Elogio della pastorale culinaria. Gli ingredienti per accompagnare le persone omosessuali nelle nostre comunità cristiane
Riflessioni di don Gian Luca Carrega*, responsabile dell’Ufficio diocesano per la Pastorale della Cultura e delle attività pastorali per le persone LGBT e i loro familiari della diocesi di Torino
È difficile immaginare al giorno d’oggi una pastorale che faccia a meno dei momenti conviviali. Si comincia dal catechismo dove si festeggiano i compleanni e poi al gruppo del dopocresima con la formula pizza+incontro (a volte anche in forma inversa per la nota proprietà commutativa e conseguente prodotto immutato).
Dei gruppi sposi poi non parliamo neppure, essendo spesso dei salotti improvvisati per poter dar sfogo a cene luculliane che occupano la più parte del tempo condiviso (ricordo quando ancora viceparroco alle 23,30 chiedevo congedo e l’inarrestabile Vincenzo cercava di fermarmi con la lusinga di “mettiamo su l’acqua e facciamo ancora due spaghi…”).
Neppure il gruppo pensionati viene meno a questa usanza, salvo bandire i torroni e croccanti che minacciano la stabilità delle dentiere. In un contesto di questo genere si può pensare che la pastorale con le persone omosessuali si sottragga a questa regola?
Ho girato abbastanza la penisola e incontrato diversi gruppi che impostano i loro incontri in maniera differente, come scuole di preghiera o come momenti di verifica esistenziale, con cappellani o autogestiti, in parrocchie e in case private. Mi pare che uno dei pochi dati costanti che si possono registrare è una profonda dedizione all’aspetto culinario.
A distanza di anni, posso essermi dimenticato dei nomi delle persone che ho incontrato e anche aver rimosso alcuni volti (sono poco fisionomista, ahimé), ma mi ricordo ancora cosa si è mangiato! Siamo un paese diviso su tutto, ma per fortuna condividiamo un’attenzione particolare per il cibo e non mi sentirei di stilare classifiche per premiare una cucina regionale rispetto ad un’altra.
Mi pare una sensibilità importante, che dice anche un senso di accoglienza tra persone che spesso devono misurarsi con la fatica di chi le rifiuta a priori. Anzi, forse certe tensioni intraecclesiali e spesso interne alle stesse parrocchie potrebbero essere domate più facilmente davanti a una ribollita o un piatto di maltagliati, che non in un asettico consiglio pastorale. È una formula che funzionava già al tempo di Gesù, se è vero che spesso accettava inviti da quei farisei che non perdevano occasione per tagliargli i panni addosso.
Ovvio, però, che la tavola non è sufficiente a ripianare tutto e in questo senso è indicativo ricordare cosa avvenne ad Antiochia secondo quanto riporta san Paolo nel secondo capitolo della lettera ai Galati. In quella chiesa i cristiani di origine pagana e di origine giudaica mangiavano alla stessa mensa, ritenendo che le norme alimentari che separavano i giudei dai pagani (e quindi dalla loro impurità) fossero state superate dalla novità cristiana e dal Battesimo che avevano ricevuto. Tutto sembrava funzionare per il meglio, fino a quando degli inviati da parte di Giacomo, a capo della chiesa-madre di Gerusalemme, non pretesero di tornare a due mense distinte.
Persino Pietro e Barnaba chinarono il capo di fronte a questo diktat, solo Paolo ne fece una questione di principio e oppose il suo rifiuto. Da quanto ci è dato capire, rimase solo e sconfitto. Perché rievocare questo fatto? Perché anche oggi il rischio nelle nostre chiese è di tornare alle mense separate.
La pastorale con le persone omosessuali in molti casi è un elemento non integrato con la realtà di chiesa in cui è inserita. È chiaro che deve avere i suoi spazi di riservatezza e tutelare le persone che ne usufruiscono senza essere esposti al giudizio altrui. Inoltre c’è un cammino specifico simile alle istanze proprie degli scout o di altri gruppi che gravitano attorno alla parrocchia, ma conservando una certa autonomia. Il problema, però, sorge quando risulta un corpo estraneo rispetto alla vita della comunità.
Purtroppo sono molte le situazioni di questo tipo, dove alla pastorale con le persone omosessuali vengono “concessi” degli spazi, ma in forma quasi clandestina, come se si trattasse di riunioni carbonare e non di momenti ecclesiali. Questo non va bene perché finisce per riprodurre nell’ambito della chiesa alcune storture della società civile, dove ognuno si regola come crede, basta che non pesti i piedi agli altri. Ma la Chiesa è un’altra cosa…
Se le iniziative della pastorale con le persone omosessuali vengono tenute nascoste per non turbare il sonno di alcuni credenti benpensanti, c’è qualcosa che non funziona, siamo tornati a separare le mense e a ritenere che alcuni ti possano contagiare con la loro “impurità”.
Ci saranno sempre persone ottuse che si rifiutano di mandare i figli in oratorio se ci sono categorie con cui hanno dei problemi a relazionarsi, ma cedere a questi ricatti significa dare ragione a quelle famiglie che nascondono i nonni quando hanno visite o non ti parlano mai dei parenti disabili. Che famiglia può mai essere la Chiesa se si distingue tra figli e figliastri? E soprattutto che famiglia è quella dove i più forti bullizzano i più piccoli?
Ecco perché la tavola può diventare un luogo di comunione, dove la gente si incontra e si accoglie per quello che è. Mangiare lo stesso pane è una forma concreta di comunione perché lo stesso termine “accompagnamento” deriva da qui, cioè il compagno (cum-panis) è colui che divide lo stesso pane.
Se partecipiamo allo stesso Pane nell’Eucaristia, se abbiamo ricevuto un Battesimo che ci rende tutti parenti perché figli dello stesso Padre, allora le barriere e le divisioni che si innalzano successivamente sono abusive, sono ricostruzioni umane di ciò che il Figlio di Dio ha abbattuto.
* Don Gian Luca Carrega, nato nel 1972, nel 2000 è stato ordinato prete nella diocesi di Torino. Dopo un periodo di tre anni nella parrocchia di Orbassano (TO), ha proseguito gli studi di Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico di Roma. Conseguita la Licenza nel 2006, ha preparato il dottorato sulle traduzioni siriache dei Vangeli.
Attualmente è direttore dell’Ufficio per la Pastorale della Cultura della diocesi di Torino e, su mandato ricevuto dal suo Arcivescovo, si occupa anche delle attività pastorali per le persone LGBT e i loro familiari. E’ docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Sezione Parallela di Torino ed è autore di numerosi testi di esegesi biblica, inoltre ha curato la prefazione del libro di Adrien Bail, Omosessuali e transgender alla ricerca di Dio (editrice Effatà, 2016) e del sussidio Genitori fortunati. Vivere da credenti l’omosessualità dei figli (edito dall’associazione Tenda di Gionata, 2019).