Eravamo uomini come te. Gli omosessuali vittime della persecuzione nazista
Articolo di David W. Dunlap tratto dal The New York Times (Stati Uniti) del 26 giugno 1995, liberamente tradotto da Claudio Abate
Trasformato dagli omosessuali da un simbolo della persecuzione nazista in un emblema della liberazione gay, il triangolo rosa ha conosciuto una grande diffusione ma ha perso il legame con le esperienze personali. Oggi, dopo mezzo secolo, il simbolo può di nuovo essere associato con il nome di un uomo, la sua voce e la sua storia.
Il nome è Josef Kohout, prigioniero n. 1896 del blocco 6 nel campo di concentramento di Flossenburg in Bavaria, vicino al confine ceco. All’età di 24 anni fu arrestato a Vienna come fuorilegge omosessuale dopo che la Gestapo ebbe ottenuto una foto da lui scritta per un altro ragazzo in richiesta di “amore eterno”.
Liberato sei anni più tardi dalle truppe americane, il signor Kohout tornò a Vienna dove morì nel 1994. Tra i suoi effetti personali vi era un delicato pezzo di stoffa, lungo due pollici e largo meno di uno, con il numero 1896 sulla destra e un triangolo rosa sulla sinistra.
Il dottor Klaus Muller dell’Holocaust Memorial Museum degli Stati Uniti dice che è l’unico lembo di cui si sa che è stato indossato da un prigioniero identificabile. La prova è stata donata al museo dal compagno del signor Kohout insieme al diario dell’ex prigioniero e alle lettere che i suoi genitori scrissero al comandante del campo nell’inutile sforzo di andarlo a trovare. Il dr Muller, il direttore del progetto per l’Europa dell’Ovest del museo, dice: “Trovo molto importante che il triangolo rosa sia collegato alle persone che sono state costrette ad indossarlo”.
Nella sua missione il museo abbraccia non solo gli ebrei vittime dell’olocausto, ma anche altri gruppi che furono perseguitati, come gli zingari, i disabili, i testimoni di Geova e i prigionieri di guerra russi. Su suggerimento di David B. Mixner, un consulente societario a Los Angeles che è attivo nelle cause gay, è stata avviata una campagna del valore di 1,5 milioni di dollari per rintracciare i sopravvissuti omosessuali e documentare le loro esperienze. Il coordinatore della campagna, Debra S. Eliason, dice che finora sono stati impegnati 350.000 dollari.
Ai visitatori abituali del museo vengono consegnate esemplari di documenti identificativi delle vittime per personalizzare il vasto sfondo narrativo storico e le vittime indicate sui documenti, una manciata di questi erano omosessuali. Durante la sua prima visita, al rappresentante del Massachusetts, Gerry E. Studds (uno dei tre membri del Congresso dichiaratamente gay), fu accidentalmente dato il fac-simile del documento di Willem Arondeus, un combattente per la resistenza olandese omosessuale, che fu ucciso nel 1943.
Il signor Studds dichiarò. “Ricevere questa carta per me è semplicemente sbalorditivo”. “Tra i molti posti in cui nella mente delle persone non siamo mai esistiti vi è sicuramente l’olocausto”, dice il signor Studds. “Il trionfo supremo nell’ultima generazione, in termini di lotta delle persone gay e lesbiche, è il riconoscimento del semplice fatto che noi esistiamo”.
Il signor Kohout non è l’unica vittima del nazismo di cui abbiamo traccia. Gradualmente, al crepuscolo delle loro vite, un gruppetto di sopravvissuti si sta facendo avanti per presentare cautamente le proprie richieste di riconoscimento, non avendo affatto rinunciato alla speranza di avere una restituzione. Una dichiarazione, firmata all’inizio di quest’anno da otto sopravvissuti che ora vivono in Germania, Francia, Polonia e Olanda, dice che: “Il mondo in cui speravamo non arrivò”.
Reclamano una commemorazione e la documentazione delle atrocità naziste contro gli omosessuali e le altre categorie. Implorarono “il supporto morale delle persone”. Tra i sottoscrittori vi sono Kurt von Ruffin, giunto ora all’età di 93, un popolare attore e un cantante d’opera nella Berlino degli anni Trenta che fu spedito al campo di Lichten-burg a Prettin, e Friedrich-Paul von Groszheim, di 89 anni, che fu arrestato, rilasciato, reincarcerato, torturato, castrato, rilasciato, arrestato nuovamente e imprigionato nel campo di Neuengamme a Lubeck.
Il dottor Muller stima tra i 10.000 e i 15.000 gli omosessuali che probabilmente sono stati incarcerati nei campi, sui 100.000 uomini che furono arrestati in forza del Paragrafo 175 del codice penale tedesco, che stabiliva la reclusione di “un uomo che commette atti licenziosi e lascivi con un altro uomo”. (La legge non menzionava le lesbiche, sebbene siano stati registrati dei casi di persecuzione di lesbiche). Secondo il dottor Muller, forse il 60 per cento morì nei campi. Nel 1945, quindi, solo 4.000 potrebbero esser sopravvissuti. Il dottor Muller oggi ne conosce meno di 15.
I loro travagli non si conclusero con la liberazione. Erano, infatti, ancora ufficialmente considerati criminali, piuttosto che come prigionieri politici, in quanto il Paragrafo 175 restò in vigore nella Germania Ovest fino al 1969.
Fu negato loro ogni risarcimento e gli anni che trascorsero nei campi furono sottratti dalle pensioni. Alcuni sopravvissuti furono persino rincarcerati.
I sopravvissuti, giunti ormai all’età in cui si è nonni e bisnonni, raramente richiamavano l’attenzione come omosessuali, avendo imparato fin troppo bene i pericoli della notorietà. Il dottor Muller ricorda che: “Non è facile raccontare una storia quando sei stato costretto a nasconderla per 50 anni”.
Uno dei primi uomini a rompere il silenzio fu l’anonimo “Prigioniero X. Y.”, che fornì un racconto dettagliato e vivido della vita da prigioniero omosessuale nel libro del 1972 “The men with the pink triangle”, di Heinz Heger, che è stato nuovamente pubblicato l’anno scorso da Alyson Publications. Per una coincidenza che ancora stupisce il dottor Muller, il Prigioniero X. Y. , “il prigioniero omosessuale la cui vita nel campo è la meglio documentata”, si è rilevato essere il signor Kohout.
Dopo il suo arresto nel 1939, il signor Kohout è stato portato al campo di Sachsenhausen e ha lavorato nella muratura in mattoni di klinker, che lui definiva “l’Auschwitz degli omosessuali”. I prigionieri che non erano picchiati a morte potevano facilmente essere uccisi da pesanti carrelli che correvano lungo la ripida pendenza della cava di argilla. Nel 1940 fu trasferito a Flossenburg. Alla vigilia di Natale del 1941 i detenuti furono costretti ad eseguire canti natalizi davanti ad un albero di Natale di circa 9 metri sulla piazza d’armi. Accanto vi era un patibolo da dove sin dalla mattina pendevano otto prigionieri russi impiccati.
Il signor Kohout ha scritto che “ogni volta che sento una canzone di Natale – non importa quanto bella – mi torna in mente l’albero di Natale di Flossenburg con le sue raccapriccianti decorazioni”.
Il signor Kohout è morto nel marzo 1994, all’età di 79 anni. Un mese più tardi, in un appartamento di Vienna, il suo compagno sopravvissuto rilasciò un’intervista al dottor Muller, che lo aveva rintracciato attraverso un gruppo gay austriaco per richiedergli ulteriori informazioni.
Secondo quanto ricorda il dottor Muller, il compagno alla fine disse: “Se è così interessato ai dettagli, ho del materiale in due scatole e, onestamente, non avevo la forza di prenderle perché non ho ancora superato il dolore per la sua morte. Se vuole, però, possiamo guardarle insieme”. La prima cosa che il compagno del signor Kohout tirò fuori fu il distintivo del triangolo rosa e la prima cosa che il dottor Muller pensò fu: “É impossibile. Abbiamo cercato per anni un triangolo rosa che potesse non solo documentare il sistema di classificazione nazista ma anche essere associato alla storia personale di un individuo”.
Il triangolo è ancora conservato, ma una parte del diario del signor Kohout è ora esposta al museo. Si tratta semplicemente della pagina in cui annotò l’arrivo dei liberatori il 24 aprile 1945: “Amerikaner gekommen” (sono arrivati gli americani).
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Testo originale: Personalizing Nazis’ Homosexual Victims