Ecce homo, una meditazione teologica
Articolo di Giuseppe Ruggieri pubblicato in “Esodo”, n. 3 di Luglio – Settembre 2018
Nel vangelo secondo Giovanni, leggendo il racconto del processo a Gesù, troviamo scritto: “Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!»” (Gv 19,4-5).
Jean Zumstein commenta così la scena, cogliendone soprattutto il carattere “solenne e teatrale”: “Pilato fa la figura dell’eroe. Egli precede Gesù e lo introduce davanti ai «giudei» come si introduce un sovrano. Gesù porta le insegne grottesche della sua regalità ridicolizzata: la corona di spine e il manto scarlatto. Cosa significa questa messa in scena?
Secondo il testo, è la terza volta che Pilato esce fuori verso i «giudei». La prima volta lo fa per ascoltare la loro accusa contro «quest’uomo» (18,29). La seconda volta, dopo l’audizione di Gesù, per affermare la sua innocenza (8,38b). La terza volta – e sta qui il crescendo – esce non soltanto per confermare l’innocenza di Gesù, ma per presentarlo loro, e dimostrare la legittimità del suo punto di vista (“Ve lo porto fuori perché sappiate che io non riscontro un capo di accusa in lui”).
In che cosa la presentazione teatrale di Gesù (v. 5a) può dimostrare la sua innocenza? Per qual motivo Pilato pensa di convincere in questa maniera le autorità giudaiche (cf. v. 6) ad abbandonare la loro accusa? Gesù è presentato alla folla rivestito delle sue insegne regali. Pilato lo fa apparire in una tenuta grottesca, umiliato e ridicolo. Il pubblico deve quindi cogliere che, contrariamente alle accuse, Gesù non ha nulla della dignità, né della potenza di un re. Non è un eroe popolare o un rivoluzionario pericoloso, ma un povero diavolo, una figura penosa e miserabile che nessuno deve prendere sul serio. Pilato intende provare l’innocenza di Gesù facendo risplendere la sua debolezza, la sua inconsistenza e la sua autorità irrisoria. Il Cristo di Pilato non deve suscitare timore ma va compatito, non costituisce una minaccia, ma è una patetica caricatura”¹.
Ritengo che questo sia il punto in cui il racconto giovanneo della morte di Gesù si avvicina maggiormente a quello dei Sinottici, soprattutto di Marco.
Infatti, mentre nel racconto del quarto vangelo la passione di Gesù viene presentata per lo più come la glorificazione dell’inviato dal Padre che domina la sua morte, ne è addirittura il regista seguendo la sceneggiatura scritta nel libro sacro, qui si apre uno spaccato che presenta Gesù come figura penosa e miserabile, preda della violenza e dello scherno degli uomini forti.
Ma proprio questa è la prospettiva del primitivo racconto della passione di Gesù, che i Sinottici, a loro volta, hanno glossato e interpretato.
Nel racconto dei Sinottici, infatti, la morte di Gesù viene collocata nella prospettiva del Salmo 22, e Gesù viene identificato al giusto che viene abbandonato da tutti, schernito, beffeggiato, come colui che, nella sua angoscia mortale viene abbandonato persino da Dio e che “grida” questo suo stato d’animo al mondo. Anzi, in Marco il “grido” dell’abbandono è l’unica parola che l’evangelista mette in bocca al Crocifisso. Ed è proprio per questo che il centurione, cioè la comunità dei credenti provenienti dall’ellenismo, “vistolo spirare così” (Mc 19,37), lo confessa come Messia, figlio di Dio, mettendo, per così dire, il sigillo finale al racconto di Marco, le cui prime parole erano state proprio quelle della confessione di fede che sarà messa in bocca al centurione: “Inizio del vangelo di Gesù Messia, figlio di Dio” (Mc 1,1)².
È come se Marco ci dicesse: non puoi guardare Gesù crocifisso senza guardare, al tempo stesso, il numero sterminato dei giusti vilipesi, soli nel loro dolore, umiliati dai violenti. L’invito di Marco, quindi, non è a un gesto di pietà, ma a una vera e propria confessione di fede messianica: se hai lo sguardo del credente devi cogliere la dignità proprio di quell’uomo del quale il salmo 22, quello che nel Nuovo Testamento diventa il filtro, attraverso il quale contemplare la croce, dice: “Ma io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo” (vv. 7-8).
Solo se abbiamo questo sguardo, allora ci porremo davanti al mistero di Dio stesso e al mistero dell’uomo, in un’assoluta coincidenza, con uno sguardo “semplice”, all’interno di un’unica prospettiva. Perché appartiene alla “forma di Dio”, è una sua proprietà specifica, quella di non restare rinchiuso nella sua identità divina e assoluta, da difendere “come una preda”, ma di “svuotare se stesso” per assumere, invece, la “forma di uno schiavo” (cf. Fil 2,6-11), per cui il Figlio suo, il “Messia nel quale abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,10), ormai assomiglia agli uomini, anzi a quest’uomo che Pilato mostra ai giudei, a un uomo che i suoi amici hanno ormai lasciato al suo destino, e che vive in un’angoscia tremenda, quella di sentirsi abbandonato anche da Dio.
Allora dobbiamo dire che Dio è così e diventa visibile solo così, perché Dio non l’ha visto nessuno, ed è solo il suo Figlio unigenito, colui che dall’eternità vive “rivolto al seno del Padre” (eis ton kolpon tou patros) e ne conosce quindi i sentimenti più profondi, che ce lo ha dispiegato perché noi potessimo adorarlo nella verità del suo essere, e non già in un luogo sacro chicchessia (cf. Gv 1,18 assieme a Gv 4,21-24).
E noi, allora ancora adesso, ogni giorno incontriamo Gesù, Figlio dell’uomo che verrà a giudicare gli uomini e quindi siamo messi davanti al mistero di Dio, ogni qual volta incontriamo un uomo affamato, assetato, forestiero, nudo, ammalato, carcerato (Mt 25,42-43). È semplicemente stupido parlare, a questo proposito, del primato della dimensione verticale rispetto alla dimensione orizzontale della vita cristiana. Il campo della fede nel Padre di Gesù di Nazaret non è misurato da un’ascissa e un’ordinata, ma solo dall’incontro con l’altro, e quindi “se uno dice: Io amo Dio e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Comprendere la differenza tra la geometria e l’incontro umano, tra la logica dell’una e quella dell’altro, costituisce solo il primo passo per avvicinarci al mistero dell’uomo e al mistero di Dio.
Ma un’altra cosa ancora ci suggerisce la parabola del giudizio che il Figlio dell’uomo opererà alla fine della storia, così come viene raccontata al capitolo 25 del vangelo secondo Matteo: ogni qual volta incontriamo un uomo nel bisogno viene prefigurato in anticipo il futuro, quello in cui verificheremo il tramonto dello “scenario specifico di questo mondo” (1Cor 7,31), perché sorgano i cieli nuovi e la terra nuova.
Cambia, quindi, per il credente, la visione dell’uomo, ma anche della storia collettiva degli uomini tutti. L’uomo vilipeso, denudato della sua dignità, vittima dei violenti e del loro potere, è il vero centro della storia.
Questa è la visione stessa di Dio, il modo in cui Dio guarda le vicende umane.
Questo è lo sguardo delle Beatitudini, centro della predicazione di Gesù, trasmesse a noi in una duplice versione, quella di Matteo e quella (probabilmente più vicina alle parole autentiche di Gesù) di Luca. Le Beatitudini non contengono una considerazione sul valore degli atteggiamenti del povero, dell’afflitto, del mite, di colui che ha fame di giustizia, di colui che è misericordioso, del puro di cuore, dell’operatore di pace, del perseguitato per la giustizia o perché discepolo del Messia (ma noi possiamo completare la lista a nostro piacimento, così come ha fatto Matteo sul testo originario). Se fosse questo il loro significato, cioè quello di offrirci una valutazione etica, sarebbero contraddittorie, giacché tra i “beati” per il loro comportamento virtuoso, rientrerebbero coloro che vivono una condizione che non hanno scelto, che non esprime un loro atteggiamento virtuoso, ma che è loro imposta: come i poveri, gli afflitti e i perseguitati. Le Beatitudini, piuttosto che descrivere una scala della perfezione morale, aprono i nostri occhi per guardare il mondo imparando come Dio stesso guarda al povero, al mite, al puro di cuore, al perseguitato per la giustizia, a colui che piange etc.
Le Beatitudini, cioè, non contengono in primo luogo un elenco “etico” delle virtù umane, ma descrivono i sentimenti di Dio, l’oggetto della sua compiacenza. Tra i “beati” compaiono uomini e donne che si distinguono o per qualità virtuose, ma tutte centrate sulla “mitezza e sull’umiltà del cuore” (rifiuto della violenza, pratica della misericordia, costruzione della pace, fame di giustizia, purezza/semplicità delle intenzioni) o per una condizione subita, imposta dagli altri: i poveri, gli afflitti, i perseguitati da parte dei violenti ingiusti, dai nemici del Messia. La povertà come tale non
è una virtù, anzi, secondo tutta la testimonianza biblica, contraddice il piano di Dio sull’uomo; e lo stesso si può dire dell’afflizione, della condizione del perseguitato.
Possiamo dire, allora, che sia il testo di Matteo che quello di Luca soprattutto, dividano agli occhi di Dio la storia attualmente vissuta dagli uomini e dalle donne, in vittime sconfitte, da una parte, e vincitori violenti dall’altra, come radicalmente diversa, altra rispetto alla storia voluta da Dio. L’ebreo Gesù, infatti, parlava nella lunghezza d’onda dei Salmi del suo popolo, con la domanda che li attraversa tutti, sul futuro del povero, del mite, del giusto, rispetto a quella del ricco che aveva costruito la sua ricchezza sulla violenza e sull’ingiustizia. E nelle sue labbra la parola con cui dichiarava “beati” i poveri, coloro che piangono, i perseguitati etc., nel suo originale etimo ebraico (ašr), conteneva l’idea del camminare diritto e forte, del guidare e dominare. In altri termini, il quadro della storia dipinto da Gesù lascia apparire le figure guida a cui rapportarsi, quelle nelle quali riconoscere il volto stesso di Gesù.
Con le parole di Giobbe possiamo dire, allora, che “all’uomo sfinito è dovuta pietà/hesed dagli amici, anche se si fosse allontanato dal timor di Dio” (6,14). La distretta umana – anche quella del peccato – esige la pietà/hesed, termine che nell’Antico Testamento comprende quello di misericordia, cioè il sentimento più profondo di Dio nei confronti dell’uomo. La sofferenza, a prescindere dall’atteggiamento morale di chi la subisce, acquista come tale spessore teologico.
Ma un’altra cosa ancora ci dicono i vangeli su questo sguardo che il credente rivolge all’uomo debole, sfinito e sfigurato, quando ci riportano il modo in cui Gesù di Nazaret si rapportava ogni qual volta lo incontrava. Si tratta di un aspetto niente affatto secondario della prospettiva messianica, quello di un’intima partecipazione alla sofferenza del suo popolo, una partecipazione che dobbiamo chiamare “fisica”, “corporea”, quella che oggi gli psicologi rendono soprattutto con il nome di “empatia”.
Il termine che usano i Sinottici per designare questa partecipazione alla sofferenza umana da parte di Gesù è quello del verbo splanghnizomai (alla lettera: commuoversi nelle viscere), applicato esclusivamente a Gesù (con pochissime eccezioni, che confermano l’uso cristologico). Basterà uno sguardo su Marco per rendersene conto, tenendo presente che egli non è affatto originale, ma segue un uso già affermato.
Mc 1,41, nell’episodio del lebbroso guarito, dice che “Gesù, mosso nelle viscere, stese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato!”. E davanti allo spettacolo delle folle dei poveri Mc 6,34 (par. Mt 9,36, sostanzialmente uguale) sottolinea come, “sbarcando, vide molta folla e si commosse fin nelle viscere per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”. E sempre davanti alle folle, Mc 8,2 mette in bocca Gesù queste parole: “Questa folla mi commuove fino alle viscere, perché già da tre giorni mi stanno dietro e non hanno da mangiare” (par. Mt 9,36, sostanzialmente uguale).
Mi sembra importante tradurre questi testi alla lettera, mantenendo il significato primario e non traslato delle splangchna/viscere, contenuto nell’etimo originario. L’uso del verbo splanghnizomai, con l’eccezione delle parabole dove ha un significato prevalentemente teologico per indicare la misericordia di Dio (parabola del servo spietato: Mt 18,23-35; parabola del figlio prodigo: Lc 15,11-32; parabola del buon samaritano: Lc 10,33, dove indica un atteggiamento di per sé umano, ma come imitazione di Dio che si fa vicino all’uomo) nei Sinottici ha sempre un senso messianico³. La sofferenza che prende Gesù alle viscere è, per la tradizione cristiana primitiva, un segno di quelle sofferenze del Messia che lo fanno partecipe della sofferenza umana, motivo tradizionale del giudaismo, a partire dalla tradizione isaiana del Servo sofferente.
Come nota Albert Nolan⁴, Gesù si volge col suo messaggio del “Regno” alla popolazione di Galilea, considerata religiosamente ignorante, all’am haarez. Secondo l’opinione dei farisei, “questa gente che non conosce la Legge è maledetta” (Gv 7,49). Per Gesù, invece, la folla è “come pecore che non hanno un pastore” (Mc 6,34 = Mt 9,36). Matteo, in aggiunta, sottolinea due volte che Gesù “è stato inviato alle pecore perdute della casa di Israele” (Mt 15,24; cf. 10,6). La sofferenza di questa gente fatta di poveri, affamati, piangenti, afflitti, assetati di giustizia, perseguitati, è quella che Gesù sente empaticamente. E sono tutti costoro che, assieme ai miti, ai puri di cuore, agli operatori di pace, ai perseguitati per la sua causa, vengono proclamati beati da Gesù, perché per lui sono i prediletti del
Padre suo.
Giuseppe Ruggieri
Note
1) J. Zumstein, Il vangelo secondo Giovanni (13-21), Torino, Claudiana 2017, 875.
2) Si tratta dell’accento tipico di Marco, giacché in Matteo la reazione del centurione è determinata dallo spettacolo degli eventi apocalittici che accompagnano la morte di Gesù (Mt 27,54: “Il centurione, e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, alla vista del terremoto e di quello che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: Davvero costui era Figlio di Dio!”) e Luca invece, in maniera meno precisa, rimanda all’esperienza globale della crocifissione, e non mette in bocca al centurione la confessione di Gesù come Messia e figlio di Dio, ma come uomo giusto: “Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: Veramente quest’uomo era giusto” (Lc 23,47).
3) H. Köster, Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, 7, 553-555.
4) A. Nolan, Jesus before Christianity, London 1992, 27-28.