Esserci. I genitori con figli LGBT l’esempio più grande dell’amore di Dio
Testimonianza di Antonio e Jerry del gruppo Davide di Parma per genitori cattolici con figli LGBT ed i loro amici
Mi chiamo Antonio. Lui, accanto a me, è Jerry. Tra pochi giorni, saranno 10 anni che stiamo insieme. 10 anni in cui abbiamo sperimentato fragilità e forza, sconforto e speranza, rabbia e dolcezza. In cui abbiamo imparato a donarci e a perdonarci, e non è sempre facile. Questo è per noi l’amore. È la nostra natura. Non vi è in essa alcuna tara o alcuna sporcizia –se non l’egoismo e la fallibilità che accomunano tutti gli esseri umani, e da cui Cristo ci offre la salvezza.
Ognuno di noi è uno specchio rivolto verso la luce di Dio, ed è chiamato a rivolgersi verso di Lui, per riempirsi di quella luce e per donarla agli altri, lungo tutta la sua vita. “Non è bene che l’uomo sia solo”: così scopriamo di essere creati davvero a Sua immagine e somiglianza: cioè con una incoercibile tendenza alla relazione e all’amore, che può renderci icone della ricchezza dinamica e creativa con cui si amano le Persone Divine. Di quel Dio, anche noi siamo figli e nella nostra relazione d’amore anche noi siamo specchio dell’amore trinitario.
Noi siamo questa natura, e non ne abbiamo un’altra. E questa natura ci spinge a fiorire nella relazione e nell’amore reciproco, che, se pure non può condurre alla procreazione biologica, non per questo ci rende meno fecondi. Fa di noi due persone più serene, integrate, stabili, fiduciose. Ci strappa alla disperazione della solitudine e ci riconcilia con la comunità umana, verso cui possiamo essere fecondi attraverso la passione del nostro lavoro e delle relazioni affettive.
Da 10 anni dormiamo insieme, in tutti i sensi. E questo diventa progetto e slancio verso il futuro, voglia di “esserci” per l’altro, anche quando scopriamo che lui -come ognuno- non è perfetto, ed è stupendo nella sua imperfezione, degno di essere amato così com’è. Da 10 anni ci alziamo al mattino e lasciamo l’abbraccio dell’amore per andare incontro al mondo, dove vogliamo essere onesti, gentili e utili alle altre persone nel dono e nel perdono. Ogni sera torniamo a quell’abbraccio, e ci ringraziamo per poter insieme guardare il tramonto ed attendere il buio. Insieme, le tenebre non fanno paura. Insieme, le ferite del giorno saranno lenite e più dolce sarà il sonno.
Non abbiamo – esattamente – aderito ad un gruppo, nel senso che ci siamo, quasi senza accorgercene, trovati in una comunità di famiglie. E per noi, parmigiani di adozione, è stato bellissimo. Anche se non ce lo siamo mai detti, ci siamo sentiti un po’ “adottati” da Corrado e Michela, Giuliano e Giovanna, Andrea e Silvia, Carlo e Cristina, Pietro e Laura, perché ci scaldiamo ogni volta un po’ di più al calore del loro amore per i loro figli e figlie omoaffettivi. E, nello stesso tempo, sentiamo che l’amore che fa di loro delle famiglie è lo stesso che fa di noi una famiglia. Non sentiamo alcuna differenza, fra loro e noi, nella sostanza etica e spirituale, perché ciò che costituisce una famiglia sono l’amore e la responsabilità.
Solo attraverso la responsabilità, che si fa progetto, l’essere umano, qualunque sia il suo orientamento sessuale, viene redento dalla precarietà caotica delle relazioni superficiali e promiscue e può crescere mentre costruisce una vita bene ordinata, cioè ordinata al bene, che non rimane mai confinato in se stesso.
Preziosa è la presenza di Claudio, Luca e Maurizio, che con le loro diverse sensibilità e la loro saggezza, alimentata dall’esperienza di vita, contribuiscono a fare di questo gruppo un luogo di ricerca di un senso più grande: confrontare le nostre esperienze, le nostre domande, anche le nostre contraddizioni, per continuare a cogliere, illuminati dalla fede, le carezze di Dio nella nostra vita, anche e soprattutto durante le prove. Essere in ricerca significa fare un sano esercizio di umiltà, senza pretendere di avere già in sé tutte le risposte. Significa condividere anche il sapore, talvolta amaro, del fallimento e dell’attesa, e vivere insieme questa straordinaria stagione di rinnovamento per l’Italia, e forse anche per la Chiesa.
Già, la Chiesa. Non nascondo che una delle mie speranze sarebbe quella di poter parlare alla Chiesa, di essere finalmente ascoltato con rispetto ed attenzione. La Chiesa ascolti !! Un giorno, dovrà ascoltarci in silenzio, e comprendere di quanto dolore è stata -inconsapevolmente o consapevolmente- responsabile nelle nostre vite.
Io sono cresciuto nella Chiesa cattolica, che per me è stata madre ma anche matrigna. Con la sua ignoranza (ammessa talvolta senza vergogna), con le sue contraddizioni, con la sua ostinazione, con la sua crudele cecità ha provocato e provoca ancora tanta rabbia e tanto dolore, in me e in tanti come me. Rabbia e dolore sono quello che vorrei gridare, per ferite che probabilmente non si rimargineranno mai e che posso solo sperare di unire alle sofferenze di Cristo. Ma questo grido, che sento di dovere levare, non voglio che sia solo il MIO grido.
Io, in fondo, una strada l’ho trovata, e tra tante spine ho capito in che modo arrivare ad una sintesi fra la mia natura omosessuale e la mia vocazione alla pienezza della vita in Dio. Ci sono però tante altre persone, giovani e meno giovani, che vivono o vivranno ancora nella lacerazione, nella prostrazione, nello sconforto, e non perché sono omosessuali, ma perché la Chiesa cattolica -come ha fatto con me- ne offende l’intelligenza, ne mortifica la dignità, ne frantuma l’autostima, ne spegne la speranza.
Ci sono persone che potranno tentare di togliersi la vita e, anche se non lo faranno fisicamente, si abbandoneranno ad una vita di menzogna e di tormento, perderanno la gioia e la fiducia nella Resurrezione, poiché verrà loro impedito di fiorire nell’amore. Per queste persone, adolescenti o no, io mi preoccupo, per loro sento di dover gridare: perché siano risparmiate altre sofferenze, perché non vadano sprecate altre vite.
Se i genitori del gruppo “Davide” potranno incontrare altri genitori, e trasmettere loro il tesoro che hanno faticosamente trovato in sé (cioè la capacità di accettare i loro figli omosessuali con amore incondizionato), forse altri figli non saranno picchiati, scacciati, ridotti alla disperazione.
Non mi stanco mai di ripetere a questi genitori che loro, come per me i miei, hanno il compito di custodire la fede in Dio dei loro figli -miei fratelli- poiché sono la più grande metafora dell’amore di Dio, che li ama quando e come nessun altro lo farebbe. Se Dio ci ama incondizionatamente, la Chiesa non può annunciare un amore diverso, se davvero aspira ad essere trasparente testimone di quel Dio che è (anche) Signore del Sabato.