Ero Separata, finalmente libera
Riflessioni di Marta*, semplicemente una madre
Ero finalmente libera. Separata. Faceva uno strano effetto ritornare a casa da persona “libera”, dopo l’udienza in Tribunale. Avevo bisogno di abituarmi, e avevo bisogno di sentire vicine le persone più care. Avevo bisogno di fare nuovi progetti, e anche di sognare. Di sognare sogni possibili. Di ricominciare a credere nei miei sogni. E ce n’era uno, splendido, che stava per realizzarsi, che si sarebbe realizzato, finalmente, il mio sogno di Paolo.
Ero rimasta a vivere da sola con i bambini, nella casa matrimoniale. E incominciava, in quell’ormai lontano inizio inverno, a scandirsi il tempo come si sarebbe scandito per molti anni, in seguito, e ancora è così: una domenica sì e una domenica no. Una domenica i figli con me, e una domenica i figli con papà. A dire il vero la sentenza del Tribunale diceva che i figli sarebbero andati a “godere dell’affetto paterno” dal sabato subito dopo scuola fino a domenica dopo cena. Ma non è mai accaduto. Mai. Il padre veniva a prenderli inizialmente la domenica mattina presto, e poi, con il passare degli anni, sempre più tardi, per poi riportarli a casa subito prima di cena. Così che il mio tempo libero era sempre più breve. Sono sicura che ciò sia stato strategico da parte del padre. Non sia mai che mi possa prendere delle libertà!
Credo siano vicende comuni a tante coppie separate.
Non ho mai preteso che mio ex marito rispettasse le regole perchè sarebbe stato come litigare, e litigare davanti ai figli non mi è mai piaciuto, e poi, conoscendolo, so che non sarebbe servito ad altro che ad incattivirlo ancora di più.
E poi io non sono capace di pretendere. Non sta nella mia natura. Normalmente sono molto accomodante. Ma soprattutto, litigare quando? Quando poi se ne andava via con i miei figli? E con che cuore li avrei lasciati da soli, con un padre incattivito? Scherziamo? Erano bambini, allora. Non avevano nessuna responsabilità su quanto era successo a noi due. Perchè metterli in situazioni spiacevoli? Ho sempre pensato prima a loro che a me.
Li salutavo sempre con il sorriso, assicurandoli che li avrei aspettati a sera. Ed augurando loro una ottima giornata con il padre.
Poi restavo da sola e piangevo.
La casa era troppo grande senza i bimbi. Troppo silenziosa. E io di quelle poche ore di libertà non sapevo che farmene.
In realtà, nei primi mesi da separata, il mio sogno sarebbe stato quello di farmi finalmente un fine settimana fuori casa, con Paolo. Dovunque lui avrebbe voluto. Anche a casa sua. Ma per dormire fuori avrei avuto bisogno che qualcuno si fermasse a dormire con i bambini. E non era cosa semplice. Ma lo avrei fatto. Avrei inventato una scusa con i miei, magari sarebbe venuta mia madre a dormire a casa mia. E io, finalmente, potevo ricominciare a vivere. Finalmente!
Ma Paolo non mi disse mai di sì.
“Un fine settimana intero no, ma se vuoi un giorno solo sì”. Così rispose alla mia richiesta.
Trascorremmo un giorno a Venezia. Facilmente raggiungibile dai nostri paesi. Mezz’oretta di treno. Peccato non andarci.
Mi portò a spasso per Venezia in una freddissima ma limpida giornata di dicembre. Nel mercato all’aperto mi comprò una manciata di kumquat, che io non avevo mai visto, e che da allora, ogni volta che li vedo, mi ricordano le mani di Paolo unite, colme, e il suo sorriso che mi invitava ad assaggiarle. Poi andammo a visitare il Guggenheim, scambiandoci opinioni, pareri, sorrisi, abbracci. Ma non accadde nulla di più. Non era ancora ora, mi dicevo. No, non era ora.
Era solo una delle tante giornate che da lì in poi seguirono. Una manciata di ore, un fiume di parole, qualche sorriso, un po’ di pace. E poi il ritorno a casa. Ognuno nella sua.
Ero sempre io a chiedere per prima. “Dammi una data”, gli dicevo. La blindavamo nell’agenda. Intanto c’era la data. I contenuti sarebbero venuti da soli, un po’ alla volta. Pranzare in qualche ristorante, passeggiare, oppure fermarsi da qualche parte a chiacchierare. Parlavamo soprattutto di me, perchè ero io, in quel periodo, ad aver bisogno.
Sono trascorsi tanti anni, da quei giorni. Mi confondo un po’ le occasioni, gli accadimenti. Ma più o meno si svolgevano sempre in quel modo: appuntamento, io che aspetto, lui che mi chiama per chiedermi se sono già lì, e poi mi dice sto arrivando. Anche mezz’ora dopo. A volte anche un’ora. Ma io lo aspetto.
E poi i piccoli riti: le pietanze condivise, l’acqua ordinata per me, la gentilezza che mai avevo vissuto, le confidenze, il parlare di me, di lui, di noi. Scoprendo che il cammino interiore che cercavamo di fare era comune, nel cercare di cogliere il senso della Fede, nell’incarnarla nelle nostre vicende quotidiane. Cos’è il Bene? Cos’è “Voler bene”? Volere il tuo bene, volere il suo bene, e il sacrificio cos’è? Ha un senso, il sacrificio? E la Grazia? La Gioia? Hai letto questo? Hai letto quello? Ti ho portato un libro, è bello, leggilo, poi ne parliamo …
E lo scrivere, lunghissime mail, e altrettanto lunghe telefonate.
Se non lo avessi avuto per amico non so come sarei sopravvissuta, in quei primi tempi da separata. Certo, non si quagliava nulla. Ma forse era meglio così. Già. Era sempre meglio quello che accadeva, visto che non accadeva null’altro.
“In amor vince chi fugge”, mi disse un’amica. E allora provai anche a “fuggire”. Soprattutto perchè incominciavo a non poterne più della frustrazione. Non aveva senso, infatti. No, non aveva senso. Lui era un uomo libero, io ero una donna libera. Stavamo bene assieme. Che cosa impediva di dare vita ad un amore vero?
Forse lui aveva avuto qualche trauma che lo aveva condizionato? Sì, forse era stato così. Avrebbe avuto bisogno di tanta pazienza, da parte mia. Oppure di forzarlo un po’? Certo stava diventando davvero un caso intrigante. Come mai non si quagliava? Ero brutta io? Vecchia e brutta, secondo le definizioni più affettuose del mio ex marito? No, non poteva essere. Fosse stato così non sarebbe uscito con me, non sarebbe venuto a pranzo, a cena, a passeggio, in giro per il mondo … non sarebbe arrivato ogni volta con il sorriso … E allora?
Mancava poco a Pasqua, quell’anno. Ci trovammo in un paese nuovo, dove non eravamo mai stati. Il pranzo in trattoria fu ottimo, discreto e riservato il luogo. Era un giorno di pioggia. Uno di quei
giorni di primavera incalzante, dove la pioggia pare lavare i primi fiori per farli splendere ancora di più, e l’aria diventa quasi lucida, dopo la pioggia. Ci fermammo nel chiostro della chiesa. Era finito da poco un funerale, e guardavamo da lontano le gente incamminarsi. Per l’ennesima volta Paolo sfuggì ai miei abbracci, ma non sfuggì agli sguardi e alle parole. Gli feci la domanda chiaramente. Ma non rispose. Rimase vago. Non aveva parole da dirmi. Non riusciva a dirmi niente.
Dentro di me avevo deciso che quella sarebbe stata l’ultima volta, se non avesse potuto essere la prima. Ma la prima non fu. Così quando lo salutai, non gli promisi nulla per Pasqua. “Ci vediamo?”, lui mi chiese. “Penso proprio di no”, gli risposi. E gli augurai “buon cammino”, come si augura ad un amico che non si rivedrà per molto, molto tempo. Non so cosa lui pensasse, in quel momento. Non me l’ha mai detto. Io avevo solo una infinita voglia di piangere. E piansi. Piansi tornando a casa. Piansi tutti i 60 chilometri di lenta strada trafficata. Tutti li piansi. E ad ogni semaforo rosso cancellai un po’ di messaggi suoi, e miei, e suoi… e alla fine cancellai anche il suo numero di telefono. Volevo proteggermi da possibili ulteriori ricadute in quella che mi stava diventando sempre più chiaramente una follia.
A casa poi tolsi anche i suoi indirizzi dalla rubrica della posta elettronica. E mi sentii meglio. Forse ce l’avevo fatta. Sarebbe rimasto un mistero per me, quel suo fuggire dal mio desiderio. Ma almeno avrei potuto imparare a non desiderarlo. E a guardare oltre il confine del suo orizzonte.
C’ero quasi riuscita, quando un giorno mi chiamò lui e non lo riconobbi. “Paolo chi?”, gli chiesi. Ci rimase malissimo perchè scoprì che avevo tolto anche i suoi numeri dal cellulare. Ma sentire la sua voce al telefono mi fu devastante.
Fu la prima volta, ma non l’ultima, che ci provai a dimenticarlo. Non fu l’ultima. Nei due anni che seguirono fu un susseguirsi di periodi di avvicinamento reciproco, e poi di chiusure da parte mia. Salvo poi ricominciare a sentirci, a parlarci, ad essere sempre più amici. Ogni volta io me la raccontavo che ci sarei riuscita, ad abbracciarlo o a dimenticarlo, ed ogni volta fuggiva, lui sì, lui fuggiva. Ed è proprio vero che in amor vince chi fugge. Perchè più fuggiva, e più io poi lo rincorrevo.
Sembrava quasi che ad ogni re-incontro ci conoscessimo un po’ di più. Ad ogni re-incontro, la gioia di ritrovarsi era sempre più grande. E prima o poi ce l’avrei fatta. Dovevo solo dargli tempo. Ce l’avremmo fatta. La felicità era lì, a portata di mano. Bastava afferrarla, e non farla scappare. Che lui fosse felice del tempo che ci dedicavamo non ho mai dubitato.
Una mia amica che in quel periodo lavorava con lui, mi diede la password della loro agenda di servizio, a cui si accedeva via internet. Così potevo controllare cosa scriveva negli orari in cui era con me. Ed era anche divertente vedere come Paolo modificava gli impegni, in base ai nostri appuntamenti. Già. In quel periodo io ero più importante del suo lavoro, per lui. Non era una mia impressione. Lui davvero era felice, con me. Ed io lo ero con lui. Anni dopo gli raccontai questa faccenda della password e dell’agenda. Ci rise sopra. Ci ridemmo sopra. Però, davvero, come è facile ingannarsi, quando non si è liberi di dirsi la verità.
* Conosco Gionata.org ormai da anni. È stato il luogo che più ho frequentato in internet per cercare di capire un’altra vicenda fondamentale nella mia vita. Qui ho conosciuto persone molto belle. E ho avuto modo di conoscere di persona anche i webmaster.
Giorni fa, parlando con Innocenzo, gli ho detto che mi piacerebbe scrivere di queste mie vicende su Gionata, ma che non so neppure da dove cominciare, tanto è un groviglio, che non è facile dipanare.
“Fallo a puntate”, mi ha risposto. E allora, se volete, questa può essere una puntata, un po’ diario, un po’ ricordo. Un racconto in itinere. Che un po’ va avanti, e un po’ torna indietro, per cercare di capire, e trovare il filo di una vicenda normale, perché normale è innamorarsi e amare, anche se l’orientamento non è quello normalmente considerato normale. Non ho idea di come andrà a finire, perché si sta ancora svolgendo. E io non ho ancora compreso tutto. Anzi, a volte mi pare di non aver capito niente.