Libertà va cercando. Enzo Bianchi e “la libertà del cristiano secondo S. Paolo”
Relazione tenuta da Enzo Bianchi*, Priore della Comunità di Bose, al ciclo d’incontri “Libertà va cercando”** il 26 febbraio 2008, sbobinatura non rivista dall’autore realizzata da Carlo del gruppo Kairos di Firenze
Il tema del percorso che voi state facendo riguarda la libertà e in particolare la libertà in Paolo – l’Apostolo per eccellenza – e non è un tema facile, soprattutto perché in Paolo questo tema presenta alcune volte dei cammini diversi che si intersecano, che si sovrappongono, qualche volta sembrano anche contraddirsi. Io cercherò di riflettere con voi in maniera molto semplice, ben conscio che il tema è molto grande e meriterebbe, al di là di quel che io dico, ma non posso questa sera; soprattutto meriterebbe che sostassimo sulla storia della esegesi della libertà in San Paolo, perché questo è uno dei temi – non dimentichiamo – che ha segnato anche le grandi svolte teologiche nella storia cristiana, e vorrei ricordare per tutti cosa è stato questo tema nel momento della Riforma, dove soprattutto i testi paolini della libertà hanno avuto una eloquenza ed una forza grande, tale da reinterpretare il cristianesimo nel protestantesimo, in un modo nuovo rispetto a come era interpretato fino ad allora nel cattolicesimo occidentale.
Inizio semplicemente ricordando che la fede di Paolo, la fede di Israele, la fede che noi conosciamo soprattutto attraverso le scritture dell’Antico Testamento, pone al centro un evento salvifico di liberazione, l’evento della Pasqua. L’evento della Pasqua è il centro della fede di Israele, e la Pasqua è intesa come un “uscire da” per “entrare in”.
Uscire da una condizione di schiavitù per entrare in una condizione di libertà. A me sembra importante questa frase lapidaria di Rashi, il grande commentatore ebreo medioevale: “Per noi la Pasqua è un passaggio dall’avodah – la schiavitù – a herut – la libertà – per giungere all’avodah Adonai, al culto al servizio del Signore”.
Ma, vi ricordo ancora, che nell’antico commento rabbinico sull’Esodo che viene riletto nel seder pasquale, sta scritto: “Voi farete di questo giorno di Pasqua un giorno di festa, perché è il giorno in cui mio figlio Israele è passato dalle tenebre alla luce, dal giogo di ferro alla vita, dalla schiavitù alla libertà”.
Ecco allora, semplicemente ricordando la centralità dell’evento di liberazione nella fede di Israele, noi possiamo comprendere come Paolo, un figlio di Israele, che ha ereditato la fede dei padri, abbia potuto intendere che c’è un evento di liberazione, la Pasqua, la quale si è compiuta pienamente nell’evento della Pasqua di Gesù di Nazareth, colui che Paolo confessa come il Kirius, il Signore, e Paolo ha percepito che Cristo ormai – uso le sue parole – è la nostra Pasqua, il Cristo immolato – mi riferisco all’espressione nella Prima Lettera ai Corinzi. E allora l’evento liberatore della Pasqua è la morte di Gesù, che significa la nostra liberazione e che quindi produce una condizione di libertà.
Tutti gli scritti di Paolo hanno come punto centrale la confessione della Pasqua del Signore Gesù; anzi, forse noi non ce ne rendiamo conto, ma Paolo riassume in realtà e ricorda tutta la vita di Gesù, tutta la sua azione e predicazione, li riassume nell’evento della morte e resurrezione.
Invano cerchereste in Paolo degli accenni alla nascita di Gesù; invano cerchereste degli accenni alla sua vita, anche alla sua predicazione. Paolo riassume tutto nel grande mistero della morte e resurrezione del Signore. E di conseguenza in tutti i suoi scritti Paolo parla della liberazione apportata da Gesù e parla dunque della condizione di libertà che ne deriva, ma è soprattutto potremo dire nella Lettera ai Galati, e in special modo al capitolo quinto, che Paolo sosta, riflette, medita, sulla vocazione dei cristiani alla libertà.
Kertelgel ha potuto dire che Paolo è l’apostolo della libertà e che il capitolo quinto della Lettera ai Galati è la Magna charta della libertà dei cristiani. Però ci sono molti riferimenti alla condizione di libertà anche nella Lettera ai romani, nella prima e nella seconda Lettera ai Corinzi. Il tema è stato anche all’interno delle lettere deuteropaoline e, di conseguenza, è un tema che è paolino per eccellenza, anche se qualche volta è un tema sviluppato dalla posterità di chi ha riattualizzato il suo discepolo in lettere più tarde dell’apostolo, ma che portano come intestazione la sua autorità.
In questa sede io vorrei comprendere in maniera molto semplice che cos’è per Paolo la libertà, l’eleuterìa e cosa significa la condizione del credente cristiano che è libero, eleuteròs. Innanzitutto credo si debba affermare che nella fede cristiana c’è un soggetto liberatore unico che è certamente Dio ma certamente questa sua azione di liberazione è stata compiuta e portata a pienezza da suo Figlio, Gesù Cristo, l’inviato di Dio, unico e definitivo mediatore di salvezza, dunque di liberazione.
E questo è il messaggio concorde di tutto il nuovo testamento. Ricordo frasi molto simili e che stanno invece all’interno di tradizioni differenti. In Giovanni: “Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi”. Oppure Paolo: “Cristo ci ha liberati per la libertà” (Gal 5, 1). E ancora in Paolo: “Dove c’è lo spirito del Signore, là c’è la libertà” (2Cor 3, 17).
E questa liberazione è avvenuta attraverso la morte e resurrezione di Gesù: “Gesù crocifisso è la nostra liberazione” (1Cor 18, 31). E quella sua morte in croce, morte nell’ignominia, morte in solidarietà con i peccatori, morte di colui che è stato maledetto da Dio e dagli uomini – anathèma – ebbene questa croce è l’evento che ha sigillato l’amore di Cristo all’estremo, amore vissuto per gli uomini e per Dio in totale pienezza.
Alla fine della sapienza nell’Antico Testamento si insiste dicendo che resta il grande enigma davanti a tutti della morte; la morte come evento dal quale si attende la liberazione, ma sulla quale gli scritti dell’Antico Testamento non approdano ancora ad un annuncio esplicito.
Ebbene per Paolo invece, proprio a causa dell’evento della morte di Gesù, allora, la morte è stata vinta; il peccato dell’uomo nemico di Dio è stato distrutto, e l’uomo diventando un figlio di Dio, vive una condizione di libertà.
Evento di liberazione è la Croce-Resurrezione, e dunque per Paolo Gesù Cristo era il goel – questo era il titolo dato a Dio la notte di Pasqua, l’uscita dall’Egitto. Dio il riscattatore, il goel; ma è Gesù Cristo ormai che merita questo titolo e che va confessato come liberatore dei cristiani.
L’evento della croce, lo sappiamo, è stato letto in modo plurimo nel Nuovo Testamento, non c’è una sola lettura di quell’evento. È morte quale prezzo del riscatto. È sacrificio del servo, dell’eved Adonai, per la remissione dei peccati dei rabbini e delle moltitudini. Ma è anche solidarietà con i peccatori, espressa soprattutto dalla presenza dei malfattori crocifissi con Gesù, e dalla condanna della autorità legittima del sommo sacerdozio, riguardante Gesù come bestemmiatore blasfemo. E anche necessitas humana, per cui – in un mondo ingiusto – il giusto può solo essere condannato e reciso dalla terra dei viventi.
Ma in ogni percorso di lettura che noi facciamo attorno all’evento della croce, l’esito di quell’evento è sempre una liberazione, in modo che i credenti, coloro che nella fede e nella celebrazione, anzi, nella partecipazione al Mistero pasquale, ebbene costoro sono chiamati a una condizione di libertà.
Ma allora chiediamoci: da che cosa siamo stati liberati? E se libertà è il contrario di schiavitù da quale schiavitù, da quale asservimento, siamo stati tratti fuori da Gesù Cristo con l’evento pasquale?
Innanzitutto Paolo vede questa uscita dalla terra della schiavitù, questa liberazione dalla alienazione, come liberazione dalla legge. E questo ci sorprende, appare un linguaggio duro alle nostre orecchie perché ci vien detto dall’apostolo che, innanzitutto, Gesù ci ha liberato da ciò che era pur stato dato da Dio ad Israele, la Torah, l’insegnamento, la Legge.
Quando si legge Paolo colpisce la ricorrente polemica contro la Legge: “Cristo è nato per riscattare quelli che stanno sotto la legge” (Gal 4, 5). E viene ripetuto ancora nella tradizione deteuropaolina in Efesini: “Cristo con la sua morte ha soppresso la Legge con tutti i suoi precetti” (Ef 2, 15). Ma, Paolo lo dichiara ai romani in modo lapidario, e potremmo moltiplicare queste citazioni: “Cristo è la fine della Legge (Rom 10, 4). Liberazione della Legge data da Dio per Israele a Mosè.
Che cosa significa questo? Ecco, credo sia non facile capirlo, lo dobbiamo confessare; ma è certo che liberazione dalla Legge significa non più dipendere dalla Legge per essere cristiani, sia perché è impossibile all’uomo osservare pienamente la Legge – dunque Paolo dice: “Tutti siamo trasgressori dalla Legge, quindi tutti colpevoli” (Gal 3, 10) (ma soprattutto in Romani) – sia perché la legge fornisce al credente il rischio di vantarsi nella sua osservanza finendo per accampare meriti nei confronti di Dio (1Cor 1, 29-31; Rom 3, 27).
I cristiani non sono più sotto la Legge, dice Paolo, ma sotto la Grazia, cioè sono sotto l’amore gratuito di Dio che direttamente fa grazia a tutti, tutti perdona mediante l’amore senza fine e senza confini, l’amore che è stato manifestato in Cristo che muore in croce.
C’è soprattutto un brano che se noi lo meditassimo in nella Lettera ai Romani cap. 5 è certamente uno dei brani più scandalosi, secondo me il brano che più recita la follia della Croce.
Lo ricorderete. Paolo scrive: “Mentre noi eravamo peccatori Cristo morì per noi. Mentre noi eravamo nemici di Dio, Dio ci ha riconciliato attraverso Cristo con lui”.
Vedete, Paolo ci pone davanti la simultaneità tra la nostra inimicizia verso Dio, la nostra ribellione verso Dio, il nostro peccato che è contraddizione a Dio e, simultaneamente invece, l’amore di Dio per noi, amore gratuito che ci salva e ci salva senza la Legge, questo è il regime della Grazia.
“Gesù – Paolo dice – è nato sotto la Legge” – da ebreo (Gal 4, 4) e sappiamo come Gesù ha avuto una osservanza della Legge ma Gesù, proprio perché è nato sotto la Legge, ha voluto percorrere il cammino che la Legge prevedeva sino ad essere maledetto dalla Legge, perché: “La Legge malediceva – dice Paolo – colui che era appeso al legno, colui che era crocifisso”. E Paolo si compiace, notate, di questo evento scandaloso.
Cerco di decodificare perché io sono convinto che noi cristiani abbiamo mai preso sul serio il fatto che Gesù è morto come maledetto da Dio e dagli uomini.
Noi diciamo che la sua morte è stata un sacrificio e questo ci riempie, in qualche misura, di un appagamento spirituale e mistico. Ma la morte di Gesù è l’antisacrificio per eccellenza secondo la legge.
Gesù è morto in un luogo impuro; è morto fuori dalla città e la lettera agli Ebrei dice: “È morto nell’ignominia e nella vergogna”. E noi usciamo dall’accampamento per andare incontro a lui fuori e condividere la sua infamia. Gesù ha fatto una morte da infame, Gesù è stato crocifisso e Paolo, sapete, soprattutto nella Prima lettera ai Corinzi, come protesta che lui ha conosciuto solo Cristo e Cristo crocifisso. Ma il crocifisso veniva appeso a un palo per dire che la terra non lo voleva e neanche Dio lo voleva: è la morte più terribile del peccatore, quella di Gesù, l’antisacrificio per eccellenza. Nella nudità di una vergogna spaventosa: per gli Ebrei è bestemmia delle bestemmie.
Basterebbe leggere ancora gli echi della polemica tra ebrei e cristiani con Rabbi Tarphon (Trifone) e Giustino su questo tema della condanna in croce e dello scandalo che addirittura il Messia possa patire una fine ignominiosa di chi è maledetto da Dio e dagli uomini.
“Gesù – Paolo dice in Gal 3, 10-13 – si è fatto uno di noi peccatori (anathema, scomunicato) e così noi potremo dire – e qui sono io che faccio una parafrasi – che proprio in questa condanna subita in nome della Legge, Gesù ha vinto la Legge e ci ha resi liberi dalla Legge. È per la libertà, dunque, che Cristo vi ha liberati (Gal 5, 1). Straordinaria affermazione perché certamente nella lettera ai Galati era un invito ai cristiani a non tornare alla antica schiavitù della Legge e Paolo conclude, soprattutto in un chiasmo; “Ma voi siete stati chiamati alla libertà”, sempre al capitolo 5 versetto 13.
Ma qui occorre una operazione di discernimento: essere liberati dalla Legge, significa essere liberati dai comandamenti? Significa che uno può fare tutto ciò che vuole?
Certamente il rischio di comprendere Paolo così c’è stato. Questa, d’altronde, era la libertà del mondo culturale greco. Ne troviamo una espressione in Dione Boccadoro che suona: “Chi può fare ciò che vuole è libero, chi non può fare ciò che vuole è schiavo” (Orationes 64, 13). Ci chiediamo: significa che tutto è possibile? E che non c’è più un principio di comportamento? Paolo stesso ripete più volte: assolutamente no.
E ammonisce: la libertà raggiunta non si tramuti in un pretesto per vivere secondo la carne, non si tramuti in apharmè, che è la base di lancio per un’offensiva di esistenza egocentrica, filautica, segnata dall’amore di se stessi.
La vera libertà, in parte lo avevano già capito i greci pur pensandola in termini individualistici e forse soltanto intellettuali, è sempre segnata dalla virtù, dalla aretè.
“Solo il sapiente è veramente libero, perché riconosce di dover obbedire alla legge”, dice Epitteto. E dunque il pensiero stoico. E poi Filone, contemporaneo di Gesù: “L’uomo che vive in modo giusto è libero”.
Ma in Paolo e nel cristianesimo, questa libertà non è riducibile a indipendenza e ad autonomia dell’individuo non più forzato dall’esterno e dalle sue inclinazioni, da ciò che lui patisce, le passioni; secondo Epitteto: “La libertà porta il nome della virtù”. È invece offerta in dono da Cristo e diventa una responsabilità di amore e di servizio.
Libertà non è schiavitù ma è servizio. Risuona ancora questo gioco di parole che tutta la tradizione rabbinica fa, quando parla della liberazione dalla schiavitù per un servizio. Libertà non è mai senza gli altri, ma è una responsabilità per gli altri, fino ad essere un amore per gli altri. Libertà non è una scelta possibile tra bene e male, la vera libertà è la capacità di scegliere nella libertà e per amore.
Vorrei mettere l’accento su questo, perché per me è uno dei nodi più importanti sui quali sta tutto il cristianesimo: la risposta possibile che il cristianesimo esige da ciascuno di noi, che sia una operazione di fede o di speranza o di carità, ciò che dà fondamento è che avvenga nella libertà e per amore.
Permettetemi questa digressione, sono cose semplici: chiunque di voi abbia un orecchio e ascolti le preghiere eucaristiche di tutta la Chiesa, il fondamento proprio della Pasqua è nella libertà: “Liberamente stese le braccia”, “Liberamente andò verso la passione, per amore degli uomini”. Al momento della celebrazione eucaristica di tutti i riti, di tutte le Chiese, in tutte le anafore emerge che la morte, la Pasqua del Signore, è avvenuta nella sua libertà e per amore di Dio e degli uomini. Ma questa è la condizione in cui noi possiamo vivere la libertà che ci è stata portata dalla liberazione di Cristo.
Chi sceglie l’amore e rifiuta l’odio, è l’uomo libero. Siamo di fronte certamente a ossimori, in cui si chiama libertà ciò che sembra contrapporsi: nel cristianesimo il linguaggio della croce ci chiede proprio questa comprensione.
Non solo liberazione dalla Legge, ma anche liberazione dalle “potenze”.
Ancora però: liberazione da che cosa? Ecco Paolo non parla … e dalla carne. Morto per i nostri peccati, offrendo la sua vita al Padre, perché fossero rimessi i nostri peccati, Cristo ci ha liberato dalle altre potenze, oltre che dalla exusia della Legge. Ci ha liberati dall’influenze fatali delle potenze dell’aria, quelle dominanti che sono presenti e permeano il nostro mondo.
Per Paolo, ma per tutto l’ebraismo, e comunque in special modo nel Nuovo Testamento, ci sono delle potenze, delle exusie. Paolo alcune volte addirittura da tutta una serie di nomi prendendoli dal mondo, soprattutto delle potenze angeliche dell’Intertestamento. Cioè ci sono delle vere potenze: Paolo arriva a dire in 1Cor 8, che ci sono dei veri teoi e dei veri kirioi, dei veri dei e dei veri signori, anche se per noi c’è un solo Dio e un solo Signore. Potenze che abitano l’universo, che esercitano un loro influsso su noi uomini e su tutta la creazione.
Ebbene con la sua morte e resurrezione Gesù ha disarmato queste potenze; cioè Gesù ha vinto ciò che la potenza per eccellenza, il demonio, in realtà con i suoi ministri aveva come potere e Cristo ci ha liberati da questo potere.
E se queste potenze agiscono su di noi e in noi, è dovuto soprattutto alla carne: anche questa è una espressione difficile paolina, la sarx , perché Cristo ci ha voluti liberare proprio anche dalla potenza della carne.
Noi siamo carne. Attenzione! Questo non indica che noi abbiamo un corpo, questo è positivo. Ma noi siamo carne e non solo nel senso che siamo mortali, ma nel senso che noi subiamo questa influenza che ci stabilisce in una situazione di rivolta, di inimicizia nei confronti con Dio (Rom 8, 7-8) , ma anche in una situazione in cui prevale in noi il volere egoistico di vivere senza gli altri e anche contro gli altri.
Proprio nella nostra condizione della carne, naufraga, secondo Paolo, l’intento spirituale della Legge (Rom 7, 10 – 8, 3). Proprio nella carne noi pecchiamo, falliamo e contraddiciamo la nostra relazione con Dio e la nostra relazione di giustizia con i fratelli.
Ecco allora il peccato come esperienza di alienazione conosciuta da tutti gli uomini. Tutti abbiamo peccato. Tutti siamo privi della gloria di Dio, scrive Paolo in Rom 3, 23, e così ognuno di noi è costretto a confessare – con una espressione che echeggia Ovidio, ma che è veramente molto più forte: “Io non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio, io faccio” (Rom 7, 19). E Paolo lo spiega ancora: “Ma se io faccio quello che non voglio, non sono io che agisco ma è il peccato che abita in me”.
Ecco la tirannia del peccato, ecco la schiavitù della carne che ci pone in una condizione di uomo vecchio, e Paolo usa l’espressione: “Venduto al peccato” (Rom 11, 32). Ma proprio da questa tirannia Cristo ci ha liberati, perché ci ha fatto morire con lui al peccato e ci ha posto in una condizione di nuove creature.
Morte al peccato o libertà dal peccato sono degli eventi reali, per Paolo, che noi viviamo soprattutto nel battesimo, che è un morire con Cristo per rinascere ad una vita nuova. E questa è una coscienza che con difficoltà si è imposta all’interno della comunità cristiana. Il battesimo, attenzione, non è tanto un lavacro eventualmente da colpe, quanto soprattutto un essere immerso nella morte di Cristo per essere richiamati a vita nuova con Lui e risorgere con Lui. Questo è veramente Paolino. E i grandi sviluppi che noi abbiamo di nuovo nel deuteropaolo, soprattutto in Colossesi ed Efesini, sono dovuti, direi, a questa centralità di Paolo che vede come noi partecipiamo all’evento salvifico della Pasqua di Cristo, soprattutto con la celebrazione del battesimo.
Noi, coinvolti nella fede e nella esperienza sacramentale, noi siamo coinvolti nella vicenda di Cristo: viviamo con Lui, siamo morti con Lui, siamo sepolti con Lui e siamo risorti con Lui. O meglio: no. Non siamo risorti: saremo certamente con Cristo chiamati ad una resurrezione simile alla sua (Rom 6, 1-14).
Il cristiano è liberato dunque dalla schiavitù della carne, come da un uomo vecchio e, come nuova creatura, vive in Cristo e con Cristo. E tuttavia il cristiano non è irreprensibile perché continua a conoscere l’esperienza della caduta e del peccato, l’esperienza della inimicizia con Dio.
Ma l’azione giustificante di Dio è una azione efficace e che non viene meno, né può essere resa inefficace dai peccati che il cristiano commette: perché soprattutto, lo Spirito Santo – che è lo Spirito di Cristo – è fuso nel cuore dei cristiani, compie e porta a termine l’opera iniziata nel battesimo; e rinnova dunque la possibilità della liberazione, liberazione dalla autonomia egoistica, efilautica, che è la soggettività del peccato.
Al cristiano dunque non è neanche chiesta una autorealizzazione, un cammino di perfezione: al cristiano secondo Paolo non gli viene mai detto: “Tu devi!”. Ma gli viene detto: “Tu sei!”.
E gli viene chiesto solo di predisporre tutto perché lo Spirito del Signore possa agire in lui e, dunque, le energie di liberazione del Cristo crocifisso e risorto possano costantemente portarlo a libertà.
Lo Spirito Santo è la potenza e la forza di Gesù Cristo che, presente in noi perché donato, ci lascia la libertà come dimensione e come forza che possono determinarci. Insomma, la libertà di Cristo, soffia verso di noi e siccome dove c’è lo Spirito là c’è la libertà (2Cor 3, 17), allora noi siamo costantemente rigenerati dallo Spirito alla libertà.
Ecco, credo che sia importante capire la libertà non come una condizione acquisita semplicemente con l’evento del battesimo. Questo sì in radice, ma poi c’è una dinamica in cui costantemente noi siamo resi liberi. Voi sapete che c’è un detto straordinario del IV secolo che viene soprattutto narrato come un apoftegma dei Padri del deserto. “Che cosa fate voi monaci? Cosa è specifico della vostra vocazione?”. Ma io credo si possa dire: “Che cosa è specifico della vocazione cristiana?”. E la risposta di questo saggio apoftegma siriano è: “Noi cadiamo e ci rialziamo. Noi cadiamo in peccato e ci rialziamo. Noi cadiamo ancora in peccato e ci rialziamo, perché lo Spirito ci rialza”.
È la dinamica della libertà e della liberazione cristiana. Ma, ecco, basterà che noi ci lasciamo guidare dallo Spirito e allora, dice Paolo saremo figli di Dio. Basterà che noi ci lasciamo guidare dallo Spirito e allora noi saremo abilitati a dire abba a Dio, papà (Rom 8, 15). Basterà che noi ci lasciamo guidare dallo Spirito e saremo senza timidezza, ma saremo addirittura capaci di pregare con i gemiti dello Spirito, il quale ci stabilisce in una salda comunione con il Padre e con Cristo.
E in questa libertà verso Dio che noi però dovremmo anche esercitarci ad una franchezza, alla parresìa – parola, questa, cara a Paolo – per dire la libertà e la schiettezza del cristiano di fronte a Dio. Attenzione: Paolo dice che noi cristiani, ormai, grazie allo Spirito viviamo una condizione di parresìa di fronte a Dio, non abbiamo paura, stiamo di fronte a Dio. Ma noi soprattutto questa parresìa dobbiamo saperla esercitare di fronte a tutti nel mondo, e soprattutto di fronte ai poteri agli arcontes, i dominatori di questo mondo.
Sì, Paolo non ha solo il termine, certamente il più eloquente, di eleuteria per dire libertà, ma anche parresìa è un termine che la riecheggia. Libertà che non va mai mendicata!
Ricordatevi la libertà non la si mendica, neanche nella Chiesa; perché la libertà la si esercita e non si chiede a nessuno di essere liberi, neanche alla autorità della Chiesa, neanche agli arcointes di questo mondo. Questo è decisivo per il cristiano. E noi sappiamo che Paolo, fin dalla conversione ha saputo parlare con parresìa di Gesù.
Tutta la sua predicazione, insistono gli Atti, è stata una predicazione avvenuta con parresìa: libertà di fronte a Dio, libertà di fronte alle stesse autorità della Chiesa, per cui Paolo ha osato porsi in faccia a Pietro, quando Pietro non era capace di parresìa ed era nel torto (Gal 2, 21). Libertà di fronte dunque ai potenti di questo mondo, ai re, ai governi, ai giudici. Sì , comportarsi con parresìa, parlare con parresìa è necessario per manifestare ed esercitare quella libertà cristiana che ci è stata data e che sarebbe davvero grave peccato contraddire.
Infine, liberazione ancora da cosa? In Paolo, come d’altronde in tutto il Nuovo Testamento – possiamo dire – liberazione non c’è, se non anche dalla morte.
Dunque, solo chi è liberato dalla morte, sarà veramente e totalmente libero. Se la fede cristiana vive della buona notizia dell’Evangelo, cioè della notizia della resurrezione di Gesù dalla morte, allora il suo annuncio non può che essere quello della liberazione da, quello che Paolo chiama, “l’ultimo nemico” che per ora non è ancora distrutto, se non in Gesù Cristo, ma che sarà annientato per sempre da lui, nel giorno nella gloria del Figlio dell’uomo.
Sì, su questa liberazione dalla morte dobbiamo cogliere come già ora, grazie alla fede e grazie alla nuova creazione di cui il cristiano fa parte, c’è una azione efficace della resurrezione avvenuta una volta per sempre in Gesù Cristo, che è Signore vivente che non muore più. Una azione di liberazione nella speranza; una azione di liberazione che per ora noi, però, non conosciamo in tutta la sua portata, perché noi continuiamo a morire. Moriamo noi e muoiono accanto a noi quelli che son stati per noi, quelli che vivevano con noi.
E’ vero, noi continuiamo a morire, noi continuiamo a conoscere che l’ultimo nemico per ora ci vince e confessiamo, però, che Gesù Cristo l’ha già vinto il terzo giorno quando è stato richiamato dal Padre da morte.
Ebbene mi permetto qui di ricordare, la lettera agli Ebrei al capitolo 2, versetti 14 e 15, dove si dichiara che: “Gesù è diventato partecipe della nostra carne e del nostro sangue, per ridurre all’impotenza mediante la morte, colui che della morte è il potere, cioè il diavolo e così liberare quelli che, per paura della morte – fobo tanatos – erano soggetti a alienazione, a schiavitù per tutta la vita”.
Guardate, questo è un brano sul quale si riflette poco, ma per me è la chiave per capire davvero da cosa noi siamo liberati. Ripeto perché siccome non è un brano conosciuto e ha una sua difficoltà, se a qualcuno è sfuggito in tutta la sua portata. Metto l’accento sulla novità e oso dire, solo qui, nel Nuovo Testamento c’è questo annuncio: “Gesù è diventato partecipe della nostra vita, pienamente carne e sangue per ridurre all’impotenza, morendo, colui che della morte è il potere, il diavolo e liberare quelli che, per paura della morte, – fobo tanatos – erano soggetti a schiavitù per tutta la vita”.
Guardate che questa è una indicazione che tra l’altro raggiunge – noi forse oggi la comprendiamo meglio, grazie anche al corredo che abbiamo delle scienze umane. Cioè: c’è una paura della morte che è la causa prima per cui noi siamo alienati.
Provate a farvi queste domande: perché noi siamo cattivi? Le faccio proprio nel linguaggio quotidiano e non teologico. Perché noi siamo cattivi? O con linguaggio un po’ più teologico: perché noi pecchiamo? Chiedetevelo davvero.
Perché c’è una ragione per cui noi siamo cattivi; ed è la ragione, che lo sappiamo o no, ma che noi siamo sotto la schiavitù della morte. Noi abbiamo paura di morire. Ma attenzione, non la paura soltanto dell’evento: perché quella paura dell’evento, permettetemi di dire, difficilmente ce l’hanno i ventenni e i trentenni, i quarantenni. Poi comincia a venire e quando si ha la mia età si conosce meglio. La paura della morte che lavora in noi e in profondità e che ci chiede di vivere contro gli altri e senza gli altri.
In fondo all’interno di una lettura antropologica delle dominanti del peccato perché noi, alla fin fine, vogliamo ad ogni costo vivere in una dimensione erotica? Lo dico nel senso dell’eros, non nel senso spicciolo. Perché siamo convinti così, non solo di celebrare la vita, ma di aumentare la nostra vita.
Perché noi siamo assaliti dalla libido possidendi? Perché dentro di noi più possediamo, più abbiamo delle armi contro la morte. Perché noi siamo presi dalla libido dominandi? Perché più noi dominiamo, più noi siamo in vita e più allontaniamo la morte.
Che noi lo vogliamo o no questa è la legge che sta addirittura all’interno – permettetemi di dire – di tutto quel fenomeno – e non voglio entrare in cammini con la scienza, spero che mi capiate – ma che noi chiamiamo la legge dell’evoluzione, in cui la tendenza è vivere senza gli altri e contro gli altri al costo di pigliare la vita agli altri, perché abbiamo paura della morte. Una paura profonda, sorda, segreta, che non sempre riusciamo a guardare in faccia.
Ma la Lettera agli Ebrei la mette in evidenza: noi, la nostra alienazione. Notate, che nel linguaggio Paolino, la schiavitù è sempre schiavitù del peccato. Ecco noi siamo schiavi, siamo alienati per questa paura della morte. La paura della morte è realmente schiavizzante: anzi la morte è il re delle paure, secondo una espressione veterotestamentaria – in Giobbe al capitolo 18 versetto 14. Ed è la radice di tutte le nostre paure: ed è proprio questa schiavitù dovuta alla paura della morte che diventa istigazione alla filautia, all’amore di noi stessi.
Allora capiamo le parole di Gesù: “Chi vuol salvare la sua vita la perderà ma chi perde la sua vita, in realtà, la ritrova”.
Sì, la paura della morte è istigazione alla filautia, all’egoismo, al vivere senza gli altri e anche contro gli altri.
La paura della morte è quella che ci istiga a cammini che contraddicono la relazione, la comunione, la responsabilità condivisa. La paura della morte è la causa del peccato e del male che noi commettiamo. Sì, poi certo, lo dice anche la Lettera agli Ebrei, a capo di questa istigazione c’è la potenza del demonio, ma il demonio non agirebbe senza questa possibilità della paura della morte.
Che cosa è stata d’altronde – scusate il riferimento ma per darvi, visto forse la novità per akcuni di questo – ma cosa è stata la colpa prima dei primi uomini. “Se voi mangerete di questo frutto voi non morirete, ma vivrete per sempre”. Il vecchio sogno è uno solo, che sta in noi. Allora mossi dalla paura, noi uomini, vogliamo preservare noi stessi, la nostra vita, vogliamo vivere senza gli altri e contro gli altri, o servendoci degli altri. Vogliamo possedere per noi stessi e tutto, vogliamo dominare sugli altri.
Questo è il peccato cui siamo spinti nella nostra brama di vivere, per contrastare la morte. Ecco la nostra schiavitù sui sentieri della morte, della nostra filautia, che non sceglie la comunione, ma sceglie la propria vita da conservare ad ogni costo. Ma la fede nella resurrezione di Gesù, la fede nella vita eterna, la speranza che la morte non è più l’ultima nemica, non è più l’ultima parola, per renderci liberi dalla paura della morte.
Tristi sì. Addolorati dalla morte. Non ci è chiesto assolutamente una situazione di fronte alla morte di apatia. Ma non schiacciati dal potere della morte. Paolo è quello che ci invita a cantare, riecheggiando Isaia, ma andando oltre: “Oh morte, dov’è la tua vittoria? Oh morte dov’è il tuo pungiglione?” (1Cor 15).
Possiamo essere certi, però – dice Paolo – che la morte non ha più l’ultima parola, non ha l’ultima vittoria. E l’ultima vittoria, Paolo dice, ce l’ha l’amore. Al termine di questo inno, e poi nel capitolo 8 della Lettera ai Romani, dice: “Nulla ci può separare dall’amore di Cristo. Né morte, né vita, né potenze. Nulla ci può separare”. Allora, se nulla ci può separare dall’amore di Cristo, ecco che noi possiamo fare non l’esperienza della risurrezione – No! Stiamo attenti: noi siamo uomini che viviamo alla luce, non della visione, ma della fede, dice Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi. Noi non siamo ancora risorti con Cristo, ma noi possiamo vivere cominciando a fare l’esperienza di non aver paura della morte.
È significativo, e voi lo sapete, che i primi cristiani amavano definirsi coloro che non hanno paura della morte. Cioè liberi dalla schiavitù, capaci di comunione, perché in ogni occasione, in vita, in malattia, nella morte violenta, nella morte alla fine della vita, sanno che la vittoria è data all’amore, quell’amore di Cristo dal quale non ci possiamo separare. Quell’amore che Paolo, all’interno dell’Inno all’amore in 1Cor13, dice: “Resterà in eterno”. Perché la fede a un certo punto scomparirà, la speranza scomparirà; l’amore invece non scomparirà. E certo Paolo non arriva a quel vertice di Giovanni nella prima Lettera al capitolo quarto che arriva a dire: “Dunque Dio è amore”. Però senza questa dichiarazione lapidaria che è il vertice, certamente là ci dice Paolo, se resta l’amore, è come dire, resta il Dio vivente che è amore.
Conclusione : la vita cristiana è davvero nel segno della libertà, liberati per la libertà, chiamati alla libertà.
Ma, credo che abbiate capito, che questa libertà è altro che libertinismo! Nulla di più esigente della libertà cristiana, perché il cristiano è libero per il servizio; è libero per la comunione; è libero per vivere con Cristo e con tutti quelli che sono in Cristo Gesù.
A me certamente appare estremamente eloquente in Paolo l’aver percepito, forse l’unico autore del Nuovo Testamento, ad aver percepito che Cristo ha significato un evento di grande lotta tra l’amore e la morte.
Non dimenticate il Cantico dei cantici, che è significativo, ha un grande valore ma non tanto per le vicende secondo me e le venture che ci sono prima tra i due ragazzi, ma perché la loro vicenda d’amore trova in un versetto finale tutta la sua forza e giustificazione: “Forte come la morte è l’amore. Tenace come lo sheol è l’amore”. Dove si dice quello che aveva capito anche il pensiero greco, eros e tanatos, che se c’è un nemico vero della morte è l’amore.
Ecco vedete: in Cristo l’amore ha vinto la morte. E attenzione, concludo davvero. Quando si dice che Cristo è risorto, voi cristiani non fermatevi, e soprattutto non rispondete che Cristo è morto ed è risorto perché è Figlio di Dio. È un messaggio troppo breve, che nessuno può ricevere oggi. Il vero messaggio è che Cristo, avendo amato fino all’estremo, essendo stato l’amore, Lui ha vinto la morte.
La ragione della resurrezione sta nell’amore vissuto da Cristo. Non semplicemente perché era Figlio di Dio: messaggio troppo breve che non direbbe nulla ai non credenti e direbbero: “È un messaggio che non ci riguarda!”.
Ma se chi ha vinto la morte è l’amore e l’amore vissuto da un uomo, Gesù Cristo, allora questo messaggio riguarda tutti, anche gli altri cristiani. E allora si può dire con Paolo: “Che cosa ci separerà da questo amore?”. Nulla, neanche la morte, per quale Cristo ci ha liberati, e in speranza noi crediamo che saremo con lui liberati.
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* Enzo Bianchi è fondatore e priore della Comunità Monastica di Bose. Già direttore della rivista biblica Parola, Spirito e Vita, è membro della redazione della rivista internazionale Concilium. È autore di numerosi testi, tradotti in molte lingue, sulla spiritualità cristiana e sulla grande tradizione della Chiesa, tenendo sempre conto del vasto e multiforme mondo di oggi. Collabora a La Stampa, Avvenire e Luoghi dell’infinito.
** Pubblichiamo per la prima volta le sbobinature dei contributi presentati al ciclo di incontri “Libertà va cercando” (Firenze, novembre/aprile 2008), che tentò una riflessione a 360 gradi su libertà, fede e società. Sei incontri, a cadenza mensile, in cui testimoni del nostro tempo come il priore di Bose Enzo Bianchi, Gian Enrico Rusconi editorialista de “La Stampa”, Sergio Givone professore di Estetica, Mariagrazia Contini pedagogista, Luigi Lombardi Vallauri professore di filosofia del diritto e Elmar Salmann teologo presso la pontifica università gregoriana di Roma, cercarono di tracciare nuovi sentieri di vita e di pensiero.
Un’iniziativa ideata e voluta dal disciolto gruppo di formazione cristiana “Villa Guicciardini” di Firenze, composto da ragazzi dai 18 ai 35 anni, con la collaborazione dell’Ufficio Cultura dell’Arcidiocesi di Firenze e con l’aiuto inedito e non ufficiale di varie realtà cattoliche fiorentine. L’iniziativa allora ritenuta troppo aperta, da alcuni settori conservatori della chiesa fiorentina, non venne più ripetuta nonostante il grande riscontro ricevuto. Questa è la sbobbinatura degli interventi, curata dal gruppo Kairos per il gruppo di “Villa Guicciardini” di Firenze.