Essere cattolico, il coming out più difficile per un gay
Articolo di Jeffrey Essmann tratto dal sito del mensile cattolico US Catholic (Stati Uniti) del luglio 2014, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Si dice che il coming out sia un processo che dura tutta la vita. Ci sono le fasi iniziali, più drammatiche, di solito collegate alle prime volte (non necessariamente in quest’ordine): quando per la prima volta comprendiamo i nostri desideri sessuali, la prima volta che diciamo a qualcuno di essere gay, la prima volta che ci innamoriamo.
Il dramma, in ognuno dei casi, è praticamente sempre lo stesso: è il dramma esistenziale di esporre noi stessi di fronte al mondo, di fronte alla nostra vita, di dire “Ecco, questo sono io”.
Può essere un momento eccitante; può essere un momento terrificante. Nella maggior parte dei casi, è tutt’e due le cose allo stesso tempo.
Eccitante, perché è una pubblica dichiarazione di onestà personale, di crescita, ma anche – ed è la cosa più importante – perché vuol dire uscire dalla segretezza ed entrare nel mistero.
Martin Buber dice che chi avanza verso la verità avanza verso Dio, verso la purezza di spirito e verso il mistero stesso della vita.
Ma il coming out di cui parliamo qui è di tutt’altro tipo. È qualcosa di più profondo dei coming out di cui sopra; il dramma è sostituito dalla reminiscenza. Non è tanto dire a noi stessi che siamo gay, quanto chiederci cosa questo significhi esattamente per noi; è guardare al mondo con realismo e decidere quali sono le battaglie che siamo disposti a ingaggiare con lui e quali sono le battaglie che siamo disposti a ingaggiare con noi stessi; è lasciar perdere la retorica e il facile manicheismo, ammettere che ambedue le parti possono avere ragione e possono avere torto, e mentre una data soluzione può apparire semplice, non abbiamo alcuna prova che la vita abbia mai compiuto un solo passo verso la semplicità.
Il coming out di cui sto parlando riguarda chi sono spiritualmente. Non ho problemi a dire alla gente che sono gay. Ma non è sempre facilissimo dire alla gente che sono cattolico. Il “Chi sono io per giudicare?” di papa Francesco, anche se del tutto estrapolato dal suo contesto e interpretato nelle maniere più fantasiose, ha comunque segnato un cambiamento di atteggiamento.
Che però non è così diffuso. Un recente sondaggio del Pew Research Center sugli LGBT americani mostra che il 48% degli intervistati – più del doppio della media nazionale – si considera ateo/agnostico oppure, semplicemente, non aderente a nessuna religione.
Del 51% che aderisce a una religione, il 26% è cattolico, di cui i due terzi ritengono che la loro Chiesa sia ostile nei loro confronti. Se si chiede agli intervistati di stilare una lista delle religioni che considerano più ostili, otto su dieci mettono in lista la Chiesa Cattolica, assieme alla Chiesa Mormone e all’Islam. Sono dati che spezzano il cuore, soprattutto perché l’ostilità a cui si fa riferimento non è semplicemente questione di qualche prete poco simpatico qui e là.
È, in parte, questione di dottrina. Durante gli anni in cui sono stato lontano dalla Chiesa, un periodo che ora vedo, onestamente, come un periodo di pigrizia spirituale, ero arrabbiato perché non volevo far parte di una organizzazione che considerava la mia inclinazione sessuale, per dirla con il catechismo, “intrinsecamente disordinata”.
Ma ora faccio parte del 26%, e la cosa ironica è che è stato un ex fidanzato, un uomo convertitosi al cattolicesimo, che mi ha fatto ritornare nella Chiesa. Mi ricordo che mi parlava della sua esperienza di conversione e che non avevo mai sentito nessuno, men che meno un uomo gay, parlare in maniera così felice, così sicura di sé, così enfatica della sua fede.
La mia relazione con lui è stata importante per il mio processo di coming out, ma è la sua sincerità spirituale che ancora adesso mi influenza. Sono cattolico. Sono gay e cattolico. E mi rattrista pensare che due terzi dei miei fratelli e sorelle non si sentono accolti nella loro Chiesa.
Nessuno dovrebbe sentirsi non accolto in una Chiesa, men che meno nella Chiesa. Mi rattrista in particolare perché so che non deve assolutamente essere così. Sono membro di una parrocchia di New York che è così accogliente da essere quasi una parodia dell’inclusione.
Ci sono tutte le razze, le età, molti disabili, molti stili e sensibilità, dai vecchi cattolici irlandesi all’antica al tipo neo-punk che viene quasi sempre alla messa delle 9. È una parrocchia nella quale le liturgie sono davvero vive, dove la gente davvero gioisce nel pregare assieme; una parrocchia con gruppi di preghiera, gruppi di giustizia sociale, un ricovero e una mensa per senzatetto.
Un luogo che sprigiona bontà che vi avvolge, in cui c’è voglia di fare. (Io sono lettore, ministro dell’Eucarestia e catechista per i bambini di terza elementare.) Ed è fantastico far parte di una comunità parrocchiale, un comunità di fede che fa esattamente quello che dovrebbe fare: ogni settimana mi convince che il cristianesimo, dopo tutto, potrebbe funzionare.
I gay spendono un sacco di energie nella ricerca dell’accettazione e della tolleranza. Fa proprio parte del nostro DNA. Ma la genuina accoglienza va molto oltre l’accettazione e la tolleranza. L’accoglienza è una gioiosa assurdità fatta di apertura e amore in cui tutti siamo una cosa sola, e ciò che più amo della mia parrocchia è che in essa non sono un cattolico gay. Sono semplicemente un cattolico, senza nulla di speciale.
Al contrario, vengo apprezzato, ma per il resto sono magnificamente dato per scontato. È un’accoglienza genuina che non ti accoglie semplicemente nella Chiesa; ti accoglie nel battesimo che per primo ti ha fatto Chiesa.
Noi cattolici abbiamo sentito un milione di volte che tutti sono benvenuti alla mensa, così tante volte che è quasi un luogo comune spirituale. Ma una volta che sperimentiamo veramente, realmente quell’accoglienza, quando l’invito va oltre la simpatia o la tolleranza cristiana e ci spinge verso lo spirito vivente della comunità di fede, verso la trascendenza, allora ci ricordiamo che Dio non ci accetta, non ci tollera. Dio ci ama. E quando mi ricordo questo, mi ricordo perché sono nella Chiesa, perché faccio parte del 26%.
Non sono nella Chiesa per il catechismo, sono nella Chiesa per il Credo. Sono nella Chiesa per la luce e la bellezza di cui faccio esperienza nel cuore del cattolicesimo, lontano da ogni politica, lontano persino da un bel pezzo di teologia.
Sono nella Chiesa per lo spirito dell’Eucarestia, della Scrittura, e soprattutto per lo spirito delle persone che assistono alla messa con me ogni domenica. Un paio di settimane fa ero seduto vicino a uno dei membri più anziani della parrocchia ed ero in lacrime di fronte alla semplicità, alla concentrazione e alla tranquilla gioia con cui cantava il salmo responsoriale.
Non c’è catechismo che possa arrivare a una cosa come questa. È questa esperienza della Chiesa a livello locale – la cosa veramente importante, secondo me – che mi dona speranza per la Chiesa nel suo complesso.
Sono un peccatore come chiunque altro nella mia parrocchia, ma il mio peccato non è la mia omosessualità. Il peccato insito nel mio essere gay consiste nel fatto che esso mi ha tentato, permesso – e incoraggiato, aggiungo – a pensare che in qualche modo fossi tagliato fuori dal resto della società, che non facessi veramente parte del mondo. Il peccato della mia omosessualità è che mi ha portato a credere a delle bugie – bugie mortali, bugie che uccidono l’anima -, un peccato per il quale mi pento con tutto il cuore.
Ma per grazia di Dio ho perdonato le persone che mi hanno raccontato quelle bugie e ho perdonato me stesso per averci creduto. Per la grazia delle persone con le quali prego ogni settimana, per l’amore che mi donano e per l’amore che dono loro in cambio, vado avanti con loro verso la verità: io sono parte della società. Io sono parte della natura. E sono, con grande felicità, parte della Chiesa.
Testo originale: Coming out Catholic