che è l’espressione del popolo di Dio. Ci crediamo veramente a questo “momento comune” dove lo Spirito stesso “parla alla Chiesa”?
Questi accenti non esauriscono certo l’opera del Vaticano II. Tuttavia è necessario rivivificarli se la Chiesa ci tiene a che non si stemperino quegli elementi importanti del rinnovamento voluto dal Concilio.
La vera Tradizione ecclesiale vi perderebbe in parte il soffio che si è manifestato cinquant’anni fa e di cui la comunità cristiana ha più che mai bisogno per essere fedele testimone dello Spirito che “rinnova la faccia della terra”.