Le vite segrete delle persone LGBT in Senegal
Articolo* di Aurélie Kieffer e William de Lesseux pubblicato sul sito dell’emittente France Culture (Francia) l’11 settembre 2020, liberamente tradotto da Carole Oulato
L’omosessualità, punita in Senegal con il carcere fino a cinque anni, è rigettata dalle famiglie, dalle comunità e dalle confraternite religiose del paese. Per sopravvivere e continuare ad avere una vita sociale, familiare ed anche professionale, molti membri della comunità LGBTI sono costretti al silenzio.
Nascondersi. Questa è la vita che ha scelto di condurre Samir, 28 anni. Il giovane vive a Thiès, a un centinaio di chilometri da Dakar. Vive con la sua famiglia, la quale non sa che è omosessuale: “Faccio di tutto affinché non se ne accorgano. Conduco una doppia vita” ci confida lo studente Samir, che partecipa anche ad azioni di sensibilizzazione contro l’HIV presso la comunità LGBTI.
Samir, che indossa una camicia blu ed un pantalone chiaro, prende posto nel bar discreto della città in cui ha scelto che ci ritrovassimo per raccogliere la sua testimonianza, lontano dalla casa dei suoi genitori, situata in un quartiere popolare della città: “Evito di parlare al telefono con i miei amici… e logicamente non posso neanche invitarli da me” scherza.
“Ma la cosa più difficile è dover ascoltare quotidianamente parole che feriscono: quando avviene un fatto di cronaca che riguarda gli omosessuali, in televisione o in radio, ne sento di tutte i colori dalla bocca di mia madre… ‘Ci contamineranno’. Non so mai cosa fare in quei momenti: salgo in camera mia per evitare di ascoltarla.”
Un fatto di cronaca, riguardante una banda di giovani che ha scoperto degli omosessuali a pochi passi da casa sua, ha particolarmente turbato Samir: “Due omosessuali scoperti in flagrante in un taxi!” titolava la stampa online, assieme a certi quotidiani privati. Quel giorno di marzo prese le loro difese davanti ai suoi genitori: “Era una cosa sospetta per loro. Ho dovuto smettere di difendere le persone LGBT con la mia famiglia, perché farlo mi creava solo dei problemi”. L’argomento è tabù, e Samir sa che deve tacere per poter continuare a vivere dai suoi.
“La società non è pronta”
In vigore dagli anni ‘60, l’articolo 319 del codice penale senegalese recita: “Chiunque avrà commesso un atto impuro o contro natura con un individuo dello stesso sesso, rischia il carcere da uno a cinque anni”.
La depenalizzazione non è all’ordine del giorno: il presidente Macky Sall, interrogato a fianco del primo ministro canadese Justin Trudeau nel febbraio di quest’anno [2020], ha respinto una volta per tutte la possibilità di una modifica legislativa: “Non si può certo chiedere al Senegal di dire: Domani legalizziamo l’omosessualità e domani c’è il gay pride, etc…”.
La ragione è semplice per le autorità: “La società non è pronta. La società non accetterà mai una tale legalizzazione” spiega il ministro della giustizia Malick Sall. Il rigetto proviene proprio dalle famiglie, dalle comunità e dalle confraternite religiose del paese.
Tale sentimento è propagato da associazioni religiose molto ascoltate in Senegal, come la ONG islamica Jamra, che avendo accesso a influenti media, ricorda quali sono i “valori morali” del Paese; “In Senegal il 95% della popolazione è musulmana, mentre il restante 4% è cattolico. 99% di credenti!” esclama Mame Mactar Gueye, vice presidente della ONG; “È normale che l’omosessualità venga rigettata. È contro natura, un uomo deve andare con una donna, non bisogna essere egoisti”.
Privati di mezzi da ormai una decina d’anni, i militanti LGBTI senegalesi vivono nascosti, portano avanti in silenzio delle azioni di prevenzione e di aiuto “per le popolazioni chiave” – il termine utilizzato dalle autorità e dalle associazioni per designare gli omosessuali, specialmente nella lotta contro l’HIV. Ma hanno abbandonato il terreno della rivendicazione dei diritti.
In passato, i cadaveri di alcuni omosessuali non hanno potuto essere sotterrati nei cimiteri musulmani, a causa della protesta dei residenti. Una serie di episodi che non dimenticherà mai Djamil Bangoura, presidente dell’associazione Prudence-plus, che si batte contro l’HIV. L’uomo ha dovuto andare in esilio numerose volte a seguito delle persecuzioni. Al telefono ci racconta: “Il nostro locale è stato saccheggiato, e più di una volta sono pure stato obbligato a fuggire, spinto da alcuni amici che temevano fossi in serio pericolo”. Djamil constata la letargia odierna del movimento militante, “la società civile non svolge più il suo lavoro”, afferma amaramente.
Rifiuto di massa
Alcuni non hanno avuto altra scelta se non quella di abbandonare il Senegal, dopo che i loro familiari avevano scoperto il loro orientamento sessuale. È quello che racconta Babacar, che oggi vive a Argenton-sur-Creuse, nel dipartimento francese di Indre, a sud di Châteauroux. Per raggiungere l’Esagono ha dovuto attraversare un Paese europeo. Obiettivo: chiedere asilo. L’uomo è stato accolto da una casa di accoglienza d’urgenza. Finalmente una situazione stabile, dopo mesi in cui è stato senza fissa dimora. Il suo esilio dal Senegal è stato accelerato da una “catastrofe” avvenuta meno di un anno fa. Allora Babacar era un uomo sposato.
Quel giorno, la moglie uscì dal loro appartamento situato in una grande città senegalese. Un’uscita notturna. “Mi dice che si sarebbe assentata per recarsi da una amica. Non c’era nessun problema per me. Chiamai un mio amico” racconta Babacar mentre è seduto su una panchina ad Argenton: “Venne da me, ci eravamo detti che ci saremmo divertiti… Tutto andava a meraviglia, fino a quando sentii un rumore in salone”. Sua moglie non aveva mai previsto di passare la notte fuori: aveva preparato tutto per cogliere suo marito in flagrante: “Fu una cosa terribile. Entrò nella camera e ci trovò in una posizione sconveniente. Sono stato disonorato. Non sapevo cosa dire. Ha gridato, gridato e ha allertato tutto il quartiere, tutta la famiglia”.
Il giorno dopo, Babacar dovette andarsene via dal quartiere, a causa delle domande, degli insulti dei suoi cari, e suo fratello, che era anche un suo impiegato, si licenziò. Suo suocero gli ordinò di divorziare. Babacar ha lasciato tre figli in Senegal.
“So che è non è facile avere un padre gay in Senegal. Un giorno sapranno che sono il loro papà, che li amo e che posso fare delle belle cose per loro.”
* Le identità di tutti i testimoni di questo reportage sono state modificate per preservare la loro sicurezza.
Testo originale: Les LGBTI au Sénégal, une vie au secret