Essere gay e cristiani non è una croce
Articolo di Eleonora Vio pubblicato sul settimanale ELLE n.18/19 del 23 maggio 2020, pp.58-59
Sono più di 40 in Italia le comunità di omosessuali cattolici (e dei loro genitori) che chiedono ascolto alla chiesa. Il 17 maggio, giornata mondiale contro l’omofobia, qualcuno penserà anche a loro?
«La leggenda narra che, in questo stesso giorno d’inverno di alcuni secoli fa, due amanti omosessuali si siano appartati su una montagna e, scoperti dai loro compaesani, siano stati denudati e incatenati a un albero», raccontava Luigi Pollastro, giovane matematico campano, gay c cattolico, durante un ritrovo del gruppo giovanile di credenti LGBT+ (lesbiche, Gay, bisex, Trans), del Guado, lo scorso febbraio (2020). «La coppia supplicò la Vergine di salvarli ed ella li liberò. Da allora, nel giorno di Candelora, i cattolici LGBT+ partenopei organizzano un pellegrinaggio al santuario di Montevergine, per ringraziarla del miracolo».
Luigi quest’anno non ha potuto partecipare alla juta dei femminielli, come questa ricorrenza è chiamata nel gergo locale, ma ha approfittato di un momento d’intimità all’interno dell’isolata cascina fuori Vimercate, in Brianza, dove lui e altri venti ragazzi si sono riuniti come ogni mese, per ribadirne l’importanza.
«In quest’occasione, la comunità LGBT+ viene accolta all’interno dell’istituzione della Chiesa. Ed è bellissimo». E innegabile che, dall’inizio del suo pontificato, papa Bergoglio abbia voluto rompere a più livelli con l’intransigenza dei predecessori, tanto da diventare un punto di riferimento etico e morale non solo per i cristiani credenti, ma anche per tanti laici sparsi per il mondo.
Anche Francesco, però, pur sostenendo che le persone «con tendenza omosessuale» sono chiamate a «realizzare la volontà di Dio nella propria vita» proprio come gli altri, non mette in discussione il magistero secondo cui «gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati», ovvero contrari alla legge naturale.
«Di certo, il modo in cui vive il suo ruolo di papa ha dato legittimità a persone che prima erano escluse», spiega don Alessandro Santoro, prete alla periferia di Firenze, «ma dentro i gangli ecclesiastici non è cambiato nulla. Anzi, si è rafforzata la separazione tra preti di un tipo e quelli di un altro».
Don Alessandro ha sempre saputo da che parte stare. Anche dopo che gli è stata negata la possibilità di registrare le istanze matrimoniali, per avere celebrato l’unione religiosa di una donna transessuale col marito, rifarebbe tutto da capo. Ed è tra gli operatori pastorali che, fin dall’inizio, hanno dato supporto alla rete di giovani cattolici LGBT+ e loro genitori, nata dal basso cioè senza alcuna, almeno iniziale, intercessione da parte della Chiesa negli Anni 80, e ingranditasi in questo decennio fino a contare 45 gruppi diversi.
Le storie di centinaia di figli rifiutati e disprezzati si intrecciano con quelle di altrettanti genitori frastornati, incapaci di accoglierli e vederli per chi sono realmente.
«Quando ho scoperto la mia omosessualità la prima cosa che ho fatto è stata aprire il catechismo. Per quanto mi sentissi felice e innamorato, leggere che la mia condizione era contraria al piano di Dio, è stato scioccante», racconta Felice Cinque, 26 enne romano, trapiantato a Milano. «Mi ero rassegnato all’idea che l’omosessualità fosse una croce da sopportare».
È stato all’incirca alla stessa età che Filippo (nome di fantasia), cresciuto nel rigido ambiente cattolico veronese, ha voluto mettere fine alla profonda crisi dovuta alla progressiva realizzazione del suo orientamento sessuale, parlando apertamente con i genitori. «Ho ricevuto la reazione che nessuno vorrebbe avere», bisbiglia, ancora impaurito. «Mia mamma era terrorizzata; non ha preso nemmeno in considerazione che potessi essere così e mi ha mandato da uno psicologo, per guarire».
Spesso succede che, dopo il coming out, i figli “escano dall’armadio del nascondimento” (per usare un’espressione ricorrente a loro cara) e che, a prenderne il posto, siano i loro genitori sopraffatti dallo sconforto.
«Alla fine dell’università gli l’ho dovuto chiedere… Non vivevo più», racconta Mara Usai, madre di un figlio omosessuale e attiva nel Gruppo Davide di Parma, composto da genitori cattolici di figli LGBT+. «Avrei accettato di più una malattia; questa cosa per me rappresentava il peccato, era lontana anni luce dal piano che avevo per lui». Fu così che il figlio decise di andarsene di casa e di interrompere i rapporti con i genitori.
Sia nel caso dei figli cattolici LGBT+/ sia dei loro genitori, l’incontro con persone che hanno già metabolizzato esperienze simili è spesso provvidenziale. A indirizzare Felice verso i cristiani credenti LGBT+ di Nuova Proposta è stato il suo parroco, preoccupato per lui. «Mi immaginavo di incontrare persone che mi consigliassero come reprimermi», racconta Felice, pacato, «ma ho trovato ragazzi contenti, che vivevano la propria affettività alla luce della fede, c questo mi ha fatto cambiare qualcosa dentro».
Dal canto suo, Filippo ricorda ancora la prima volta che ha incontrato i giovani del Guado. «Ho dovuto fare appello a tutte le mie forze per venire qui, perché conoscere persone omosessuali voleva dire ammettere chi ero. Ero spaventatissimo», racconta. «Poi ho partecipato a vari incontri e oggi mi sento diverso».
Se Mara e il marito Agostino hanno riallacciato i rapporti col figlio Giovanni alcuni anni dopo la rottura, ce ne sono voluti dodici perché uscissero allo scoperto con la loro comunità. «Per puro caso abbiamo saputo della veglia contro l’omofobia a Reggio Emilia (dal 2004 si tiene ogni armo il 17 maggio in varie città italiane, ndr) e abbiamo deciso di andare», racconta Mara. «li abbiamo capito che una Chiesa diversa c più aperta era possibile».
Nello stesso periodo, si sono imbattuti anche in Corrado Contini, fondatore del Gruppo Davide di Parma. «L’abbiamo contattato e così è partito il bel cammino che stiamo facendo», aggiunge Mara, sorridendo. Un percorso che, al suo culmine, ha portato lei e Agostino a diventare 3VolteGenitori, come si chiama la più estesa rete nazionale in cui sono coinvolti da genitori finalmente orgogliosi dei propri figli omosessuali, sono diventati punti di riferimento per altri padri e madri e figli in crisi, e perni di nuove famiglie allargate.
«Ci sforziamo di tenere con una mano i nostri figli e con l’altra la Chiesa, senza perdere nessuno», interviene Corrado, sordo alle critiche che gli arrivano dalla comunità cattolica locale.
«Questi gruppi sono profetici», aggiunge Francesco Gagliardi, tra i fondatori dei giovani del Guado. «I cambiamenti all’interno della Chiesa sono sempre stati possibili, perché alcuni individui, i profeti appunto, hanno indicato strade nuove. Un po’ come noi».
Nel Vangelo secondo Matteo, Gesù dice: «Beati i perseguitati». Per via dell’esclusione cui sono sottoposti infatti, i perseguitati, e così anche gli omosessuali, sono spesso più inclini ad accogliere chi è diverso. Ed è questo il contributo che i protagonisti di queste esperienze pastorali ai margini vorrebbero dare alla Chiesa. A pensarci bene, però, questo messaggio dovrebbe riguardare tutti, credenti e non.