«Non ti lascerò andare prima che tu non mi abbia benedetto!» (Genesi 32, 27). Una riflessione sulle benedizioni delle coppie dello stesso sesso del gruppo VARCO
Testo redatto dal Gruppo VARCO, Gruppo di Valorizzazione e Riconoscimento della Comunità Omosessuale, di Milano nel maggio 2010
Il gruppo Varco, rappresentante locale della REFO (Rete Evangelica Fede e Omosessualità) ed espressione del VI Circuito, lombardo e piemontese, delle Chiese Evangeliche Valdese e Metodista, ha preso come suo impegno per l’anno 2009-2010 l’avvio di una serie di incontri aventi come tematica la Benedizione, e in particolare la Benedizione delle coppie dello stesso sesso.
Tra gli esperti che abbiamo invitato a riflettere insieme con noi su questo tema, ricordiamo i pastori Giuseppe Platone, Gregorio Plescan e Luca Negro, le pastore Dorothee Mack e Jeannique Perrin, nonché don Franco Barbero, presbitero della Comunità di Base di Pinerolo.
Queste riflessioni nascono dagli incontri svolti all’interno del gruppo ma anche da letture ed esperienze personali dei membri del gruppo stesso.
Ringraziamo inoltre Roberto Ferro, psicologo e psicoterapeuta, che ci ha aiutato nella parte riguardante l’identità.
La benedizione nella Bibbia: percorsi e proposte di interpretazione
La benedizione è presente in modo significativo in molti libri della Bibbia, configurandosi come un intervento amorevole e solidale di Dio nella vita del creato e delle persone umane. Questo intervento di Dio diventa anche una promessa di vicinanza, una promessa di cui ci si può fidare perché Dio non ritira la parola che pronuncia.
Già nel primo capitolo della Genesi troviamo un atteggiamento benedicente di Dio, a partire dal fatto che «Dio vide che questo era buono». L’atto benedicente di Dio è il suo stesso sguardo sulla creatura e sul mondo, e al contempo è una parola che Dio pronuncia svelando le potenzialità delle cose create e collocandole in un orizzonte di senso più ampio.
Al momento della creazione dell’essere umano, Dio benedice l’uomo e la donna: «Dio li benedisse e Dio disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi» (Genesi 1,28). Già dal primo racconto della creazione, dunque, la benedizione (berakhah) è strettamente collegata con la fecondità, intesa come moltiplicazione e incremento della vita. Questo è talmente vero che uno dei nomi di Dio tramandati dalla Bibbia ebraica, El Shadday, forse evoca proprio la potenza di Dio nel dare fertilità alla terra e agli esseri viventi, e in origine potrebbe addirittura significare “Il Dio che allatta”: un “Dio con le mammelle” che trasmette vita e rende capaci di generare.
Un altro episodio della Bibbia, in cui il tema della benedizione è centrale, è la storia di Abramo, il primo dei patriarchi di Israele, riconosciuto padre della fede ebraica, cristiana e musulmana.
Dio promette ad Abramo: «Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12,2-3). In questo caso, la benedizione non consiste più soltanto nella fecondità, bensì anche nella elezione e nella promessa di fedeltà da parte di Dio.
La Bibbia associa spesso la benedizione di Dio alla imposizione di un nome nuovo, come se la benedizione comportasse la creazione di una nuova identità. Anche al patriarca viene dato un nome nuovo, Avram diventa Avraham, quasi ad esprimere, nella dilatazione del nome, l’elezione di chi sarà chiamato ad essere “padre di molti”.
Questo legame tra benedizione ed elezione ritorna centrale nel racconto della morte di Isacco, quando egli benedice Giacobbe, il figlio nella cui discendenza si sarebbe trasmessa l’elezione di Dio (Genesi 27). Una volta che Isacco concede la berakhah a Giacobbe, questa non può più essere ritirata; Esaù, venuto a conoscenza dell’inganno del fratello, esclamerà: «Giacobbe mi ha già soppiantato due volte: mi tolse la mia primogenitura (la bekhorah, ceduta per un piatto di minestra di lenticchie) ed ecco che ora mi ha tolto la mia benedizione (la berakhah)».
La benedizione appare in questo episodio come qualcosa di concreto, un sigillo che non si può concedere due volte (al contrario, quando i profeti si sentivano chiamati a pronunciare parole di “maledizione”, sapevano che queste non avevano un carattere definitivo e pregiudicante, siccome lo spazio della conversione era sempre aperto).
Si potrebbe concludere che la persona benedetta ed eletta sa che Dio le vuole bene, si sente accettata e approvata incondizionatamente: Dio le sarà fedele, l’accompagnerà con la sua benevola presenza, la proteggerà, tornerà a sceglierla con la sua grazia e il suo amore qualunque cosa accada. Una nuova identità nasce da questa relazione con Dio: non più l’essere umano chiuso in se stesso, ma l’essere umano benedetto-eletto da Dio.
Oltre che alla fecondità e alla elezione, la benedizione è spesso legata al tema della terra. Dio benedice l’uomo dandogli una terra fertile e produttiva, che ricompensi il suo lavoro con l’abbondanza dei frutti. Anche per il popolo di Israele la benedizione di Dio si concretizzerà in una terra in cui vivere liberamente e di cui godere i frutti. La fecondità, l’elezione, la terra; il contenuto della benedizione si può riassumere in una sola parola: shalôm, la “pienezza” di vita di cui può godere chi vive in pace con Dio, con le altre persone, con il creato.
La Genesi contiene la narrazione di un episodio, abbastanza misterioso e ricco di elementi che erano arcaici già al momento della sua redazione: è il racconto della benedizione che Giacobbe riceve da colui con cui ha lottato per tutta la notte prima di attraversare il torrente Yabboq (Genesi 32). Al termine della lotta, l’uomo con cui Giacobbe si è battuto si fa riconoscere come angelo di Dio.
I due hanno lottato nell’oscurità senza che nessuno riportasse la vittoria; quando sorgono le prime luci dell’alba, l’angelo prega Giacobbe di lasciarlo andare, Giacobbe gli risponde: «Non ti lascerò andare prima che tu non mi abbia benedetto!» (Genesi 32,27). Giacobbe ha lottato proprio per questa benedizione: il suo è un anelito profondo, quasi una questione di vita o di morte, perché Dio lo benedica.
Davanti a questo desiderio, Dio stesso sembra arrendersi, e benedice Giacobbe dandogli un nuovo nome: «Il tuo nome non sarà più Giacobbe (il prevaricatore), ma Israele, perché tu hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto» (Genesi 32,29).
I punti focali di questo episodio così misterioso sembrano due: da una parte c’è la lotta, dall’altra l’esigenza profonda di essere benedetto. È paradossale che proprio ciò che è pericoloso per la vita, ciò contro cui l’essere umano lotta, finisca con il benedirlo.
Anche in molte delle nostre esperienze personali Dio non appare affatto come colui che ci benedice, bensì come colui che lotta con noi, che ci mette in discussione, che ci destabilizza.
Ma questa lotta è per l’affermazione di una nuova identità, che verrà raggiunta proprio a causa dell’incontro con Dio. Crediamo di incontrare la benedizione di Dio nelle situazioni in cui abbiamo successo, in cui tutto ci riesce, quando ogni cosa va per il verso giusto: la storia di Giacobbe ci mostra, invece, che possiamo sperimentare la benedizione proprio nelle situazioni più difficili, là dove disperatamente lottiamo e nel cuore della notte ci sentiamo sopraffatti. Potremmo quindi concludere che Dio non benedice ciò che è già completo, perfetto, ma ciò che è incompleto; non solo ciò che è stabile, ma anche ciò che non lo è.
Nel Secondo Testamento, c’è un episodio in cui due donne si benedicono a vicenda. Si tratta dell’incontro tra Maria ed Elisabetta descritto da Luca nel suo evangelo, un incontro nel quale ritroviamo quel legame tra benedizione e fecondità già affermato dalla prima pagina della Bibbia ebraica. Elisabetta, quando vede Maria che entra nella sua casa, ripiena di Spirito Santo esclama: «Benedetta sei tu fra le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno!» (Luca 1,42). Entrambe le donne sono incinte, e la donna più anziana benedice la giovane.
È un incontro che viene narrato con una attenzione particolare alla dignità e alla sensibilità della donna, che è in grado di farci intuire come il compito più importante sia quello di benedirci a vicenda e diventare una benedizione per gli altri.
In questo episodio, e più in generale nei quattro evangeli, si assiste ad un ampliamento del concetto di fecondità, che finisce con il diventare, usando un termine dello psicologo americano Erik Erikson [1] , generatività.
Questa sarebbe la capacità, tipica della persona matura, di creare qualcosa che le sopravviva e vada oltre la sua esistenza. Quando in ambito lavorativo o nelle relazioni sociali la persona vive con la consapevolezza che il proprio lavoro diventa una benedizione per gli altri, e che il dialogo o lo sguardo amorevole fa scaturire la vita nell’altra persona, ecco che essa diventa fertile, generativa.
Le parole e la prassi di Gesù esplicitano chiaramente questo concetto. Chi sono infatti i “benedetti” per Gesù? Lo spiega bene Matteo 25,34-40: «i benedetti del Padre mio» sono coloro che hanno dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, che hanno offerto un riparo allo straniero, vestiti a chi era nudo, che hanno visitato gli infermi e consolato i carcerati. Si tratta di sei azioni concrete, in cui Gesù chiama benedette le persone non per il numero di figli procreati, tanto meno per la castità praticata, ma per la vita che hanno saputo comunicare al prossimo.
L’idea di benedizione legata a procreazione e fecondità che avevamo trovato nella Genesi, viene così ricondotta alla pratica della generatività e del servizio.
Nel Primo Testamento la vita e la garanzia di trasmetterla ai figli e alla progenie, erano il paradigma più alto della benedizione: «Sarai felice e prospererai. Tua moglie sarà come vigna fruttifera, nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come piante d’olivo intorno alla tua tavola.
Ecco, così sarà benedetto l’uomo che teme il Signore» (Salmo 128). Per parlare della misericordia, della tenerezza di Dio, la Bibbia ebraica usa il plurale di rechem, che non è altro che l’utero, il luogo dell’accoglienza e della trasmissione della vita. Se la generazione era vista come il segno più alto della benedizione divina, la sterilità era considerata una grave sventura, un segno dell’ira e della punizione divina, una vera e propria maledizione inviata alla coppia.
Eppure Gesù supera il concetto tradizionale che identificava lo shalôm, la pienezza di vita, con l’avere molti figli, e vi sostituisce un concetto nuovo che identifica nell’amore la pienezza di vita.
Nella stessa maniera, Gesù sostituisce la priorità del clan familiare con quella della comunità: la vera famiglia non è quella composta da fratelli e sorelle di sangue, ma è quella formata da coloro che ascoltano e realizzano la volontà di Dio.
Il discepolo e la discepola di Gesù sono chiamati a generare felicità, e innanzitutto in questo modo possono diventare una benedizione per gli altri.
Gesù ha profondamente cambiato il modo di intendere la vita, e forse l’evangelo di Giovanni è quello in cui questo cambiamento appare più esplicitamente. Il quarto evangelista dice che nessuno ha mai visto Dio: per vederlo e comprenderlo bisogna guardare Gesù, cioè vedere che cosa faceva e come agiva. Gesù, infatti, non ci ha annunciato Dio come una dottrina, non lo ha presentato per mezzo di discorsi teologici: sono le sue opere che ce lo rivelano, ce lo “raccontano” (exēgēsato, Giovanni 1,18).
Le opere di Gesù sono azioni concrete che trasmettono vita alle persone, le arricchiscono, comunicano dignità e amore agli ultimi e ai più disprezzati. Nessun discorso altisonante sull’amore, ma una sua pratica continua che genera abbondanza e comprensione.
La berakhah biblica non può che muoversi nella logica della gratuità, del dono di sé, del farsi prossimo. Maestro di questo dono di sé è proprio Cristo, che nella morte fa della propria vita un dono totale, vissuto nella fiducia più completa nei confronti di Dio.
La benedizione nella vita religiosa ebraica
La parola “benedizione” è ben presente nella preghiera ebraica: in ebraico si dice berakhah, dalla radice brk, il cui significato originario potrebbe essere quello di “piegare le ginocchia”, forse perché in antico ci si inginocchiava al momento della benedizione.
Anche se le radici bibliche su cui si appoggiano sono comuni, la berakhah ebraica è un gesto rituale in parte diverso dalla benedizione cristiana.
Nel giudaismo non si benedice qualcosa (una macchina, un trofeo, etc.), ma si benedice Dio per qualcosa. La maggior parte dei testi di benedizione conoscono un movimento circolare. Il cerchio è composto da un moto “ascendente”: «Benedetto sei tu, Signore, Dio nostro, re dell’universo»; il credente riconosce la grandezza di Dio, riconosce che Dio è il Signore dell’universo, ma anche che Dio si è messo in relazione con l’umanità e con il popolo di Israele in modo significativo (Dio nostro). La preghiera di benedizione, dunque, è lode a Dio ma anche confessione di fede.
Proprio questa confessione di fede in un Dio che, Signore del mondo, si china sugli uomini, si mette in relazione con loro, entra nella storia, diventa anche riconoscimento di una benedizione “discendente”: Dio è «colui che fa nascere il pane dalla terra, che ha creato il frutto della vite, che ci ha condotti fino a questo momento, che ci ha dato i precetti» e così via.
Il cerchio così si richiude: l’essere umano benedice, ringrazia Dio, dal quale a sua volta è benedetto con i doni della creazione e della storia concreta del popolo e del singolo.
In questo movimento circolare sono compresi la creatura umana, Dio e il cosmo: Dio è visto come origine e norma dell’uomo e del cosmo, la creatura come interprete di Dio e beneficiario del cosmo, e quest’ultimo è percepito come rivelazione e dono dell’amore di Dio per l’uomo. Questo modo di pensare il rapporto Dio-essere umano-mondo porta in sé l’appello a tradursi storicamente nella giustizia.
Un esempio significativo è la benedizione delle luci di Chanukkah. Nella Festa delle luci si celebra la vittoria dei Maccabei sui dominatori greci (165 a.C.). Dopo avere restaurato il Santuario di Gerusalemme e averne eliminato ogni traccia di culto politeistico, gli Ebrei avevano cercato l’olio puro per riaccendere la menorah a sette braccia, ma ne avevano solo un unico piccolo vaso. Miracolosamente, però, con quel poco olio si riuscì a mantenere acceso il candelabro per otto giorni, il tempo sufficiente per preparare altro olio. All’accensione dei lumi di Chanukkah si recitano tre benedizioni:
– Benedetto sei tu, Signore, Dio nostro, re dell’universo, colui che ci ha santificato con i suoi comandamenti e ci ha comandato di accendere i lumi di Chanukkah.
– Benedetto sei tu, Signore, Dio nostro, re dell’universo, colui che ha compiuto miracoli per i nostri padri nei tempi passati, durante questa stagione.
– Benedetto sei tu, Signore, Dio nostro, re dell’universo, colui che ci ha tenuto in vita, e ci ha preservato, e ci ha permesso di raggiungere questo momento.
Come si vede in questi brevi testi, nella preghiera di benedizione c’è sempre un Tu: «Benedetto sei tu. [Tu sei] colui che…». La benedizione è un parlare a questo Tu, ma nello stesso tempo ci dice qualcosa su questo Tu, e quindi sul rapporto tra Dio e l’essere umano.
Nella liturgia ebraica, la birkat kohanîm (benedizione sacerdotale) ripete le parole di Numeri 6,24-25 «Il Signore ti benedica e ti protegga! Il Signore faccia risplendere il suo volto su di te e ti sia propizio! Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti dia la pace!». Questo testo è in qualche modo una eccezione alla dinamica circolare descritta sopra, perché privilegia la componente discendente della benedizione.
Nel rito della benedizione sacerdotale, inoltre, emerge la figura di un mediatore umano: soltanto il kohen (cioè un discendente delle famiglie sacerdotali) poteva benedire i presenti al sacrificio compiuto nel Santuario, e ancora oggi soltanto un kohen può invocare la benedizione sui presenti durante il culto sinagogale, con le mani sollevate verso l’assemblea; durante il culto famigliare, il padre può invocare la stessa benedizione sui suoi figli.
La benedizione rappresenta, nel mondo ebraico, la preghiera più ricca di significati teologici. Essa, innanzitutto, santifica le svariate azioni della giornata. Serve a metterci nel giusto rapporto con il creato, riconoscendo che Dio ne è l’artefice ed autore.
Anche atti che appaiono umili e modesti, come mangiare un pezzo di pane o un frutto, bere del vino, annusare un profumo e così via, acquistano una loro elevatezza e santificazione quando sono accompagnati dalla benedizione prevista. Le formule di benedizione trasformano l’intera vita quotidiana in culto, stabilendo un rapporto concreto tra l’uso dei beni terreni, ed il riconoscimento di colui che ce li ha dati. La benedizione ebraica, pertanto, potrebbe essere interpretata come santificazione del quotidiano.
Dio è colui che rinnova ogni giorno le opere della creazione; prima della ripetizione quotidiana dello Shema’ (Ascolta, Israele) si prega così: «Benedetto sei tu, colui che fa la luce e crea le tenebre, colui che nella sua bontà rinnova ogni giorno, per sempre, l’opera della creazione». Alla sera si benedice Dio perché «mediante la sua parola, con sapienza, fa imbrunire la notte».
Già si è accennato al fatto che la benedizione è presente sia nel servizio liturgico sinagogale, sia nella liturgia domestica o individuale, per esempio nel ringraziamento dopo i pasti. Tra le benedizioni che accompagnano il pasto, la più importante è la birkat hamazôn, la preghiera di ringraziamento dopo aver mangiato (fondata sul precetto di Deuteronomio 8,10): un testo di lode a Dio che nutre il mondo intero, dona la terra, ricostruisce Gerusalemme, rivelandosi così Dio buono e benefico.
Esistono testi di benedizione per chi fa un’esperienza nuova, per chi è uscito incolume da un pericolo, per chi intraprende un viaggio. Prima di mangiare ci si lava le mani pronunciando una benedizione, come pure ci sono formule speciali previste per chi mangia diversi cibi, per esempio un frutto, alcuni tipi di verdura o di cereali. Si recitano delle benedizioni anche quando si ammira un arcobaleno, un fulmine, o altri impressionanti fenomeni naturali.
Esistono persino formule di benedizione per quando si incontra uno studioso, per quando si vede un re o una persona particolarmente bella o intelligente. Si dice che un ebreo spera di aver l’occasione di benedire Dio almeno cento volte al giorno per i suoi benefici.
Ci sono benedizioni che accompagnano le azioni rituali prescritte dalla Torah («Benedetto sei tu… colui che ci ha santificato con i suoi precetti e ci ha ordinato di…»), e in particolare alcune benedizioni riservate al giorno del Sabato, come quella che precede l’accensione delle candele da parte della padrona di casa: in essa la madre chiede di essere degna di educare i figli sulla via della Torah.
Il calendario ebraico è scandito da feste. Le tre “festività di pellegrinaggio”, Pesach (Pasqua), Shavuôt (Pentecoste) e Sukkot (Festa delle Capanne), sono anche festività delle stagioni, che rafforzano la consapevolezza della bellezza e della provvidenza della natura.
I testi di benedizione previsti per queste giornate non solo riconoscono che il tempo è di Dio, ma riaffermano anche il dovere di ricordare un determinato episodio della vita del popolo di Israele. Da tutti questi esempi si intuisce che lo scopo della benedizione non è soltanto quello di lodare Dio, ma anche di ricordare un evento particolare.
Così si dà un senso al passare del tempo, che non è più un semplice susseguirsi di istanti tutti uguali, ma diventa un presente santificato dalla presenza di Dio, una memoria di fatti passati ancora legati dall’oggi, e una attesa concreta di un futuro di pace.
Recitando le benedizioni, l’ebreo osservante esprime apprezzamento per qualcosa, e riconosce quale sia la fonte di quel piacere e beneficio, il Creatore del cielo e della terra. In questo modo può acquistare consapevolezza e piena attenzione verso ogni esperienza.
Sembrerebbe esserci quindi una stretta connessione fra l’atto del benedire e l’esperienza del provare piacere: ciò di cui si rende grazie è ciò che concretamente abbiamo gustato, ciò che effettivamente ci ha procurato gioia, si tratti di cose necessarie o anche di beni non indispensabili. Un significativo esempio è la benedizione che recita chi vede alberi in fiore nel mese di Nisan, il mese in cui cade la festa di Pesach: «Benedetto sei tu, Signore, Dio nostro, Re dell’universo, colui che non ha fatto mancare nulla nel suo mondo, e ha creato creature buone, e alberi buoni per far godere di loro gli uomini». La benedizione apre la coscienza del credente sulla bellezza del mondo.
Il godimento di un bene terreno è però subordinato alla benedizione, cioè ad un gesto con cui lo si riconosca come dono divino. Troviamo infatti scritto nel Talmud: «È proibito all’uomo godere di qualche cosa che è di questo mondo senza pronunciare una benedizione; chi gode dei beni di questo mondo senza dire una benedizione commette un atto di infedeltà. Chi gode dei beni di questo mondo senza dire una benedizione agisce come se depredasse il Santo» (Talmud Babilonese, trattato Berakhot).
L’essere umano è chiamato a coltivare e custodire il mondo che Dio gli ha affidato, ma in modo responsabile. La benedizione, si potrebbe dire, fonda e istituisce la responsabilità che ci è richiesta: Dio non solo ha affidato all’essere umano i beni terreni, ma gli chiederà anche conto di come li abbia utilizzati e goduti a favore della felicità a cui è stato chiamato.
La benedizione si iscrive dunque in un atto di responsabilità con cui proviamo piacere per le gioie del mondo, ma mai considerandole il fine ultimo delle nostre azioni.
La benedizione nel culto cristiano
Le comunità dei primi movimenti cristiani, nell’organizzazione delle loro liturgie, partirono tutte da una prossimità e da una ispirazione più o meno marcata alla liturgia ebraica, e in particolare al culto famigliare e sinagogale (molto meno al culto sacerdotale del Santuario di Gerusalemme). Tra gli elementi che passarono dal culto giudaico a quello cristiano, sicuramente uno fu la preghiera di benedizione.
Se nel Santuario la benedizione era strettamente collegata al sacrificio (i kohanim benedicevano coloro che avevano offerto gli animali da immolare), nei cristiani che interpretavano la morte di Gesù come sacrificio si faceva strada la consapevolezza che la benedizione di Dio era stata pronunciata e riversata sull’umanità una volta per tutte, proprio quando Gesù era stato crocifisso.
Nella persona di Gesù, e in modo peculiare nella sua morte sulla croce, Dio si era riconciliato definitivamente con gli esseri umani, e ormai era stato inaugurato il tempo della grazia, della benedizione.
Anche la celebrazione della Santa Cena, se si considerano i testi più antichi che ci sono giunti, sembra nata in un contesto di benedizione: la comunità benediceva Dio per avere mandato Gesù, e al contempo invocava Dio perché continuasse a operare segni di benedizione raccogliendo in unità tutta l’umanità, fino al giorno in cui un grande banchetto avrebbe inaugurato i tempi nuovi del Regno di Dio.
Non è un caso che, nei quattro racconti con cui i Sinottici e la Prima ai Corinzi descrivono la cena pasquale di Gesù, le parole labōn arton eulogēsas (dopo avere preso il pane e detto la benedizione, in Matteo e Marco) e labōn arton eucharistēsas (dopo avere preso il pane e aver fatto il ringraziamento, in Luca e Paolo) sono equivalenti: entrambe le tradizioni risentono già delle prassi cultuali delle chiese cristiane, che ripensavano i gesti di Gesù alla luce della benedizione-ringraziamento (eulogia-eucharistia) che esse stesse celebravano.
Con il passare del tempo, il culto cristiano si è via via arricchito di molti altri gesti di benedizione, soprattutto in prospettiva “discendente”: alcune persone, e ben presto anche alcune cose, venivano benedette. Tuttavia, essendo stato rescisso molto presto un legame reale con il mondo ebraico, venne meno anche la prospettiva tipica del giudaismo sulla santificazione del quotidiano.
Per questo la benedizione si trasformò in una “sacralizzazione” di persone o oggetti, che venivano in qualche modo “strappati” dal loro contesto abituale e quotidiano: si cominciava a pensare che la benedizione rendesse una cosa o una persona diversa da come era prima, e in qualche modo la caricasse di funzioni e significati diversi da quelli propri.
Nel Medioevo questa prassi di benedire gli oggetti più svariati impregnerà sempre più la vita cristiana, e verso l’VIII-IX secolo comincerà a dilagare dai monasteri, in cui era nata, ad ogni classe sociale. Venivano benedette le persone che assumevano un ministero o uno status particolare nella Chiesa: vescovi, preti, diaconi, lettori, abati, vergini, vedove, penitenti, catecumeni, malati; venivano benedetti gli oggetti e i luoghi destinati al culto: il tempio, l’altare, i calici, la cera per le candele, l’incenso da bruciare, l’acqua per battezzare, l’olio per le unzioni rituali; venivano benedette le nuove case, i pozzi, gli animali, i vestiti, e così via.
Progressivamente si vedeva sempre più la benedizione come una formula (spesso accompagnata dall’imposizione della mano e da aspersioni con acqua, a sua volta benedetta) che conferiva un “di più” sacrale o addirittura magico a oggetti, luoghi e persone: le candele benedette avrebbero tenuto lontani i fulmini, i rami di biancospino benedetti avrebbero allontanato le malattie del bestiame, e così via.
Il rischio di uno scivolamento nella superstizione era costante, e molte volte non era soltanto un rischio, tanto che anche la chiesa romana, nella riorganizzazione della sua liturgia durante la Controriforma, tentò per lo meno di imporre un ordine a quel proliferare di benedizioni a volte persino ridicole, o di eliminare quelle più evidentemente superstiziose.
Già nel primo millennio si era sviluppato anche un particolare rito di benedizione: quello degli sposi (da non confondersi con l’imposizione di celebrare in chiesa il proprio matrimonio, davanti al parroco, un obbligo che verrà sancito solo dal Concilio di Trento nel XVI secolo). Dal IV secolo ci giungono testimonianze che a Roma e Milano i due sposi, dopo che il contratto matrimoniale era stato stipulato, si recavano in chiesa durante la liturgia, e il vescovo stendeva un unico grande velo sul capo della sposa e sulle spalle dello sposo pronunciando parole di benedizione.
Alcuni secoli più tardi questi testi di benedizione sui due sposi erano ancora più diffusi, accompagnati spesso dall’imposizione del velo sulla donna (dal momento che questa diveniva proprietà del marito, nessuno avrebbe potuto più guardarla liberamente come solo al suo marito-padrone era consentito: il velo che ancora oggi indossano molte spose ha la stessa origine del velo islamico). In Spagna, Gallia, e negli altri Paesi celtici, la coppia veniva benedetta dal vescovo o dal presbitero nella camera nuziale (benedictio in thalamo); nelle chiese orientali, ai due sposi venivano anche imposte solennemente delle corone.
Anche le chiese orientali ortodosse conobbero un proliferare di gesti di benedizione, anche se forse – diversamente dal cristianesimo dell’Europa occidentale medievale – questi rimanevano più legati ai simboli del culto e al corso del calendario (benedizione delle uova a Pasqua, dell’acqua all’Epifania, del pane da portare ai malati dopo la liturgia, diverso dal pane della comunione, etc.).
In alcune chiese ortodosse, verso la fine del primo millennio si diffuse anche un rituale di “fraternizzazione” (adelphopoiēsis), in cui due persone, generalmente dello stesso sesso, stabilivano un legame speciale tra di loro. Se qualcuno ha visto in questi riti una celebrazione dell’amore omosessuale, probabilmente ha esagerato, ma è certo che in questi momenti liturgici veniva benedetto un vincolo di amicizia speciale, un rapporto che sicuramente i protagonisti sperimentavano come qualcosa di “unico” e di fondante per la loro esistenza.
La Riforma protestante del XVI secolo ha drasticamente ridotto il numero delle benedizioni nella vita delle chiese. Le comunità riformate abolirono le benedizioni direttamente rivolte ad oggetti, mentre mantennero le benedizioni sulle persone (compresa la benedizione degli sposi) o quelle legate a momenti particolari della vita quotidiana (come la benedizione prima del pasto). Coerentemente con la riaffermazione del sacerdozio di tutti i credenti e con la visione non-sacerdotale dei ministeri ecclesiali, le chiese riformate sciolsero il legame che si era creato tra benedizione e gerarchia ecclesiastica, affermando che ogni singolo credente può pronunciare le parole di benedizione e può riceverle.
Alcune osservazioni sull’ipotesi di una benedizione di coppie same-gender nella Chiesa Valdese
Nelle chiese protestanti storiche, le benedizioni sono pronunciate non solo in occasione di un matrimonio, ma anche quando si battezza o si presenta alla comunità un bambino o una bambina, quando un credente fa la sua confermazione, durante l’istituzione di nuovi pastori, diaconi o persone impegnate in altri ministeri nella Chiesa locale, quando si ricorda un anniversario, e così via. In tutte queste situazioni, si riafferma la fiducia della presenza benevolente di Dio.
Ad un atto di benedizione è inevitabile che siano connessi anche alcuni rischi, tra cui quello di attribuirvi un significato magico, quasi pensando che la benedizione sia una sorta di “fluido”, una energia misteriosa che scenderebbe dal mondo divino, magari attraverso alcuni mediatori che farebbero da “canale”, in modo da garantire a chi la riceve la felicità, la riuscita dei propri progetti, o addirittura la difesa da ostacoli o fallimenti. Una fede fondata sulla Bibbia esclude radicalmente una interpretazione come questa: la benedizione biblica è una relazione diretta e personale con Dio, una relazione che genera anche una comunità di persone grate, benedicenti.
Ciononostante, nella storia le chiese hanno fatto spesso un uso distorto di questo atto, finalizzandolo alle logiche del potere e della sopraffazione. A poco a poco è prevalsa l’idea che il benedicente occupasse una posizione gerarchicamente superiore nei confronti del benedetto, quasi che la salvezza stessa della persona fosse collegata alla sua sottomissione a un’autorità che presumeva, e spesso presume, di poter disporre delle coscienze.
In questa visione distorta, quando le gerarchie ecclesiastiche si sono alleate ai potentati politici o economici, anche le guerre o le imprese distruttive nei confronti della natura sono state oggetto di “benedizione”.
In una prospettiva genuinamente protestante, la benedizione è una parola di grazia, niente altro che un nuovo annuncio dell’Evangelo: Dio ti ha amato/-a e ti ha salvato/-a. È un annuncio sempre uguale (visto che la salvezza è un evento “unico”, affermato una volta per tutte in Gesù Cristo) e al contempo sempre nuovo, perché sempre nuove e diverse sono le circostanze concrete della vita delle persone.
È un annuncio al quale si congiunge l’impegno della comunità benedicente, che sceglie di pregare per le persone benedette nel loro specifico progetto di vita e di sostenerle concretamente. È un annuncio dell’Evangelo che è anche confessione di fede: le persone che chiedono la benedizione manifestano il loro bisogno dell’aiuto di Dio nella loro esistenza e la loro fiducia nel Signore.
Benedire l’amore si iscrive perfettamente nel moto circolare della relazione con Dio che ci è proposto dalla tradizione ebraica. Una coppia benedice Dio per il dono dell’amore perché a sua volta è stata benedetta dal dono dell’incontro e della condivisione; e la comunità, a sua volta, valorizza, riconosce e benedice quel legame fondato sull’affetto e sull’amore reciproco, perché lodare Dio significa prestare attenzione e cura alle opere meravigliose che egli compie. Lo stupore non è quindi solo un atteggiamento mentale, ma dovrebbe costituire il compito preciso di ogni credente.
La benedizione biblica implica, come abbiamo visto in precedenza, il dono della fecondità, che non può essere interpretata esclusivamente in chiave di fertilità biologica, ma che già nel Secondo Testamento si trasforma a poco a poco in una generatività più ampia. In questa prospettiva, quindi, anche l’amore tra due persone dello stesso sesso può e deve essere fecondo, e quindi essere oggetto e rivelazione della benedizione di Dio, sia nel caso che questa coppia dia alla luce e educhi dei figli, sia che i partner decidano di non generare o adottare dei figli o non possano farlo.
Ogni amore può e deve essere fecondo, generativo, e per il cristiano la generatività dell’amore e del servizio è comunque prioritaria rispetto alla fertilità biologica.
Identità psicologica e sociale e Scrittura: Il Dio che libera e riconosce
Il percorso destinato a conquistare la propria identità (personale e sociale) è di fondamentale importanza per le persone LGBTQ. L’identità sessuale, in una società fondata sull’omologazione del “medesimo” (ti accetto e ti rafforzo psicologicamente solo se corrispondi alle mie aspettative), si traduce sovente in una lunga e difficile strutturazione di sé, un percorso doloroso in cui il sistema sociale gioca uno specifico ruolo di “normalizzazione”.
Giovanni Jervis, lo psichiatra italiano recentemente scomparso, nel suo saggio Presenza e identità ha proposto la seguente definizione di identità (personale e sociale): “Identità è riconoscersi ed essere riconosciuti”. L’identità è pertanto un’acquisizione appresa anche “in relazione ad altri”, nella quale le relazioni sociali rinforzano alcune caratteristiche e ne depotenziano altre.
In questa prospettiva, l’altro svolge un ruolo decisivo nella formazione della rappresentazione mentale che abbiamo di noi stessi / e. Abbiamo bisogno di essere definiti e riconosciuti da altre persone per poterci appropriare della nostra natura più profonda. Se ciò non avviene, le conseguenze sono devastanti, in particolare tra gli adolescenti che normalmente vivono un difficile periodo di transizione e tra i giovani adulti più fragili.
La strutturazione delle componenti personali e sociali dell’identità, presenta in effetti un limite significativo. Non possiamo costruire la nostra identità, sviluppare appieno le nostre risorse personali, senza essere riconosciuti da quanti sono significativi per la nostra vita. A dirla tutta, l’autoriconoscimento e l’eteroriconoscimento devono collaborare in sinergia.
Questa definizione di costruzione dell’identità può chiamare in causa il meccanismo psichico della stigmatizzazione. Nell’antica Grecia, lo stigma era il marchio, inciso con il coltello o impresso a fuoco, che rendeva manifesto come il suo portatore fosse una persona indegna e, come tale, da evitare in particolare nei luoghi pubblici.
Per Erving Goffmann, la stigmatizzazione è quel processo che fa apparire la persona stigmatizzata omogenea ai suoi compagni di stigma, cioè socialmente indifferenziata. Nel caso particolare della persona gay o lesbica, lo stigma ha sempre cancellato l’individualità umana, classificandola come membro di una categoria infamante e disprezzata: la categoria omosessuale. Se si etichetta una persona come gay o lesbica, si negano tanto l’umanità quanto l’individualità.
All’interno della teoria dell’identità sociale (in inglese Social Identity Theory o, in forma breve, SIT), sono stati studiati in modo particolare tre processi sociali specifici. Possiamo descrivere i risultati di queste ricerche secondo una triplice puntualizzazione:
1. La categorizzazione ha luogo quando percepiamo altre persone come rappresentanti di gruppi sociali (prevalentemente negativi) piuttosto che come individui dotati di caratteristiche specifiche. Essa contribuisce a generare pregiudizi e stereotipi (pensiamo ad uno stereotipo purtroppo attualmente molto in voga quale extracomunitario).
2. Quando un attributo negativo produce ulteriore discredito sociale, esso assume le caratteristiche di uno stigma. Il soggetto stigmatizzato è quindi percepito come deviante, inadeguato, limitato, pericoloso, “spogliato” di dignità e reso persona di minor valore rispetto al “normale”. Talvolta lo stigma “giustifica” l’aggressività sociale esplicita (di quest’origine sono le aggressioni fisiche e psicologiche contro i “gay” e le “lesbiche”).
3. La stigmatizzazione richiede inoltre una “collaborazione” da parte dello stigmatizzato. Questi tenderà ad uniformare la propria condotta alle aspettative degli altri ritenuti “normali” o “normativi” in una sorta di profezia che sì auto avvera. (Pensiamo, per esempio, ai bambini nervosi e litigiosi che, con il passare degli anni, tenderanno sempre più ad uniformarsi al ruolo di bullo, prima, e di devianti poi).
La stigmatizzazione rafforza il gruppo sociale di chi etichetta tramite specifici processi psicologici e sociali, accresce l’autostima personale e quella dei membri dell’ingroup, giustifica lo status quo nella vita sociale, stabilizza le forme di sfruttamento storicamente determinate.
Ciò che in questa sede preme sottolineare è che l’opinione di Goffmann e di altri studiosi, psicologi sociali e sociologi, è oggi ampiamente condivisa. Lo stigma lede l’umanità dei soggetti stigmatizzati i quali finiscono con l’essere etichettati non più come umani e neppure più come individui.
Talvolta, quanti sono stigmatizzati possono acquisire una forte identità sociale, confinandosi, per esempio, in aree specifiche delle città (pensiamo ai quartieri frequentati dai devianti, i quartieri a luci rosse, i luoghi di ritrovo degli omosessuali). In altre occasioni, invece, un individuo può invece essere completamente ignorato e la sua identità sociale vacillare.
Il riconoscimento sociale, infatti, non è solo un prendere atto dell’esistenza altrui ma un riconoscere nell’’altro il medesimo fondamento umano proprio di tutti gli esseri umani.
Significa accettare anche l’umanità che ci accomuna. In altri termini, il non riconoscimento o il misconoscimento, può danneggiare, rivelarsi una forma di oppressione, “che imprigiona una persona in un modo di vivere falso, distorto e impoverito” (Taylor) [2] .
In conclusione, se l’identità psicologica e sociale è un processo appreso anche “in relazione ad altri”, la collettività, sia essa laica o religiosa, non può dichiararsi incompetente e rimanere indifferente dinanzi a due persone, siano esse gay o lesbiche, le quali, nel riconoscimento pubblico di ciò che sono, scelgono liberamente di amarsi e desiderano quindi essere benedette.
Di questa decisione, così importante per la strutturazione della propria identità, bisognerebbe tenere conto quando si parla di benedizioni delle unioni tra persone dello stesso sesso. Molte chiese sono, infatti, solite invitare più o meno esplicitamente gli omosessuali a celare il proprio orientamento o le proprie relazioni d’amore. In troppe comunità cristiane, purtroppo, le persone LGBTQ sperimentano la vita comunitaria come una sorta di abuso spirituale, un invito a non apparire piuttosto che ad aprirsi alla chiesa come corpo di Cristo.
Abbiamo ripetutamente osservato in questo documento che nulla è più deleterio per il processo di rafforzamento dell’identità di un individuo quanto l’invisibilità sociale. La nostra vita individuale e collettiva di fedeli LGBTQ all’interno delle comunità ecclesiali dovrebbe, invece, prendere a modello un saluto diffuso tra alcune popolazioni sahariane, nel quale una persona che ne incontra un’altra esclama: “Io ti vedo”, mentre l’altra risponde: ‘Sono qui'” [3] .
La teologia femminista ha particolarmente studiato il meccanismo dell’identità nel sistema patriarcale basato su una dualità di fondo, per cui un uomo è tutto ciò che non è una donna, e viceversa, attribuendo al primo valori positivi e ovviamente negativi alla seconda. Il meccanismo che costituisce l’altro come diverso-da-me è indispensabile ad una morale binaria, per nulla inclusiva, in cui l’individuo ha sempre bisogno di un “diverso” per autoapprendersi e autodefinirsi.
All’interno di questo meccanismo psicologico possiamo capire quanto sia liberatorio il discorso di Gesù, che insegnando ad amare i nemici non ha scardinato soltanto un certo tipo di morale, ma anche una forma di autoapprendimento dell’identità basata su meccanismi falsi e fuorvianti.
L’Evangelo, però, ci dice anche qualcos’altro sul processo di esclusione e di identità. Di fronte all’altro/-a, noi possiamo infatti assumere due diversi atteggiamenti: lo skàndalon o l’agàpe. La parola greca skàndalon, deriva da un verbo che significa “zoppicare”.
Negli evangeli è possibile enucleare un gruppo di testi ruotanti sulla nozione di skàndalon, la cui lettura, a livello ermeneutico, impone l’interpretazione dello skàndalon come il contrario dell’agàpe cristianamente vissuta, incarnata in modo chiaro da Gesù: «Chi ama suo fratello rimane nella luce e non c’è in lui nulla che lo faccia inciampare (skàndalon).
Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi» (1Giovanni 2,10-11).
Lo skàndalon non permette né alla persona che lo pratica né alla persona vittima della stigmatizzazione di vedersi e di vedere, la cecità e le tenebre sono la sua conseguenza diretta.
Scrive la teologa Federica Francesconi: «Con lo skàndalon si perpetua all’infinito la spirale dei doppi: giusto/ingiusto, puro/impuro, ed è per questo motivo che Gesù cerca di spezzare la circolarità dei dualismi sanciti dalla Legge, al punto da essere bandito dalla comunità» [4].
Conclusioni
Dio stesso, nel racconto della lotta notturna di Giacobbe con l’angelo, non si è sottratto al profondo desiderio di benedizione dell’uomo. Noi auspichiamo che anche le comunità valdesi e metodiste diano presto un riconoscimento alla nostra esigenza profonda di benedire Dio per il nostro amore e di sentirci benedetti dai fratelli e dalle sorelle proprio in questo amore.
Ciò che sottolineiamo è proprio il carattere pubblico della benedizione dell’amore di due persone. Questa benedizione, infatti, acquisirebbe anche una valenza civile e politica: la Chiesa Valdese e la Chiesa Metodista si metterebbero in dialogo con la società, e in particolare con la realtà politica italiana che continua a negare alle coppie omosessuali stabili gli stessi diritti e la stessa dignità delle coppie eterosessuali.
Se le chiese evangeliche non possono benedire una coppia same-gender già unita da un matrimonio civile, proprio perché questo matrimonio civile ancora non è previsto dall’ordinamento italiano, non per questo dovrebbero sentirsi dispensate dal riconoscere l’esistenza di quella coppia di cittadini, oltre che di credenti, e dal “farsi carico” di loro.
Il carattere pubblico della benedizione di queste coppie acquisterebbe anche una valenza di dialogo con i membri stessi delle chiese locali. I due partner che riconoscono davanti a Dio la loro unione e che davanti a Dio si assumono degli impegni, si propongono come coppia anche davanti alla comunità, e questa li accoglie rispettando la loro libertà e responsabilità ma anche rispondendo collettivamente: «Noi ci siamo, siamo qui accanto a voi».
Questa forma molto concreta, quasi fisica, di benedizione, in cui una comunità accoglie e abbraccia una coppia di persone che si amano, sarebbe la risposta più autentica al vissuto di emarginazione che le persone gay e lesbiche, così come le persone transgender, hanno sperimentato e spesso continuano a sperimentare nella loro vita quotidiana.
Con queste riflessioni abbiamo voluto inserirci in un percorso più vasto che le nostre chiese stanno compiendo, un percorso che ha avuto una tappa fondamentale nella Assemblea generale dei Battisti – Sinodo delle Chiese Valdesi e Metodiste del 2007, in cui è stato affermato solennemente:
La sessione congiunta dell’Assemblea generale dell’UCEBI e del Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi:
– crede in un Dio d’amore che per primo ci ha accolti chiamandoci ad una vocazione all’accoglienza nello spirito del passo di Romani che dice: «Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo vi ha accolti per la gloria di Dio» (15,7);
– crede che l’essere umano sia fondamentalmente un essere in relazione con Dio e con il suo prossimo, e che la relazione umana d’amore, vissuta in piena reciprocità e libertà, sia sostenuta dalla promessa di Dio;
…
– invita le chiese ad accogliere le persone omosessuali senza alcuna discriminazione;
– invita le chiese, nell’ottica di uno Stato laico, a sostenere e promuovere concretamente progetti e iniziative tesi a riconoscere i diritti civili delle persone e delle coppie discriminate sulla base dell’orientamento sessuale.
Ovviamente resta ancora molto cammino da compiere insieme, un cammino che auspichiamo sia illuminato da una costante esegesi del testo biblico e da un desiderio autentico di accoglierci a vicenda come fratelli e sorelle nella fede.
Ci sembra però che questo pronunciamento della massima espressione democratica e assembleare delle nostre Chiese abbia indicato il cammino in modo sufficientemente chiaro e preciso.
Solo con un brusco cambio di direzione, infatti, si potrebbero riproporre, nelle nostre comunità, prassi che invitano alcune persone a “mettere tra parentesi” delle componenti irrinunciabili della loro identità personale e della loro fede, una fede che condividono con altri fratelli e sorelle raggiunte dalla grazia benedicente dell’unico Dio.
Bibliografia
Bartolini, Elena L. «Dio ci chiederà conto dei beni di cui non abbiamo goduto». Parola Spirito e Vita 45 (2002) : 1 : 55-68.
Bekhor, Shlomo, ed.. Síyach Yitzchàk : Libro di preghiere tradotto e commentato. Rito sefardita. Milano : Mamash Edizioni Ebraiche, 1998.
Cattaneo, Enrico. Il culto cristiano in Occidente : Note storiche. 2. ed.. Roma : C.L.V., 1992.
Epstein, Isidore. Il giudaismo. Milano : Feltrinelli, 1987.
Glaser, Chris. Coming out as a Sacrament. Louisville, KY : Westminster/John Knox, 1998.
Goffmann, Erving. Stigma. Verona : Ombre corte, 2003.
Grün, Anselm. Tu sei una benedizione. Brescia : Queriniana, 2006.
Habermas, Jürgen, e Charles Taylor. Multiculturalismo : Lotte per il riconoscimento. Milano: Feltrinelli, 1999.
Jervis, Giovanni. Presenza e identità. Milano : Garzanti, 1984.
Lattes, Dante. Nuovo commento alla Torah. Roma : Carucci, 1986.
Martimort, Aimé G., ed.. La chiesa in preghiera: Introduzione alla liturgia. Vol. 3. Brescia : Queriniana, 1987.
Mello, Alberto, ed.. Commenti rabbinici allo Shema’ Jisra’el. Magnano : Qiqajon, 2001.
Rosemberg, Roy A.. L’ebraismo. Milano : Mondadori, 1995.
Sartore, Domenico, e Achille M. Triacca, edd.. Nuovo dizionario di liturgia. 6. ed.. Cinisello Balsamo : San Paolo, 1995.
Stefani, Piero. Introduzione all’Ebraismo. Brescia : Queriniana, 1995.
Tajfel H., Gruppi Umani e Categorie Sociali, Il Mulino, Bologna 1999.
Taylor D. M., Moghaddam F. M., Teorie dei Rapporti Intergruppi, Imprimitur, Padova 2001.
Torti Mazzi, Rita. La preghiera ebraica : Alle radici dell’eucologia cristiana. Cinisello Balsamo : San Paolo, 2004.
Le citazioni bibliche sono riportate secondo la traduzione della Nuova Riveduta.
___________________
1 Erik Erikson, psicologo del comportamento e psicoanalista tedesco-americano, parla della maturità come la settima fase dello sviluppo personale, e la definisce “periodo della generatività”. È in questa fase che si esplicherebbe la propria capacità produttiva o creativa nell’ambito lavorativo, nell’impegno sociale o nella famiglia. Nel caso in cui la possibilità di generare, in uno di questi ambiti, venisse inibita, ci sarebbe il rischio che la personalità regredisca e che si manifesti un senso di vuoto e di impoverimento. La virtù tipica di questa fase della vita è la sollecitudine, definita come dilatante preoccupazione per ciò che è stato generato dall’amore, dalla necessità o anche dal caso, e intesa come tendenza ad occuparsi del proprio simile (cura, assistenza, allevamento dei figli, trasmissione della cultura, etc.).
2 J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo : Lotte per il riconoscimento. Milano: Feltrinelli, 1999, pag. 9.
3 Esempio citato dalla psicologa Manuela Zannelli durante il convegno REFO “Identità: istruzioni per l’uso”, Vasto (Chieti), Sala Colonna del Palazzo D’Avalos, 31 maggio 2008
4 Da una riflessione pubblicata nel sito web “Ecumenici” il 1° dicembre 2009: http://ecumenici.wordpress.com/2009/12/01/lettura-per-lavvento/ .